venerdì 27 aprile 2012

Van Morrison - Moondance

(Pubblicato su Rootshighway)

Dopo le meravigliose digressioni musicali delle "settimane astrali", il cantante irlandese decide di esplorare la dimensione più intima e raccolta della propria musica, dando alle stampe Moondance. Qui a riaffiorare sono reminescenze blues, gospel, folk e jazz, da sempre tuttavia presenti nel background del nostro. Abbandonate le dilatate composizioni del precedente album qui ci troviamo di fronte a dieci brani facenti capo alla più classica forma canzone, sia per impostazione che per durata. Dieci brani nei quali l'indiscussa protagonista è la voce di Morrison, capace di raggiungere livelli eccelsi. Su tutte spicca, proprio a livello di prestazione vocale lo swing di Moondance, che al pari all'ariosa Into the Mystic, rappresenta l'apice dell'album per purezza sonora. La penna di "The Man" si conferma tuttavia sempre di altissimo livello, dando alla luce altri piccoli capolavori come la struggente Crazy Love, l'incalzante Caravan e la sensualità della magnifica And it Stoned Me. Un disco essenziale, ennesimo straordinario capitolo della discografia di un musicista capace di stupire e conquistare ogni qualvolta prenda un microfono tra le mani.

martedì 24 aprile 2012

The Band - The Band

(Pubblicato su Rootshighway)


Uscito dopo il pastorale Music from Big Pink, l'omonimo disco della Band, noto ai più anche con il nome di "Brown album", è l'opera della maturità del gruppo americano. Se infatti con l'esordio dell'anno precedente i nostri avevano saputo trasporre in musica il mondo rurale statunitense, gettando al contempo le basi del cosiddetto suono Americana, è proprio con questo secondo album che focalizzano ulteriormente il loro lavoro di ricerca. L'opener Across the Great Divide è emblematica di come il gruppo voglia attraversare ogni confine, sia esso fisico o sonoro, tra nord e sud, tra le bucoliche zone rurali e i caotici agglomerati urbani. In un suggestivo excursus musicale si passa così dall'incalzante piano di Rag Mama Rag alla sincopata Up on Cripple Creek, con in entrambe la voce, dalla profonda inflessione sudista, di Levon Helm in primo piano, fino alla corale e conclusiva King harvest (Has Surely Come). Ad incantare in Whispering pines è invece la leggiadria vocale di Richard Manuel, mentre l'epicità narrativa di The Night they Drove Old Dixie Down rimane uno dei punti più alti raggiunti dal songwriting di Robbie Robertson. Se Music from Big Pink resta avvolto dall'aura del mito, il "Brown album", dal canto suo, rappresenta il capolavoro di quell'eccelso e leggendario quintetto chiamato semplicemente The Band.

