sabato 30 novembre 2013

Emily Herring - Your mistake

(Pubblicato su Rootshighway)

Texana di nascita ma trasferitasi per più di dieci anni in quel di Portland, Emily Herring, nel 2010, fa alfine ritorno al proprio suolo natio, stabilendosi in quel di San Marcos, cittadina a pochi chilometri da Austin. La fervente scena alternative folk oregoniana non sembra tuttavia aver lasciato traccia alcuna nel pentagramma di una songwriter fin dagli esordi orientata verso un personale intreccio tra western swing, tejano music, country tradizionale e arcaici sentori deltaici. Distante anni luce dalle pailettes e dai lustrini di quella enorme "catena di montaggio del country" chiamata Nashville, la Herring possiede tanto una fervida vena autoriale, che ben si traduce in liriche d'evocativa forza poetica, quanto una voce pressoché perfetta, nella sua indolente inflessione, per interpretare quanto prodotto dalla propria penna. Camicia, cappello da cowgirl e un paio di vistosi occhiali la avvicinano, perlomeno visivamente, ad una Mary Gauthier trapiantata nel Lone Star State, provvista tuttavia di una vocalità capace tanto di evocare lo spettro di Patsy Cline, quanto, in più di un frangente, di ricalcare la rochezza di Lucinda Williams. Sintomatiche, dell'affinità vocale con quest'ultima, sono sia le derive alternative country di Turquoise Earrings, che il vivido splendore di One Sip Of Water, complice il fluire armonico della dobro di Benjamin Dewey. A far da contraltare alla chitarra della Herring, sia nei tempi sostenuti di una vibrante Wanna Holler, che nell'afflizione pervadente Terlingua, troviamo altresì la sei corde elettrica di Brian Kelley, protagonista anche nello scalpitare di Stifling Its Sound, dove si avvertono le reminescenze di un passato da rockabilly singer. Profuma invece di western swing l'opener Austin (Ain't Got No) City Limits, sorta d'ipotetica session con gli Asleep At The Wheel assoldati quale backing band per Patsy Cline, mentre la title track, dal canto suo, ha tutte le carte in regola per diventare una classica ballroom song, movimentando le notti, a venire, nei locali di Austin e dintorni. La fluttuante ariosità di Praire Lea mostra invece il lato più introspettivo della nostra, la quale incanta, per intensità interpretativa, in una Don't Waste Time, trasudante country da ogni singola nota. Il finale, affidato agli stridori blues di One Steals The Load, ci porta invece dalle parti del Delta, a rimarcare un'influenza, quella della primigenia musica afroamericana, alquanto marcata già nelle precedenti prove in studio. Emily Herring rappresenta il più fresco, genuino nonché vitale esempio di come si possa, oggi, suonare autentica country music, fregandosene bellamente degli stereotipi di "genere" imposti dal mercato discografico. E se il risultato di tale presa di posizione artistica è un lavoro della bontà di questo Your Mistake, non ci rimane che augurarle di continuare, imperterrita, il proprio cammino lungo questa parte "scura" della strada musicale.

