giovedì 31 maggio 2012

Todd Novak - Raspberry moonshine

(Pubblicato su Rootshighway)

Ne ha percorsi di chilometri Todd Novak, da quando abbandonò le campagne della Pennsylvania per concludere infine il suo girovagare nelle assolate terre californiane. Un pellegrinaggio artistico che l'ha visto partecipe dei più svariati progetti musicali, sempre nel segno della poliedricità sonora. Tra questi degni di menzione sono sicuramente i Cryin' Out Loud, gruppo ska con base nella Grande Mela, per non parlare poi dei Dragsters, surf band che riuscì ad ottenere un discreto quanto effimero successo verso il finire degli anni Ottanta. Successivamente ritroviamo il nostro tra le fila della band presente sul primo album intestato a Kevin Salem, così come nel conseguente tour americano, di spalla a gruppi del calibro di Jayhawks, Bottle Rockets e Wilco, fino all'ultimo capitolo, in ordine di tempo, della sua avventura musicale con la recente formazione dei Cowlicks, combo californiano in bilico tra country rock e digressioni psichedeliche, del quale Novak è frontman e chitarrista. Progetto posto, tuttavia, momentaneamente in stand by per potersi dedicare a quello che a tutti gli effetti è il suo primo lavoro da solista. Un disco, Raspberry Moonshine, nel quale vengono sì riprese le coordinate sonore della band madre, ma che in questo frangente paiono rifarsi ad arcaici territori musicali che profumano di tradizione, grazie anche ad un impianto strumentale di stampo prettamente acustico. Coadiuvato per l'occasione dai fenomenali Clinch Mountain Boys, band che solitamente accompagna l'icona del bluegrass Ralph Stanley, Novak appronta infatti dodici brani autografi, rappresentanti una sorta di summa della musica tradizionale americana di matrice bianca. Sono senza ombra di dubbio i ritmi sostenuti a prevalere, come si può ben appurare già dalla title track posta in apertura, up tempo in chiave bluegrass con violino, mandolino e banjo subito in grande spolvero, e come viene peraltro ribadito dal ruspante hillbilly The Legend of the Great Manjo in cui appare, così come in It's a Long Road, nientemeno che Ralph Stanley in persona, perfettamente a suo agio nel duettare con Novak. C'è tuttavia spazio anche per atmosfere più soffuse come nell'arioso valzer The Number oppure nella delicata I Love it When it Rains, guidata dal violino di Dewey Brown e dal mandolino di James Nash. Alle sapienti mani di quest'ultimo viene inoltre affidata la chitarra resofonica che, andando ad arricchire un già nutrito novero di strumenti acustici, colora la countrieggiante Ohio River Angel. Non poteva mancare una sferragliante train song, qui addirittura di carattere "presidenziale", a nome Roosevelt's train, così come un nuovo tuffo in sonorità country'n'grass con la splendida I'll Still Love You, ben introdotta da un banjo dal sapore old time. Chiude il disco Rabbit Dog, insolito reading in salsa Americana ad opera del contrabbassista Jimmy Cameron. Un album che ha tra i suoi, molti, pregi, il tentativo andato a buon fine di rileggere, con maestria e padronanza della materia, sonorità del passato, ma tuttavia ancor oggi attuali, facendole qui confluire in un pugno di brani capaci di mettere in mostra sia le qualità di songwriter di Novak, sia la bravura dei musicisti coinvolti, cresciuti a pane e tradizione.