venerdì 20 aprile 2012

Dr John - Locked down

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Mac Rebennack non delude mai. Partendo da questo presupposto devo comunque ammettere che non avevo accolto con gioia la notizia della partecipazione al disco, in veste di produttore, di Dan Auerbach. Sia ben chiaro, massimo rispetto per la mente dei Black Keys, ma visti i suonacci che caratterizzavano, a mio avviso, proprio l’opera più recente del duo di Akron la mia paura era che questi ultimi potessero andare ad inficiare la qualità della musica del “Dottore”. Una prima sorpresa è stata quindi ascoltare come il buon Auerbach abbia saputo attualizzare il suono rebennackiano senza snaturalizzarne troppo i tratti distintivi e al tempo stesso, e qui fortunatamente si sente la mancanza della sciagurata mano di Danger Mouse, senza ricorrere a tronfie sonorità mainstream. La parte del leone la recita comunque il vecchio Dr John, optando per un’ulteriore trasformazione sonora, rispetto al precedente Tribal, in quello che può essere visto come un vero e proprio ritorno alle origini. Sembra infatti di essere tornati alla fine degli anni ’60 quando il nostro uscì dalle fangose acque del bayou per dare alle stampe due dischi, Gris Gris e Babylon, intrisi degli umori musicali della sua Louisiana, tra alligatori, riti voodoo e deliranti divagazioni psichedeliche. Album che vengono richiamati alla mente fin dalla copertina, mostrante il nostro agghindato come ai bei vecchi tempi quando era universalmente conosciuto come “The Night Tripper”. Esempi sonori di questo ritorno alle origini sono senza dubbio la title track, dalle robuste iniezioni funk, che si apre tra stridori e urla animalesche, oppure la salmodiante Eleggua, puro Big Easy Sound, in un continuo rincorrersi di voci e suoni. Uno dei meriti di Auerbach è sicuramente quello di aver coinvolto nelle registrazioni un gruppo di musicisti solido e rodato, puntando in particolar modo su di un costante e insistito uso di un groove funk dal sapore modernista, che ben si confà alle atmosfere sonore volute dal “Dottore”, portando alla creazione di un suono in bilico tra passato e futuro, tra la primitività dei ritmi del bayou e il beat tecnologico del rock odierno. Quello che ne fuoriesce sono canzoni dall’appeal sonoro immediato, grazie anche al loro avvolgente incedere, come Revolution, sinuoso blues venato di funk dai marcati rimandi blackkeysiani, oppure la vorticosa Getaway, che sfocia in un assolo finale di stampo hendrixiano, ad opera della chitarra dello stesso Auerbach. Lavoro ritmico che trova la sua ideale valvola di sfogo in brani come la sincopata Kingdom Of Izzness o negli ipnotici echi tribali di Ice Age. C’è spazio anche per il blues, nell’accezione bastarda del termine in You Lie con ancora una metronomica sezione ritmica sugli scudi, o quello dalle radici neworleansiane nella suadente Big Shot. Esula in parte dal contesto sonoro generale la struggente melodia soul di My Children, My Angels, mentre la conclusiva ed incalzante God’s Sure Good affonda le sue radici nel gospel, con le voci delle McCrary Sisters ad impreziosire il tutto. Quello che tuttavia appare chiaro dall’ascolto dell’album è come la vitalità compositiva ed esecutiva di Dr John non si sia minimamente affievolita, tutt’altro, mostrandoci al contempo un musicista con ancora una grande voglia di osare e di mettersi in gioco. Se siete in crisi d’astinenza da buona musica, la cura è una sola; forti dosi di Locked Down, parola di “Dottore”.

martedì 17 aprile 2012

David Crosby - If I Could Only Remember My Name

(Pubblicato su Rootshighway)

Esplicativo fin dal titolo If I Could Only Remember My Name, rappresenta l'epitaffio musicale di un'era, quella del flower power, giunta ormai alla sua conclusione. Era quest'ultima che aveva portato, sia sul piano sociale che su quello musicale, alla nascita di speranze e sogni per un futuro migliore. Ed è quindi con rassegnazione che viene accettata la triste realtà di un mondo in cui non c'è spazio per "pace, amore e musica", e nel quale i sogni di cambiamento vengono il più delle volte disillusi. Seppur consci del tramonto di una stagione irripetibile, un gruppo di compagni e musicisti decidono di riunirsi intorno al comune amico David Crosby, nonché catalizzatore e figura simbolo della love generation, per scrivere una sorta di testamento musicale del movimento. Graham Nash, Neil Young, Joni Mitchell, membri di Jefferson Airplane e Grateful Dead, David Frieberg dei Quicksilver Messenger Service, uniscono le proprie forze per dare alla luce un album vivo e pulsante pur nell'accettazione di una triste quanto inevitabile realtà. Uno sforzo corale di sublime splendore, tra fluttuanti arpeggi di chitarra, rimandi lisergici ed oniriche composizioni. Un album che va ascoltato e riascoltato per ricordarci di un'epoca in cui si era ancora capaci di sognare.

sabato 14 aprile 2012

Miss Quincy - Like the devil does

(Pubblicato su Rootshighway)