giovedì 28 novembre 2013

Radical Face - The Family Tree: The Branches

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Scrittore, per nostra fortuna, mancato, a causa d’un irreparabile guasto del proprio hard disk (nel quale erano contenuti ben due romanzi quasi completi), Ben Cooper decide tuttavia d’irridere la malasorte e incanalare il proprio fervore creativo in ambito musicale, creandosi così in poco tempo, sotto lo pseudonimo Radical Face, una prolifica carriera cantautorale. Una vena narrativa mai affievolitasi quindi, con il trascorrere del tempo, anzi capace di dar vita alla storia, fittizia, di una famiglia del diciannovesimo secolo, i Northcotes. Una vera e propria saga, cristallizzatasi, inizialmente, in un primo capitolo discografico, emblematicamente chiamato The Roots (Le radici), pubblicato nel 2011, e registrato nel capanno degli attrezzi della casa materna, a Jacksonville, utilizzando strumenti musicali presenti all’epoca delle vicende narrate. Un modus operandi quest’ultimo, caratterizzante anche la stesura di The Branches (I rami), secondo capitolo della medesima storia familiare, trasposto su nastro mediante una strumentazione, nella sua quasi totalità, presente tra il 1860 e il 1910, con giusto qualche piccola concessione “modernista”. Un tessuto musicale di spartana essenzialità, leggermente increspato da minimali scintille sperimentali e mai invadenti rumori ambientali; questa la linfa vitale dei nodosi “rami” cooperiani. Rami sui quali sono spuntati germogli di verde fascinazione folkie; quali il palpitare uggioso di Holy Branches, o una The Mute di sgangherata grazia, sospesa tra il Justin Vernon più riflessivo e le sghembe sincopi ritmiche dei Lumineers. Un arcolaio sonico, quest’ultimo, attraverso il quale viene tessuta anche Summer Skeletons, sontuoso intreccio tra il picking gentile di una sei corde acustica, le raffinatezze barocche del pianoforte e svolazzanti intarsi violinistici. E se Chains colpisce per la sua costruzione melodica in divenire, passando dal clangore iniziale di ferree catene a brumose suggestioni avant folk, in The Gilded Hand maggior spazio viene lasciato all’ardire compositivo cooperiano, tra rumori di fondo, tonfi percussivi ed insinuanti pulviscoli armonici. E’ tuttavia con la conclusiva We All Go The Same che il songwriting del Nostro raggiunge vette di pura eccellenza, in una magnifica ballata pianistica, pervasa da incantevoli arie irish. Un tenue barlume di bellezza sonica, The Branches, a rischiarare la grigia tetraggine di un piovoso autunno, ottimamente composto ed orchestrato da un cantautore a dir poco magistrale nel dosare con perizia sperimentazione e arcaicità.

The Waterboys @ Auditorium - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)    

