venerdì 30 agosto 2013

Tizio Bononcini - Entrambi tre

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Bologna è una città unanimemente associata, perlomeno a livello musicale, ad una fervida stagione cantautorale foriera in passato di veri e propri pesi massimi del genere. Una culla autoriale, quella sviluppatasi all’ombra delle torri cittadine, che pare ancor oggi saper sfornare nuove “giovani leve”, alle quali appartiene senza dubbio Tizio Bononcini, arrivato oggi, e dopo tortuosi percorsi musicali, con Entrambi Tre al proprio debutto. Primo vagito discografico sviluppatosi grazie all’incontro con il violoncellista Vincenzo De Franco, il quale, convintosi della bontà delle composizioni del pianista bolognese, decise di occuparsi degli arrangiamenti di quest’ultime, ponendo di fatto le basi di un sodalizio oggi trasposto, tra i righi e gli spazi, in nove piccoli esempi di pregevole artigianato sonoro.
Nove storie di personaggi tra realtà ed immaginazione, in quella che a tutti gli effetti potrebbe essere definita quale opera associabile al concetto di teatro-canzone, con la voce dello stesso Bononcini che sorprende per ironica e goliardica capacità interpretativa. E se la voce medesima rappresenta un’ideale fulcro narrativo, il suo equivalente sonico lo si trova senza dubbio tra i tasti neri e bianchi del pianoforte, percosso dal nostro in un continuo rincorrersi e ritrovarsi con il violoncello di De Franco. Proprio l’accostamento tra i due suddetti strumenti crea un’accattivante aura melodica pervadente la quasi totalità delle composizioni, alla quale fanno da contrappunto gli interventi, mai invasivi, tanto del basso di Mariano Robortella e delle percussioni di Max D’Adda, quanto di ben più strani “strumenti”, quali vere e proprie pentole, percosse dallo stesso titolare. L’apertura, affidata alla delicata Topi E Ballerine, è tuttavia appannaggio dei soli pianoforte e violoncello, con il primo a tracciare la linea melodica, e il secondo ad affrescare il tutto con arabescati volteggi armonici. La title track, dal canto suo, fa propri stilemi cari a certo blues di stampo pianistico, mentre aromi latini impregnano tanto una briosa Il Cavaliere Dalla Trista Figura, dedicata al personaggio cervantesiano di Don Chisciotte, quanto la caposseliana La Donna Amante Dei Gatti. L’impronta teatrale del progetto si avverte maggiormente in brani quali Monsieur Dupont, tra trascinate reminescenze jazzy ed soffusi intermezzi a tempo di valzer; o nel gigionesco recitativo di Il Mio Collega Economista, con un ottimo lavorio strumentale collettivo sullo sfondo, per farsi, infine, ulteriormente marcata in Arlecchinata, autentico vertice interpretativo, nonché compositivo, della raccolta. Abilità narrativa, gusto per la melodia, ed una felice vena compositiva; queste le qualità di un cantautore che dimostra, con questa sua opera prima, di aver già raggiunto un notevole livello di maturità artistica.

Daughn Gibson - Me moan

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se l’esordio All Hell aveva ricevuto il plauso di critica e pubblico, aprendogli al contempo le porte della Sub Pop; con Me Moan, sua opera prima sotto l’egida dell’etichetta di Seattle, Daughn Gibson oggi porta avanti il proprio viaggio esplorativo, alla scoperta di nuovi meandri del suo Io sonico. Comune denominatore tra le due opere è tuttavia la voce baritonale dell’ex camionista di Nazareth, Pennsylvania, in questo frangente più vicina a quella di un Nick Cave dalle tinte gotiche, che alle precedenti, cavernose, tonalità cashiane. D’altra parte al nostro era stato affibbiato l’appellativo di “gothic cowboy”, a dir poco calzante nel descrivere tanto la tetra oscurità delle sue trame sonore, quanto la presenza, tra i solchi, di lontani echi di quel country ascoltato in passato, magari alla radio, durante gli interminabili viaggi lungo le highway americane. Country sapientemente ibridato attraverso sparute iniezioni elettroniche, come in Kissing On The Blacktop, quasi un’allucinata, e mai pubblicata, session, per la serie su American Recordings, tra Johnny Cash e Martin Gore, sotto l’attenta supervisione di Rick Rubin; o come ribadito da All My Days Off, tra sulfureo rumorismo elettronico e il plumbeo ondeggiare melodico di una lapsteel. Sembra invece sbocciare dalle “Cattive Sementi” caveiane l’opener The Sound Of Law, in un funereo sussultare ritmico, con Gibson protagonista di una sensuale quanto declamatoria interpretazione vocale, che molto deve proprio al “collega” australiano. Una fascinazione sonora dalle tinte dark che sembra pervadere in particolar modo gli episodi di maggior introspezione lirica, come la liquida litania di The Pisgee Nest, o un’eterea Franco, con la presenza, sullo sfondo, degli spettri electro già elemento peculiare di All Hell. Figure soniche dalle fattezze ectoplasmatiche che fanno qui la loro comparsa, come evocate da un’immaginaria seduta spiritica, tanto nella marzialità deviata di una The Right Signs, avvolta nel finale da spire orientaleggianti, quanto nei palpiti modernisti di Phantom Rider. E se la scura fascinazione di Mad Ocean, con tanto di cornamuse campionate, sembra rappresentare l’ideale sunto sonico delle velleità artistiche e sperimentali gibsoniane, la conclusiva Into The Sea è invece un commiato, d’atmosferica intensità, da un album che non solo equipara la bontà del suo predecessore ma va a posizionarsi un gradino sopra di esso.