Se l'esordio dello scorso anno, Your Mama Don't Like Me, era pervaso da arcaiche atmosfere acustiche in odore di roots music (aggiudicandosi tra l'altro un BC Indie Awards come miglior album di folk tradizionale), con questo Like the Devil Does, Miss Quincy intraprende un nuovo cammino all'interno della tradizione musicale americana, ampliando la propria cifra stilistica fino ad inglobare densi ed elettrici umori blues e melliflue reminescenze jazz. Esplorazione sonora che trova giovamento dall'apporto della sua nuova band, The Showdown, all female duo formato da Shari Rae al contrabbasso e da Holly Magnus alla batteria (entrambe anche alle backing vocals), al quale si aggiungono alcune incursioni strumentali esterne, sapientemente orchestrate dal produttore Tim Williams. Proprio a quest'ultimo va ascritto gran parte della buona riuscita dell'intero album, grazie a una produzione mai invasiva ma bensì mirante a privilegiare la genuinità musicale della cantautrice canadese. Il resto lo fa la penna della stessa Miss Quincy che, unita a una vocalità tanto espressiva quanto versatile e ad un'invidiabile abilità chitarristica, confeziona una manciata di composizioni di rara bellezza.
Esplicativa del nuovo percorso sonoro è la title track, posta in apertura, tra fangose rimembranze blues, l'avvolgente liquidità di un organo e il solido supporto ritmico di contrabbasso e batteria. Dalle parti del border si attesta invece la successiva Going Down, che riporta alla mente atmosfere sonore care ai Calexico, con la sezione ritmica che suona tanto parca quanto precisa, e dove spicca una sofferta interpretazione vocale della nostra. Dirty Sunday è un riuscito e rallentato shuffle, ottimamente suonato e interpretato dalla canadese, che dimostra in questo frangente nuove velleità da blueswoman, in parte celate nel disco precedente. La sezione ritmica assurge a protagonista nel notturno reprise di I Want a Little Sugar in My Bowl, dal songbook di Nina Simone, con la suadente vocalità di Miss Quincy ben contrappuntata dagli interventi di una tromba che pare arrivare da un fumoso jazz club newyorkese. La sostenuta Dangerous dal canto suo, riprende i dettami del boom-chicka-boom di cashiana memoria, aggiungendovi l'ulteriore apporto melodico di un violino. In Til the Money Comes In e Dawson City line a fare capolino è invece l'anima rootsy dell'artista: la prima è una lirica ballata virata verso lidi country, mentre nella seconda la presenza di un banjo ammanta il tutto di tradizione folk. Echi blues sono ancora una volta presenti in Silent movie, complice anche un percussivo barrelhouse piano, così come nella divagazione sonora per chitarra slide di Hurricane, tra cambi di tempo, stacchi e ripartenze. Nella toccante liricità di Carmen, piccolo gioiello di stampo folkie, a colpire è la straordinaria somiglianza tra la vocalità della cantante canadese con quella di Ani DiFranco, tanto che in un blind test si rischierebbe seriamente di scambiare il brano in questione per uno appartenente al repertorio della cantautrice di Buffalo. Un album tanto variegato quanto affascinante, che conferma il talento e la versatilità di un'artista, Miss Quincy, in costante crescita.

mercoledì 11 aprile 2012

Little Feat - Waiting for Columbus

(Pubblicato su Rootshighway)

I Settanta sono stati anni gloriosi per il rock a stelle e strisce in tutte le sue varie sfaccettature, con una fervente attività in studio e non, con la relativa pubblicazione di album dal vivo entrati di diritto nella storia, per importanza storica e musicale. Waiting for Columbus, uscito nel 1978, oltre a far parte di questi ultimi, ha anche il pregio di fotografare un gruppo, i Little Feat, in uno dei momenti di loro massimo splendore. La band capitanata dal corpulento asso della chitarra slide, Lowell George, sembra nata per calcare le assi di un palcoscenico, dove la loro intrigante formula sonora a base di blues, folk, elementi soul e un'impronta ritmica tipicamente neworleansiana, è libera di emergere in tutta la sua magnificenza. Attorniato da strumentisti dalle eccelse doti tecniche (Paul Barrere e Bill Payne su tutti) George ci guida in un orgiastico calderone sonoro che a partire dalla sarabanda ritmica in puro stile New Orleans di Fath Man in the Bathtub, passando per il r'n'b in salsa southern di Oh Atlanta si conclude con il tripudio finale di una Feats Don't Fail Me Now mai così intensa e trascinante. A questi si aggiungono dilatate versioni di classici come Dixie Chicken e Sailin Shoes, la suadente Spanish Moon e l'immortale Willin, a completare un'incandescente magma sonoro capace di inglobare al suo interno sia le assolate sonorità di stampo californiano che gli oscuri ritmi voodoo della Louisiana.