La musica è, da sempre, uno dei modi migliori per viaggiare, nei più sperduti angoli del globo, senza, in realtà, muoversi dalla propria poltrona. Una materia viva, aperta alle più differenti contaminazioni, nonché ideale “veicolo” con il quale macinare chilometri, su di un’immaginifica cartina topografica. Proprio un suggestivo viaggio spazio-temporale hanno avuto la fortuna di compiere i convenuti questa sera, all’Auditorium di Milano, per assistere al ritorno sull’italico suolo dei Waterboys. Non appena entrati nella piccola sala, infatti, gettando una rapida occhiata verso il palco, ci si ritrova catapultati indietro di più di venticinque anni, di fronte alla Spiddal House, al tempo agreste rifugio irlandese degli stessi Waterboys, che proprio tra quelle mura concepirono e, in parte, registrarono il loro indiscusso capolavoro, Fisherman’s Blues, del quale quest’anno ricorre, per l’appunto, il venticinquennale della pubblicazione. Una genesi sonora, da dividersi, geograficamente, in egual modo tra la verde Irlanda e la solare San Francisco, caratterizzata da una bulimia compositiva capace, al tempo, di apporre su pentagramma, ben più dei brani contenuti nei castranti solchi dell’LP dato alle stampe, come peraltro ben evidenziato dal lussureggiante cofanetto Fisherman’s Box, pubblicato pochi mesi fa, e contenente i brani all’epoca inspiegabilmente accantonati. Proprio il “compleanno” dell’album medesimo è stato anche il pretesto per il riavvicinamento di coloro che ne furono i fautori, ovvero Steve Wickham e Anthony Thistlethwaite, nuovamente sul palco insieme a Mike Scott, perpetuatore unico, in questi anni, del verbo dei “ragazzi acquatici”. Un’occasione quindi, più unica che rara, quella concessaci dai nostri, con questo Fisherman’s Blues Revisited Tour, visto, oltremodo, che non si sarebbero limitati a suonare pedissequamente l’album in questione, ma avrebbero, con la selvaggia libertà espressiva di quei giorni lontani, ripercorso in lungo e in largo la loro discografia. L’inizio è affidato tuttavia a Strange Boat, estrapolata proprio da Fisherman’s Blues, con il solo Scott a guadagnare dapprima il proscenio, raggiunto poco dopo dal violino di Wickham e dal mandolino di Thistlethwaite, prima di un finale alla cui coralità strumentale partecipano attivamente anche il basso di Trevor Hutchinson e la batteria di Ralph Salmins. Cuore pulsante dell’intera performance sarà tuttavia proprio Mike Scott, la cui voce sembra non aver perso, con il trascorrere del tempo, la propria graffiante, evocativa, poeticità. Quasi un folletto, nel suo destreggiarsi tanto con la chitarra acustica quanto con il piano elettrico, grazie al quale viene riproposta una vigorosa A Girl Called Johnny, proveniente nientemeno che dal loro eponimo esordio, datato 1983. Se tra le perle dimenticate, e fortunatamente riportate alla luce con il recente box, facevano bella mostra di sé alcune rivisitazioni del songbook dylaniano, questa sera l’omaggio, a colui che può essere considerato quale vero e proprio maestro per lo stesso Scott, viene tributato con una Girl From The North Country capace d’unire, tra afflato d’americano folklore e sentori irlandesi, le due sponde dell’Oceano Atlantico. Dal medesimo box provengono anche una Stranger To Me, eseguita dai cinque come se facessero parte d’un vetusto gruppo country; così come il blues pianistico Tenderfootin’, alla sua “prima”, on stage. E’ tuttavia il folk, rinvigorito nella scheletrica ossatura da un midollo di stampo rock, la materia sonora prediletta dalla compagine scozzese, come peraltro ribadito, poco dopo, dal passo deciso di una When Ye Go Away, che il lavorio al bottleneck di Thistlethwaite vira verso lidi country; o da una sempre magnifica When Will We Be Married?, con il piano e violino a tracciarne, in una simbiosi pressoché perfetta, la limpida linea melodica. Le pause dalle sedute di registrazione americane di Fisherman’s Blues furono, inoltre, un più che buon pretesto per autentici vagabondaggi attraverso la Mill Valley, con tappa ultima il Village Records, dove fare incetta di vecchi vinili di gospel, blues e country. Proprio grazie a questi acquisti americani avvenne la scoperta di Come Live With Me, accorata ballata amorosa, resa celebre da Ray Charles, e questa sera riproposta, con le mani di Scott quasi ad emulare, sui tasti, quelle charlesiane. Un piccolo problema all’amplificazione del suo violino non scoraggia Wickham che, dopo aver allietato i presenti con un puntato reel, eseguito davanti al microfono della voce, una volta ovviato al problema, guida le danze nella forsennata rivisitazione del tradizionale Raggle Taggle Gipsy, testimonianza di come le radici musicali del gruppo siano ancora saldamente ancorate nella natia Scozia. We Will Not Be Lovers, con Scott ad imbracciare la sei corde elettrica, è una nervosa valvola di sfogo della propria veemenza rockista, prima che il tutto venga stemperato, con un nuovo ritorno in terra americana, nelle lamentevoli note country di una I’m So Lonesome I Could Cry, in memoria del leggendario Hank Williams, a dir poco da brividi. Atmosfere da fumoso pub newyorkese si respirano in Blues For Your Baby, terreno ideale per le evoluzioni solistiche del sax di Thistlethwaite, che si ripete poco dopo in un’intensa, scarnificata, Don’t Bang The Drum, eseguita in trio. Dal recente An Appointment With Mr. Yeats proviene invece Mad As The Mist And Snow, la cui grazia melodica si libra leggera sulle ali di un reel, per soli chitarra acustica e violino, prima del conclusivo rinforzo ritmico di organo, basso e batteria. Se con la bucolica liricità di Sweet Thing, inframmezzata come di consueto dal reprise beatlesiano di Blackbird, ci addentriamo fra le “settimane astrali” morrisoniane, un autentico boato accoglie le prime note d’una attesa, meravigliosa Fisherman’s Blues, con la quale i cinque salutano, tra gli applausi a scena aperta. E’ tuttavia solo un attimo, giusto il tempo di invocarne a gran voce il nome, ed eccoli tornare on stage, dove l’archetto di Wickham, assurge a vero protagonista, sprigionando arie irish sulle note della giga Dunford’s Dancy, accompagnato dal battito di mani di tutti gli astanti, prima di una conclusiva, pianistica, The Whole Of The Moon. Il pubblico pare ancora affamato di musica, a ragion veduta vista la qualità di quella proposta finora, tanto da convincere Scott e compagni a ritornare una seconda volta sul palco. E se il fervore congregazionale del gospel On My Way To Heaven spinge la platea ad abbandonare i propri posti a sedere per assieparsi sotto il palco, a danzare, le note di Saints And Angels rappresentano il vellutato commiato da un magico viaggio che, dalla plumbea tristezza autunnale di una Milano novembrina, ci ha portato a visitare i luoghi dove un album imprescindibile, quale Fisherman’s Blues, è stato composto e registrato, da una compagine capace di farci rivivere, oggi, la malia creativa di quei giorni, per una sera, non poi così lontani.

