venerdì 4 novembre 2011

William Elliott Whitmore - Field songs

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Esiste un’America profondamente innamorata delle proprie radici musicali; un manipolo di musicisti che rivolgono il proprio sguardo a musiche del passato, attualizzandole, innervandone il suono con nuova energia. Old Crow Medicine Show, Carolina Chocolate Drops, Gillian Welch e Dave Rawlings, sono solo alcuni nomi di questa sempre più nutrita cerchia di revivalisti, alla quale appartiene a tutti gli effetti anche William Elliott Whitmore.
Cresciuto in una comune punk, il nostro ha sempre cercato, nei suoi dischi, di inglobare la tradizione musicale afroamericana, fondendola con elementi prettamente moderni. Ne è nata una formula sonora, accattivante e di grande suggestione, che ha visto nel precedente Animals In The Dark la sintesi perfetta di questo connubio tra tradizione e modernità. Ritiratosi in una piccola fattoria, a Montrose, nello sperduto e natio stato dell’Iowa, Whitmore si dedica oggi, oltre che alla musica, anche al lavoro nei campi. Una vita dura e faticosa, capace di avvicinarlo ulteriormente alle proprie radici musicali, a quel blues prebellico e a quel folk che risuonavano nelle campagne nei primi decenni del secolo scorso. E proprio da questo ambiente agreste sono scaturite otto piccole gemme; otto composizioni dal sapore antico, che compongono Field Songs, sua ultima, stupenda fatica discografica. Whitmore ha più volte dichiarato di essersi voluto identificare attraverso queste canzoni, con tutte quelle persone che nel mondo faticano per sopravvivere; gente reale che si alza al mattino e fa il proprio lavoro senza lamentarsi e senza arrendersi mai. Parole che descrivono perfettamente la profonda valenza socio-musicale di Field Songs, ricordando quelle utilizzate in passato da Woody Guthrie, il più grande folk singer di sempre, per descrivere le proprie composizioni. Ed è proprio l’analogia con il cantore di Okemah, quella che balza all’orecchio. Le liriche sono, infatti, per entrambi parte fondamentale della composizione, in quanto capaci di risvegliare le coscienze, mettendo in luce soprusi e ingiustizie.
E in Field Songs la scrittura di Whitmore raggiunge livelli altissimi, narrando vicende e storie nelle quali ognuno di noi può identificarsi. Storie di sudore, rabbia e dolore, di un’umanità spesso senza voce, ma che vive e lotta ogni giorno con tutta la propria forza. Argomenti tremendamente attuali, che il nostro canta con un trasporto e con un’anima difficilmente ritrovabile in molti dei suoi colleghi incensati dalla critica. E proprio la voce di Whitmore ha ruolo preponderante nell’economia sonora del disco; una voce rauca, scura, profondamente nera, che ti penetra dentro rivoltandoti l’anima. Una voce che spicca per liricità su di un impianto musicale scarno e acustico, nel quale sono il banjo e la chitarra a dettare i ritmi, con una grancassa che compare in un paio d’occasioni.
Registrato in solitario e in presa diretta Field Songs sembra far parte delle registrazioni effettuate sul campo da John e Alan Lomax negli anni ’30. A questo si aggiungono delle vere e proprie field recordings, ad opera dello stesso Whitmore, registrate nei dintorni della propria fattoria, che ci accompagnano dalla prima canzone (il canto di un gallo) all’ultima (il gracidio delle rane e il frinire dei grilli), in una sorta di metaforico viaggio attraverso una giornata di duro lavoro nei campi. Ed è proprio questa l’aria che si respira all’ascolto del disco, tra forti sapori blues, folk bucolico e canti di lavoro, che caratterizzavano nel passato la vita agreste. Atmosfere old time delle quali è permeata Bury Your Burdens In The Ground, intrisa della struggente liricità del gospel con il banjo a tessere la linea ritmica e melodica, che ci invita a seppellire i nostri fardelli e continuare la nostra vita imparando dagli errori commessi. Field Song sembra invece provenire da un campo di cotone, una sorta di holler del nuovo millennio, con la voce di Whitmore che si fa scura, rauca, per un’interpretazione al limite della sofferenza. Sofferenza che ritroviamo nelle drammaticità di Don’t Need It, in odore di blues, dove fa la sua comparsa una chitarra elettrica, unica concessione modernista dell’intero lavoro. Di rara intensità è la successiva Everything Gets Gone, tersa ballata per sola voce e chitarra, nella miglior tradizione del folk statunitense. Il banjo di Let’s Do Something Impossibile ci riporta nuovamente ad atmosfere arcaiche e rurali, diretta discendente della musica dei Monti Appalachi. Utopica e sognante è Get There From Here, mentre ritroviamo nuovamente elementi cari al gospel in We’ll Carry On, che incanta tra speranza e sogni per un futuro migliore. Chiude il disco la magnifica Not Feeling Any Pain, ben rappresentativa della caratura artistica dell’intero lavoro.
In Field Songs Whitmore è riuscito a far emergere, ancor più che in passato, il proprio talento compositivo e interpretativo, confermandosi come uno dei più validi e sinceri prosecutori di una tradizione musicale ancora vitale. Sono sicuro che da lassù il buon vecchio Woody starà sorridendo soddisfatto.



                        

Nessun commento:

Posta un commento