martedì 10 aprile 2012

Grateful Dead - American beauty

(Pubblicato su Rootshighway)

Se è dal vivo che i Grateful Dead hanno scritto pagine a dir poco memorabili, non sempre tanta grazia e vitalità musicale è riuscita a trovare una sua naturale prosecuzione entro le limitanti pareti di uno studio di registrazione. La discografia deadiana vede infatti alternarsi ad album ispirati e di pregevole fattura, altri di peso specifico minore. American Beauty, uscito nel 1970, a pochi mesi dal gemello Workingman's dead, oltre ad essere insieme a quest'ultimo frutto della svolta country folk di Jerry Garcia e soci, appartiene di diritto al novero delle loro opere più belle. Il Morto riconoscente, abbandonate infatti le proprie siderali esplorazioni musicali, poggia i piedi nelle polverose strade dell'America rurale e arcaica. Tra atmosfere elettroacustiche e rimandi alla tradizione musicale americana, Garcia, in coppia con il paroliere di fiducia Robert Hunter, appronta una manciata di brani dal fascino senza tempo. Se Ripple è pura tradizione (complice anche il mandolino di David Grisman), composizioni del calibro di Friend of the Devil, Sugar Magnolia e Truckin, sono ulteriori testimonianze della caratura artistica di un disco capace di conservare ancor oggi intatta tutta la propria folgorante bellezza.

sabato 7 aprile 2012

Esclà - Salta il tappo

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Miscelate sapientemente rock, canzone d’autore e folk con l’effervescenza e la solarità di ska e reggae. Ora versate il tutto in una bottiglia e lasciate riposare. Quando la sete di buona musica vi attanaglierà non dovrete far altro che stappare la bottiglia medesima, dissetandovi così con una frizzante bevanda musicale, simile al miglior Lambrusco. Proprio al gusto dolce e frizzante del vino emiliano può essere associata la musica dei bolognesi Esclà, giunti con questo Salta Il Tappo, interamente autoprodotto, al loro secondo lavoro. Una miscela sonora, quella approntata dalla band, fresca e coinvolgente che trova nel rock le proprie fondamenta, pur diramandosi verso territori cari al reggae e allo ska, fino a lambire i confini del folk e della musica d’autore. Una poliedricità sonica che ritroviamo alla base di brani come Alfredo, posta in apertura, in bilico tra ska e rock, o nella title track, dal trascinante ritmo in levare. Più swingata ed avvolgente è Romantico Smog, mentre la successiva Spazzanoia, è un riuscito rock’n’roll di matrice americana. Il funk venato di pop di Capo Io ci costringe invece a battere il piede, così come l’acquerello dalle sfumature reggae di Il Sole A Scacchi. La cifra stilistica dei nostri si amplia ulteriormente con Io Le Odio Le Band Emergenti, divertente declamazione in chiave rap, per sfociare poi nelle derive elettriche di Anche Se. Le atmosfere cantautorali trovano terreno fertile nell’acustica Voglio Prendere In Giro, raggiungendo il culmine poetico nella deandreiana Il Concetto Di Per Sempre, ghost track d’indubbio fascino. Voglio Prendere In Giro, dal canto suo, pare arrivare dal repertorio della Bandabardò più intimista e riflessiva, con la voce di Claudio Busi che ricorda da vicino quella di Erriquez. Splendida per suoni e scrittura è La Danza Della Mancanza, folk ballad nuovamente in odore di Bandabardò e autentica gemma del disco. Elemento fondamentale nell’economia sonora dei nostri rimane tuttavia l’espressiva e calda voce di Claudio Esclà Busi, protagonista di una perfomance di rara intensità, ulteriormente impreziosita da un sapiente utilizzo delle seconde voci. Ad essa vanno a sommarsi la perizia tecnica dei restanti membri del gruppo, oltre a una ricerca testuale che sfocia in liriche ricche d’ironia e mai banali, nelle quali trovano spazi i tanti piccoli problemi della quotidianità. Gli Esclà sono l’ennesimo esempio di come si possa produrre ottima musica partendo dal basso, con tanta buona volontà, ottime capacità esecutive e un songwriting di primo livello.