SETLIST:

Strange Boat
Higher bound
A Girl Called Johnny
Girl From The North Country
Stranger To Me
When Ye Go Away
Tenderfootin’
When Will We Be Married?
Come Live With Me
Raggle Tagglle Gipsy
We Will Not Be Lovers
I’m So Lonesome I Could Cry
Blues For Your Baby
Don’t Bang The Drum
Mad As The Mist And Snow
Sweet Thing
Fisherman’s Blues

ENCORE
Dunford’s Dancy
The Whole Of The Moon

ENCORE 2
On My Way To Heaven
Saints And Angels

martedì 26 novembre 2013

John P. Hammond @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Una vera e propria forza della natura. John suona come un enorme treno in corsa”; ecco, basterebbero queste parole, pronunciate da Tom Waits, mica uno qualsiasi, per descrivere appieno quanto visto questa sera sul palco del Raindogs. Ed è davvero una forza della natura John Paul Hammond, 71 anni suonati, ma con ancora la grinta e la voglia di suonare di un ragazzino, appena ventenne. Niente ammennicoli, o effetti speciali sul palco, semplicemente una sedia, due microfoni, uno per la voce, ed un altro ad amplificare tanto una sei corde acustica quanto una resofonica, due armoniche, alternate spesso sull’apposito supporto, ed una voce che sembra provenire direttamente dagli anfratti più profondi dell’anima, la cui negritudine tradisce i reali natali del musicista americano. Figlio del quasi omonimo John Henry Hammond, uno che si “dilettava” a scoprire giovani talenti quali, tra gli altri, Billie Holiday e Bob Dylan, John Hammond Jr, è infatti un bianco, nato in quel di New York, ma presto folgorato dalle nere sonorità provenienti dal Sud degli Stati Uniti. Con un carriera cominciata nel primi anni Sessanta e decine di album pubblicati a proprio nome, Hammond possiede un bagaglio storico-musicale a dir poco invidiabile, tanto per una capillare conoscenza della musica afroamericana, quanto, soprattutto, per gli incontri e le esperienze maturate in una vita passata, in larga parte, on stage. Affabile e ciarliero il chitarrista non pecca mai in spocchia o tracotanza, anzi, la sua concezione musicale si basa essenzialmente sulla condivisione, sull’arricchimento reciproco. E così, quasi con nonchalance, racconta i suoi inizi di carriera, dei tanti bluesmen conosciuti sopra le assi di un palco, o di quando gli amici Brian Jones e Bill Wyman si unirono a lui in un’estenuante jam session. Il pubblico sembra capire questa sua “filosofia”, ascoltando in religioso silenzio il tagliente sferragliare del bottleneck sulle corde della resofonica, per poi lasciarsi andare ad urla di approvazione nei momenti di picking più forsennato. Hammond dal canto suo non si risparmia riproponendo tanto brani autografi (  You Know That’s Cold, e una cadenzata Come To Find Out) quasi ci trovassimo in uno dei tanti locali che affollavano il Greenwich Village, teatro dei suoi esordi dal vivo; quanto rileggendo con rara maestria classici del blues, di deltaica ascendenza e non. Una voce, quella del nostro, di magnetico fascino, capace di graffiare con cavernose urla alla Chester Burnett, quanto di emozionare con uno straziante lamentio di stampo johnsoniano. E se l’affinità vocale con il “Lupo Ululante” trova riscontro in una My Mind Is Rambling, già passata proprio attraverso l’ugola cartavetrata di quest’ultimo, a Robert Johnson guarda una vibrante rivisitazione di Come On In My Kitchen, uno dei brani simbolo, nonché tra i più sessualmente espliciti, del chitarrista di Hazlehurst. Sono tempi duri quelli odierni, non tanto lontani da quelli cantati da Skip James in Hard Time Killing Floor, riproposta in un’afflitta interpretazione, instaurando una sofferta empatia con il pubblico presente. C’è spazio anche per alcuni brani tratti da Wicked Grin, pluripremiato lavoro in studio, basato sulla rilettura del repertorio di quel Tom Waits, menzionato poco sopra, suo vecchio compagno di bevute. Vengono così riproposte una Get Behind The Mule, che lascia attoniti per debordante furia interpretativa, ed una notturna, alcolica, Jockey Full Of Bourbon. Someday Baby, cantata con voce talmente flebile da sembrare spezzarsi ad ogni sillaba pronunciata, porta invece la firma di Sleepy John Estes, uno dei tanti bluesmen amati dal nostro, così come Blind Willie McTell, omaggiato con una Love Changing Blues suonata quasi in punta di dita. Di tutt’altra grana la conclusiva Preachin’ Blues, con le mani di Hammond a far scintille sulla resofonica, e il bottleneck quasi impazzito nel suo muoversi senza più freno alcuno, emulando in tal modo il percussivo, infervorato, suonare del “reverendo” Son House. Non ha neanche il tempo di scendere dal palco Hammond che viene investito dagli applausi, tanto da imbracciare nuovamente l’acustica e regalarci un’ultima, ariosa, Nasty Swing, vecchio brano a firma del dobroista Cliff Carlisle. Un concerto a dir poco indimenticabile, quello di stasera, come testimoniato dalle espressioni soddisfatte dei presenti, consci di essere stati al cospetto di un’autentica leggenda vivente, o per dirla alla Tom Waits, di “una vera e propria forza della natura”.