martedì 22 maggio 2012

Traffic Lights Orchestra - Verde yellow rouge

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Genesi alquanto inusuale quella della Traffic Lights Orchestra, formatasi essenzialmente per musicare il quasi omonimo film noir indipendente Traffic lights story, pellicola quest’ultima che tuttavia riposa, con la relativa colonna sonora, in qualche polveroso cassetto. La bizzarra orchestra, perché è definibile quantomeno bizzarro un ensemble che affida la propria pulsione ritmica a campane, padelle, cerchioni d’auto e altri inconsueti ammennicoli percussivi, decide tuttavia di continuare la propria strada musicale e, dopo un omonimo EP, arriva al suo primo vero album. Un lavoro dalle molteplici sfaccettature quello approntato dai nostri, come peraltro enunciato platealmente dal titolo, Verde Yellow Rouge, che oltre a chiari rimandi “semaforici” è ben riassuntivo dei tre idiomi linguistici con i quali la band si destreggia con maestria. Italiano, inglese e francese riescono infatti a coesistere all’interno di un album che profuma d’internazionalità, a prescindere dalla lingua utilizzata, grazie soprattutto ad una formula che non si pone a priori limiti sonori attingendo alle più svariate influenze e dettami melodici. Two Times, posta in apertura, è un ottimo esempio della bontà della proposta musicale del combo, sorta di moderno gospel sulle riflessioni di un suicida, nel quale compaiono echi dei Black Rebel Motorcycle Club, quelli del capolavoro “Howl” per intenderci, virati in chiave bluesy. Influenze blues per l’appunto, ma anche rimandi jazzy, barlumi noise pop e reminescenze folk rock compongono la nervatura del lavoro, articolato in undici brani pregni di fascino e suggestione. Devil, liberamente ispirata al “Vangelo secondo Gesù” di Saramago, unisce sacro e profano, Mark Lanegan e inflessioni country mentre il noise rock di Cigarette, è pervaso da fumose atmosfere noir. Ad emergere è l’approccio musicale dei nostri, tipicamente waitsiano, sia per scelte ritmiche che per architetture sonore. L’influenza di ‘Mastro’ Waits è evidente in brani come Le Tue Scarpe, struggente riflessione di un soldato caduto nella guerra dei Balcani, oppure nell’incedere ritmico di Italy Dogs, dedicata agli immigrati di Rosarno, ed ispirata da un cartello esposto dagli stessi, “Italy dogs valued more than black”, durante la loro rivolta contro il moderno ed aberrante sistema “schiavista” purtroppo ancor oggi imperante in molte zone agricole italiane. La pianistica Gazza Ladra è dal canto suo una macabra filastrocca di stampo caposseliano, che dimostra una volta di più come il gruppo abbia scelto con cura i propri numi tutelari. Non mancano tuttavia sonorità “canonicamente” rock, come nella malinconica ballata Last Season, impreziosita dal violino oppure come in First Coffee, in bilico tra squarci elettrici e ariose melodie pop. Chiude il disco una piccola sinfonia in tre parti, Le Dictateur, in memoria di coloro che in quel triste 11 settembre del 1973 conobbero in prima persona l’orrore del golpe e le successive nefandezze del regime di Pinochet, dittatore la cui morte venne festeggiata in piazza dal popolo cileno. Che dire di più? Tanto di cappello per un gruppo esordiente che ha saputo dare alle stampe un album, oltretutto autoprodotto, d’indubbio pregio e valore artistico.


venerdì 4 maggio 2012

Alabama Shakes - Boys and girls

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Prima che si creasse intorno a loro un’assordante tam tam mediatico, avevo scambiato gli Alabama Shakes, visto anche il loro moniker, per l’ennesima oscura southern rock band balzata agli onori della cronaca. Il combo di Athens (no, niente REM, questa non si trova in Georgia ma bensì in Alabama), assorbe sì gli umori e gli echi musicali del profondo sud degli Stati Uniti, ma orientandosi verso il soul di matrice Stax, il gospel e il blues, che in quei luoghi sono nati e hanno trovato fertile terreno nel quale proliferare. Proposta musicale, quella del quartetto dell’Alabama, strizzante l’occhio al passato della musica afroamericana quindi, attraverso la rilettura dei suoi classici stilemi musicali, effettuata con l’urgenza espressiva e la vitalità che solo una band anagraficamente così giovane può possedere. Una formula sonora capace di unire antico e moderno, in un continuum sonico che ha nella suadente ed espressiva vocalità di Brittany Howard la propria peculiarità. Voce che ricorda in più di un frangente sia la mai dimenticata Janis Joplin così come la recentemente scomparsa icona del new soul Amy Winehouse, ed attorno alla quale vengono cuciti gli apporti strumentali di un combo per l’appunto giovane e dalle più svariate estrazioni musicali (nelle interviste i nostri menzionano tra i propri ascolti abituali Ac/Dc, Black Sabbath, Otis Redding, Strokes e Led Zeppelin, giusto per dare un’idea del loro variopinto background musicale). Un’opera prima, questo Boys And Girls alquanto stringata, 36 minuti e un’anticchia, nella quale tuttavia la band riesce a far confluire tutti gli elementi alla base della loro cifra stilistica, come ben esemplificato dall’opener Hold On, rock’n’soul dal sicuro appeal radiofonico e scelto non a caso come primo singolo. Si passa poi da rivisitazioni di classiche sonorità black di derivazione Seventies come in I Found You, con un bel tappeto sonoro ad opera dell’organo, o nell’accattivante Hang Loose, per arrivare a brani nei quali la fusione tra tradizione e modernità trova il suo compimento, come l’energica Raise To The Sun o la caotica On Your Way. Trovano spazio all’interno dell’album anche sontuose ballate ad ampio respiro, come la pianistica Heartbreaker o la soffusa title track, dove in evidenza è la voce della Howard. Ciononostante quello che emerge una volta concluso l’ascolto dell’album è una sorta di monotematicità di fondo, dovuta in parte a sonorità fin troppo abusate e a una serie di pezzi che paiono in più di un frangente essere scritti con lo stampino. Certo la Howard pare nata per cantare il soul e il resto del gruppo svolge il proprio lavoro in modo più che dignitoso, ma a mio avviso manca quel qualcosa in grado di far deragliare il treno sonoro dei nostri dal binario del già sentito. Sia ben chiaro, Boys And Girls è pure un discreto album, ma da qui a gridare al miracolo c’è un vero e proprio abisso.