mercoledì 4 aprile 2012

Mapuche - L'uomo nudo

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Se l’EP Anima Latrina, composto per lo più di ballate lo-fi per sola chitarra e voce, aveva nella propria scarna musicalità la sua ragion d’essere, con il suo primo vero full lenght Mapuche, al secolo Enrico Lanza, vira verso nuovi multiformi e variegati territori sonori. Esemplificativo fin dal titolo, L’Uomo Nudo è un profondo ed introspettivo viaggio all’interno dell’anima dello stesso Lanza, con la sola musica come compagna fedele e affidabile guida. Undici canzoni sospese tra rabbia ed ironia attraverso le quali operare una disamina del proprio sé, allargando al contempo il campo d’analisi fino ad inglobare l’intera società e il mondo circostante. Prodotto e registrato presso il Vertigo Studio, tra il profumo dei limoni nella sperduta campagna siracusana, l’album vede la partecipazione sia in fase produttiva che esecutiva di Lorenzo Urciullo (aka Colapesce) e di Toti Valente, ai quali si affiancano alcuni ospiti di rilievo, Carlo Barbagallo e Cesare Basile su tutti. Quello che tuttavia colpisce fin dal primo ascolto, è la ruvida espressività vocale di Lanza, in grado di ricordare in più di un frangente sia Bugo che un giovane Rino Gaetano. Proprio a quest’ultimo sembra rifarsi lo scalcinato folk tinto di blues Il Dromedario, tanto da poter essere scambiato per una outtake dello stesso cantautore calabrese. Sulla medesima scia si sviluppa la title track, screziata nel suo lento incedere da ariose reminescenze pop. La Parte Peggiore fa propri gli insegnamenti della scuola cantautorale bolognese, riuscendo nel non facile compito di abbinare echi sonori di stampo gucciniano ad acide derive soniche. Fogna brilla invece per parsimonia musicale, nonché per la sofferta interpretazione vocale di Lanza, riportandoci in parte verso le atmosfere dimesse del precedente EP. In Quando Ero Morto convivono rimandi gaetaniani e aperture melodiche di stampo country folk, complice anche la chitarra slide di Carlo Barbagallo. La sommessa Malvolentieri inizia con un canto lamentoso, per poi concludersi tra le suadenti note del sax di Marco Filetti. Puro folk è L’Atto Situazionista, tra chitarra acustica, flauto e ukulele (quest’ultimo tra le mani di Cesare Basile), nonché l’apice musico-testuale dell’intero album, ulteriore prova di una raggiunta maturità in ambito compositivo da parte del cantautore siciliano. Chiusura affidata all’introspezione della soffusa Al Mio Funerale, piccolo acquerello acustico attorniato da parchi interventi strumentali e da un immaginifico coro. Non lasciandosi imbrigliare nei rigidi e formali dettami del cantautorato italico, Enrico Lanza continua a portare avanti imperterrito la propria libera e ribelle creatura musicale, infischiandosene di tutto e di tutti. Ad ascoltare quanto di buono è contenuto in L’Uomo Nudo, non possiamo che dare ragione al cantautore siciliano, nella speranza che prosegua, anche in futuro, il suo cammino musicale nella medesima folle e affascinante direzione.