martedì 19 novembre 2013

Terry Lee Hale - The long draw

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Texano di nascita, ma girovago di fatto, Terry Lee Hale sembra alfine aver trovato in Parigi la propria meta ultima, a conclusione di un viaggio condotto, rigorosamente, lontano dai fasci di luce degli abbaglianti riflettori mediatici. Un vivere in costante movimento, tra sogni, speranze, perdite e rimpianti, riversato oggi tra i profondi solchi di The Long Draw, ennesimo magistrale tassello compositivo di una carriera ormai più che trentennale. Otto vere e proprie short stories, a rappresentare idealmente le diverse tappe di un vagabondare in lungo e in largo tra Stati Uniti ed Europa. Piccoli bozzetti, nel loro minimalismo acustico, dalla disarmante crudezza lirica, in cui ogni breve attimo di silenzio, ogni singolo respiro della profonda vocalità di Hale paiono avere un peso specifico enorme. Una voce, narrante di un mondo popolato da beautiful losers, con una chitarra acustica quale indissolubile compagna, nonché fulcro sonoro intorno al quale vengono costruite nota su nota scarne intelaiature rootsy. Prodotto da Bob Coke, e registrato in un piccolo studio della Bretagna, con l’apporto d’una ormai rodata sezione ritmica d’origine basca, composta dal basso di Nicolas Chelly e dalla batteria di Frantxoa Erreçarret; The Long Draw trova la propria ragion d’essere nella logica del sottrarre, nel centellinare con perizia suoni e parole, prediligendo scure atmosfere acustiche, in un mood di notturna suadenza. Composizioni d’inaudita forza evocativa, tuttavia, come la title track, tetro declamare acuito, ancor più, dal liquido spandere melodico dell’organo di Glenn Slater; o il dolente distendersi d’una Black Forest Phone Call, d’un epicità narrativa d’ascendenza dylaniana. D’autobiografica natura sono, invece, tanto il predicare country’n’gospel di What She Wrote, dove spiccano gli spunti solisti della pedal steel di Jon Hyde; quanto il rimembrare i giorni trascorsi in quel di Seattle, in una The Central, di pura fascinazione folk. E se Three Days è un febbrile vorticare, tra polveroso sbuffare country e caldi umori gipsy, complice il basso di Jack Endino, i toni tornano nuovamente a farsi sommessi nell’indolenza crepuscolare di The Sad Ballad Of Muley Graves. Una lentezza caratterizzante anche la conclusiva, lunga, Gold Mine, ove l’ossatura folkie par essere come pervasa da neri spettri blues, in un commiato di livido magnetismo. Un songwriter di classe a dir poco sopraffina, Terry Lee Hale, capace, come davvero pochi altri oggigiorno, di trarre linfa compositiva da quanto, forse di più ordinario, ma al contempo affascinante, esista, ovvero il periglioso, quotidiano vivere dell’umana specie, immortalandone, in meravigliose, seppiate, istantanee sonore, le gioie, i dolori e le sconfitte.

