venerdì 4 novembre 2011

Ry Cooder - Pull up some dust and sit down

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Alla soglia dei 65 anni Ry Cooder non finisce di stupire. Dopo una straordinaria carriera contraddistinta dalla ricerca etno-musicologica, il chitarrista decide di scrivere canzoni vere, canzoni per la gente. Pull Up Some Dust And Sit Down, da un modo di dire degli anni Trenta, è una sorta di invito alla conversazione, a fermarsi a pensare. Ed è proprio a quegli anni che il nostro ha rivolto lo sguardo, agli anni della Grande Depressione, anni di lotta, sofferenza e disillusione. Tematiche purtroppo ancora attuali, in una società nella quale il gap tra ricchi e poveri si va ulteriormente allargando. I tempi sono difficili e Cooder ha deciso di far sentire la propria voce, come Woody Guthrie, Pete Seeger e molti altri avevano fatto prima di lui. Per farlo chiama a se, oltre al figlio Joachim, alcuni vecchi e fidati pards, come l’immortale Flaco Jimenez, Terry Evans, Willie Green, Arnold McCuller e Jim Keltner, approntando un disco di protesta forte e vigoroso, tra folk, blues e musica messicana, composto da 14 canzoni che sono altrettante urla di rabbia e dolore. Un esempio è la feroce Quicksand, già pubblicata prima dell’uscita del disco su I-Tunes, che si scaglia contro le repressive leggi anti immigrazione dello stato dell’Arizona, e i cui proventi verranno destinati al MALDEF (acronimo di Mexican American Legal Defense And Education Fund) che cerca di proteggere i diritti degli immigrati messicani. Alla marcia di stampo folk No Banker Left Behind spetta invece il compito di aprire l’album, e rievocando il titolo di un articolo apparso sul settimanale Truthdig, se la prende con le banche e lo strozzinaggio legalizzato, veri e propri cancri dell’economia mondiale. El corrido de Jesse James è puro mexican style, un armonioso valzer dove la protagonista indiscussa è la fisarmonica di Jimenez, ben sostenuta dai fiati della 10 Banda. Atmosfere messicane che pervadono anche l’incalzante Christmas Time This Year, che attinge dalla più pura tradizione nortena. Dirty Chateau e Baby Joined The Army sono due toccanti ed intense ballate; nella prima fanno la loro comparsa anche dei violini, mentre nella seconda troviamo il nostro impegnato a destreggiarsi in solitario con la propria chitarra. Humpty Dumpty World pare uscita da uno dei suoi primi lavori, riprendendo quegli stilemi sonori che sono diventati il suo marchio di fabbrica. Lord Tell Me Why è una sorta di gospel post apocalittico, con la batteria di Jim Keltner a dettare il ritmo e con un sapiente uso del call and response grazie anche all’apporto delle voci di Terry Evans, Arnold McCuller e Willie Green. Waitisiana per sonorità e interpretazione è invece la rabbiosa e convulsa I Want My Crown, con il nostro quasi diabolico alla voce. Entriamo in territorio blues con John Lee Hooker For President, dove Cooder ci narra cosa sarebbe potuto accadere se John Lee Hooker fosse diventato presidente degli Stati Uniti, riprendendo musicalmente lo stile del bluesman afroamericano. If There’s A God è un’ulteriore profonda critica nei confronti degli Stati Uniti, mentre Dreamer ci riporta nuovamente oltre il confine, in terra messicana. Simple Tools e No Hard Feelings sono ancora una volta due ballate che conquistano grazie alla loro suggestiva melodia e al sinuoso andamento.
Un album polemico, duro e politicizzato ma dalla bellezza adamantina. Un album coraggioso, scritto e suonato per far aprire gli occhi alla gente su di un mondo che sta scivolando verso un baratro senza ritorno.


                       

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