venerdì 15 novembre 2013

Reed Turchi @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

"Hear the wind blowin way on top of the hill" cantava, giusto qualche anno fa, Luther Dickinson; un vento, sul cui impetuoso soffiare, si propagavano, nella pianura sottostante, gli echi dei tribalismi percussivi della Rising Star Fife And Drum Band di Otha Turner, del nevrotico rifferama del “rebel in the blues” RL Burnside, così come della ripetitività ipnotica di Junior Kimbrough. Vagiti lontani di un Hill Country Blues, che paiono tuttavia ancor oggi risuonare, nonostante la dipartita dei suoi storici rappresentanti. Merito, ma non solo, proprio del summenzionato Luther Dickinson, alfiere, con i suoi North Mississippi Allstars, del recupero della tradizione musicale di una terra, meta prediletta di un coacervo, sempre più consistente, di musicisti. Appartiene a quest’ultimi Reed Turchi, nato in quel di Asheville, Carolina del Nord, entro i cui confini il vento delle colline è riuscito alfine a giungere, recando il proprio arcaico messaggio sonoro sino alle orecchie del nostro; il quale, imbracciata una sei corde elettrica, ha saputo farlo proprio riversandolo tra i solchi di un folgorante debutto, Road Ends In Water. Un bottleneck a muoversi tagliente, tanto sulle corde di una chitarra, che di una cigar box, rigorosamente autocostruita, ed una voce d’abrasiva rochezza; questi gli “ingredienti” alla base di un personale, grezzo, impasto sonoro, denominato Kudzu Boogie. Un vero e proprio marchio sonico, capace di mostrarsi appieno, in tutte le sue sfaccettature, sulle assi di un palco, come peraltro testimoniato dal recente Live In Lafayette, fedele testimonianza su nastro, delle incendiarie performance on stage. Vi era pertanto molta attesa, tra i cultori del blues collinare, e non, per l’arrivo nel nostro paese del chitarrista, impegnato in un pugno di date, organizzate dall’associazione culturale capitolina Mojo Station. Visto poi, che tra queste figurava anche una tappa savonese, sarebbe stato un peccato mortale, per il sottoscritto, mancare all’appuntamento. Lasciati negli Stati Uniti gli abituali compagni di “scorribande sonore”, Turchi si presenta, in questo mini tour italiano, in un’inedita formazione a due, accompagnato alla batteria da Gianluca Giannasso, in libera uscita dal combo romano dei Dead Shrimp. Una dimensione, quella del duo, che, nella sua ruvida e scarna essenzialità, si rivelerà alfine perfetta per scandagliare al meglio l’universo sonoro reediano. Fin da un’iniziale Do For You, d’adrenalinica veemenza, Turchi conferma di possedere un invidiabile bagaglio tecnico, come è altresì notevole la sua conoscenza di quella materia sonora a nome Hill Country Blues, masticata, fagocitata, ed oggi riproposta con un viscerale fervore espressivo, ben esemplificato nel medley Big Mama’s Door/ Poor Black Mattie/ Skinny Woman, capace d’unire, in un excursus chitarristico teso fino allo spasimo, una delle tante perle a firma Alvin Youngblood Hart, con il sempiterno songbook marchiato RL Burnside. Un libero sgorgare di note cristallizzato in medley d’epica lunghezza, come nella rivisitazione, per cigar box, della pattoniana Mississippi Boll Weevil, sfociante in una salvifica Keep Your Lamp Trimmed And Burning, eseguita su di un tavolo, in piedi, con un bicchiere di vetro quale bottleneck. Vi è spazio anche per brani d’autografa fattura, quali una riverberata Mind’s Eye, estrapolata dal recente EP My Time Ain’t Now, o l’inedito, talking distorto di Take Me Back Home, che lascia ben sperare in vista di una prossima release. E se il cadenzato midtempo Junior’s Boogie si appropria del reiterare ossessivo di kimbroughiana memoria, l’accoppiata Don’t Let The Devil Ride/ Write Me A Few Lines, rappresenta un tributo al proprio “nume tutelare” Mississippi Fred McDowell. Pare non sentire affatto la mancanza dei suoi fidati pards il buon Turchi, merito anche dell’abilità e precisione ritmica di Giannasso, che non fa rimpiangere il suo “collega” Cameron Weeks, come dimostrato tanto da una caustica Brother’s Blood, quanto dai “consigli medici” di Dr. Recommended. Il chitarrista del Nord Carolina, dal canto suo, non si risparmia, incantando, per purezza sonora e maestria espressiva, un pubblico visibilmente soddisfatto, tanto da tributargli quasi un’ovazione. C’è ancora il tempo per un ultimo torrenziale medley, nel quale far confluire una sequela di brani tradizionali, a dir poco da brividi, quali John Henry, Back Back Train, Glory Glory Hallelujah e Woke Up With Jesus On My Mind, con il fantasma di Mississippi Fred McDowell che sorride compiaciuto a lato palco. Un ideale suggello ad un concerto pregno di sudore e scorticanti vibrazioni blues, con Reed Turchi a dimostrare una volta di più, di aver appreso, trasmettendolo questa sera agli astanti in una nuova e peculiare veste, l’originario verbo dei propri “maestri”, la cui eco, fin che vi saranno discepoli di siffatta bravura, continuerà a soffiare imperterrita nel vento.

domenica 10 novembre 2013

Too Slim and the Taildraggers - Blue Heart

(Pubblicato su Rootshighway)

Dopo la solitaria parentesi del precedente, acustico, Broken Halo, Tim Langford, aka Too Slim, torna oggi ad imbracciare la propria sei corde elettrica, in un nuovo album, Blue Heart, che ha tutti i numeri per essere annoverato tra gli episodi più riusciti della sua recente produzione discografica, e non solo. Discografia fattasi, nel corso di una venticinquennale carriera, più che corposa, riuscendo a mantenere, al contempo, uno standard qualitativo piuttosto elevato, come peraltro ribadito dall'incetta di premi fatta dal nostro, ogniqualvolta presentatosi con un nuovo lavoro a proprio nome. Accompagnato come di consueto dai, perlomeno nominalmente vista la labilità della loro line-up, fidi Taildraggers, anche in questa ultima sua fatica, a far bella mostra di sé, troviamo un muscolare blues rock di matrice texana, tanto debitore della lezione impartita dagli inossidabili ZZ Top, quanto prono, quasi in adorazione, di fronte al santino musicale di Stevie Ray Vaughan. Registrato in quel di Nashville sotto l'egida di Tom Hambridge, impegnato anche dietro ai tamburi, Blue Heart si discosta tuttavia, almeno in parte, dal precedente vagito elettrico Shiver, accantonando gli inserti fiatistici di quest'ultimo, in favore di una maggior compattezza, da sempre, d'altronde, elemento peculiare del modus operandi del chitarrista di Spokane. A "pompar" ancor di più la muscolatura sonora del nostro, troviamo in quest'occasione una coesa sezione ritmica composta dal summenzionato Hambridge, e dal bassista Tommy McDonald, ai quali si va ad aggiungere uno sparuto manipolo di ospiti, quali l'organista Reese Wynans, il chitarrista Rob McNelley e l'armonicista Jimmy Hall. Un muro di suono, quello prodotto, dalle granitiche fattezze tanto nell'opener Wash My Hands, nerboruto texas blues strizzante l'occhio proprio al barbuto trio di Houston, quanto nei clangori metallici, opera del bottleneck del titolare, di Preacher. Di più canonica manifattura bluesy è la title track, rigoroso shuffle ove spicca il soffiare dell'armonica di Hall, il quale dà saggio anche delle proprie capacità vocali nell'avvolgente slow Good To See You Smile Again, dove si avverte maggiormente anche il lavorio ai tasti di Wynans. D'ascendenza vaughaniana è invece New Years Blues, con la rovente sei corde di Langford a ripercorrere i solchi tracciati dall'illustre predecessore, prima di smorzare i toni nella conclusiva Angels Are Back, figlia "bastarda", con le sue tetre trame elettroacustiche, di quel Broken Halo menzionato inizialmente. Rock blues a marchio DOC quello contenuto in Blue Heart, adatto sicuramente a palati affini alle "piccanti" sonorità di texana provenienza, ma che saprà oltremodo stuzzicare anche le più esigenti papille gustative.

Green Like July @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Uno sferzante vento autunnale flagella implacabile una Savona plumbea e grigia, ma un semplice passo dentro alle accoglienti mura del Raindogs ed eccoci proiettati, perlomeno idealmente, nella provincia americana più profonda, tra quelle strade blu, lungo le quali sono nati, e spesso si sono infranti, i sogni musicali di giovani promesse, americane e non. Quelle medesime strade percorse in più d’un occasione anche dai Green Like July, combo d’italiana anagrafe ma ormai statunitense d’adozione, nel loro continuo pellegrinaggio verso una mecca sonica, Omaha, divenuta quasi una seconda casa. Proprio nella cittadina del Nebraska, sotto l’egida di A.J. Mogis, hanno infatti visto la luce, negli ARC Studios, tanto lo splendido Four-Legged Fortune, quanto il recente, nonché altrettanto riuscito, Build A Fire. E se nel primo l’influenza esercitata sui nostri dall’alternative folk a stelle e strisce era più che evidente, la loro ultima fatica evidenzia, altresì, in un rilucente esempio d’intelligenza pop, una maggior volontà sperimentatrice. Sperimentazione accentuatasi di pari passo ad un allargamento della line up, assestatasi in un quintetto d’indubbia versatilità, dove tuttavia la figura centrale rimane pur sempre l’eclettico Andrea Poggio, intorno alla cui voce e chitarra acustica pare ruotare l’intero universo sonoro a nome Green Like July. Incroci vocali da brividi, immaginifici svolazzi folkie, ed evanescente ariosità pop, questi gli ingredienti di un sound, oggi equamente bilanciato tra le due anime sonore summenzionate, come ribadito da una setlist attingente in egual misura da entrambi i full-length. L’incipit è affidato al tenue pizzicare della sei corde acustica del solo Poggio, in una scarna, essenziale ma emotivamente pregnante, rivisitazione di A Better Man, sintomatica della caratura compositiva nonché interpretativa del songwriter d’origine alessandrina; il quale viene di lì a poco raggiunto, dai suoi compagni, nella suadente malinconia, in odore d’Americana, di No Light Will Shine On Me. Agatha Of Sicily, pur in parte spogliata dei propri orpelli sonici, rimane, come la cittadina siciliana dalla quale è stata ispirata, una piccola gemma, dall’inebriante flavour pop, grazie anche ad impeccabili armonizzazioni vocali; sulle quali è stato costruito, d’altronde, proprio gran parte di Build A Fire. E se Jackson è una nuova digressione verso agresti territori americani, sulle orme tanto dei Jayhawks quanto della Band, l’elettricità velvettiana di Borrowed Time, dedicata stasera allo scomparso Lou Reed, è quanto mai esplicativa del nuovo “corso” dei milanesi. Piccola oasi d’intimistico raccoglimento, con la voce a muoversi flebile su un tappeto armonico ad opera del Fender Rhodes, Robert Marvin Calthorpe trova il proprio contraltare nella bulimia lirico-ritmica di un’incontenibile Moving To The City. Il lento, insinuante, dipanarsi di An Ordinary Friend, confluisce, invece, in un emozionale medley con la brumosa malia di una Nothing Is Forever suonata quasi in punta di dita, prima che una struggente A Perfect Match veda il set concludersi tra gli applausi. Talmente calorosi da “costringere” Andrea Poggio a ripresentarsi, nuovamente in solitaria, sul palco, per una St. John Of The Cross d’abbacinante purezza folkie. “Solitamente non facciamo bis” ammette quest’ultimo, ma forse convinto dal calore riservatogli dal pubblico savonese, richiama sul palco anche i propri compagni e, prendendo spunto da un concerto degli Stooges in cui Iggy Pop eseguì per ben tre volte I Wanna Be Your Dog, i cinque ripropongono una corale Moving To The City, con gli astanti ad unirsi loro nel canto. Un concerto a dir poco sublime quello di stasera, ad opera di un combo, i Green Like July, che si confermano una delle più interessanti realtà partorite dagli italici confini in questi ultimi anni.