martedì 25 settembre 2012

Sacri Cuori - Rosario

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il cuore è da sempre considerato una macchina pressoché perfetta, e pertanto se, come in questo caso, i cuori in questione sono più d’uno e posseggono caratteristiche “sacre”, non possiamo che trovarci di fronte alla più pura perfezione. Rosario, secondo album a nome Sacri Cuori, è proprio questo, un piccolo capolavoro in musica, partorito da un gruppo che, partendo dalla natia Romagna, ha saputo con sudore, bravura e professionalità, ritagliarsi il proprio spazio nel panorama musicale internazionale. Basta solamente dare un’occhiata al loro ricco curriculum sonoro, che vanta presenze come backing band al fianco, solo per citarne alcuni, di artisti del calibro di Dan Stuart, Hugo Race e Robyn Hitchcock, senza poi dimenticare la fitta schiera di prestigiosi ospiti presenti tra i solchi dello splendido esordio Douglas and Dawn. Ospiti che fanno bella mostra di sè anche in Rosario, tra i quali non si possono non citare autentici giganti della batteria come Jim Keltner e John Convertino, o la sempre magnifica Isobel Campbell. Il merito dell’ottima fattura dell’opera spetta tuttavia in primis agli stessi Sacri Cuori, capaci in soli due album di forgiare una formula sonora in grado di fondere arcaici ricordi della propria terra d’origine, atmosfere care al mai troppo compianto Nino Rota, e rimandi al desert rock marchiato Calexico. Proprio quest’ultimo impregnava le atmosfere del precedente Douglas and Dawn e anche in quest’occasione il combo romagnolo pare guardare proprio all’opera del combo di Tucson, come ben si evince in brani quali Sundown e Sei dove, vuoi per la presenza dietro ai tamburi proprio di Convertino, si fanno più forti i richiami al sabbioso deserto dell’Arizona. Una proposta quella dei Sacri Cuori che, per la sua natura immaginifica e prevalentemente strumentale, sarebbe ideale colonna sonora di un ipotetico lungometraggio girato tra un set felliniano e la frontiera americana. Un suono che trae la propria linfa vitale dalla chitarra, in bilico tra psichedelia e blues, di Antonio Gramentieri, vero e proprio fulcro sonoro intorno al quale ruota l’intero universo Sacri Cuori. Un microcosmo nel quale sono confluiti alcuni tra i più valenti musicisti nostrani, come l’eccellente sezione ritmica formata dagli incastri percussivi di Diego Sapignoli, al quale si alterna in più d’un occasione Enrico Mao Bocchini, e dal pulsante basso di Francesco Giampaoli, senza dimenticare l’apporto fondamentale del polistrumentista Christian Ravaglioli. Se nel movimentato roots rock di Teresita, la propulsione ritmica è affidata tuttavia alla perizia percussiva di Jim Keltner, i Sacri Cuori dimostrano tutte le proprie qualità in brani come Fortuna, dove evocative arie ninorotiane paiono fondersi con i caldi effluvi del border. Nei sussurri country folk di Silver Dollar e Garrett, East, ad incantare è invece la tanto fragile quanto, come al solito, meravigliosa voce di Isobel Campbell, autrice tra l’altro delle stesse liriche. Un album, Rosario, colmo di magia sonora, ad opera di una delle più belle e solide realtà del panorama musicale nostrano e non.

sabato 22 settembre 2012

Calexico - Algiers

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


martedì 11 settembre 2012

Med in Itali - Coltivare piante grasse

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo un lungo apprendistato come busker nelle strade della verde Irlanda, i Med In Itali avevano legittimato la propria, seppur distorta, ragione sociale tornando a calcare l’italico suolo. Un ritorno a casa culminato con la pubblicazione di due EP, pregni di una già spiccata personalità e capaci al contempo di attirare i favori di larga parte della critica musicale. Una personalità che con il tempo non è scemata, facendosi anzi più marcata come messo in luce da Coltivare Piante Grasse, loro debutto discografico sulla lunga distanza. Un tourbillon sonoro, quello alla base della proposta sonora del combo torinese, che poggia su salde basi rock, venate di funk, senza tuttavia rinnegare il recente passato acustico. Proprio la chitarra acustica di Niccolò Maffei, al quale sono affidati anche il microfono e il banjo, è il filo conduttore nelle scorribande sonore dei nostri, trovando nelle geometrie ritmiche della batteria e delle percussioni di Matteo Bessone così come del basso di Nello Zappalà due più che validi alleati. Ad essi si aggiungono le calde melodie opera dei fiati, sax tenore e soprano, flauto e clarinetto basso, nei quali soffia con gusto Amedeo Spagnolo. Una versatilità sonora che va a braccetto con una penna tanto arguta quanto ironica, nel suo imprimere su carta momenti di vita vissuta, alternando ad essi una feroce critica sul contemporaneo sistema sociale e culturale italiano. Appartengono alla prima categoria brani come l’opener Perle Umide che, con i suoi repentini cambi di tempo in chiave jazz-funk, pare uscita da una session della Dave Matthews Band; o una 7 fiori, dove prosegue l’ondeggiamento ritmico, con il banjo a tinteggiare il tutto di visionarie tonalità country folk. Lo sguardo critico dei torinesi emerge invece in Musicista Precario, amara riflessione, in bilico tra ritmi sincopati e pura improvvisazione, sulle difficoltà dell’essere un musicista nell’Italietta di oggi, o in Piante Grasse che abbraccia la causa ambientalista. Il gruppo vira poi deciso verso liberi territori jazz nella notturna Schiava di Un’Idea, impreziosita dalla tromba dell’ospite Luca Begonia. Altro ospite di rilievo è sicuramente Matteo Negrin, vero e proprio maestro della sei corde acustica, autore in Rabbia di splendidi ricami melodici. In Cambiato Sono troviamo invece Josh Sanfelici, impegnato anche dietro al banco di regia, i cui precisi interventi alla chitarra elettrica non snaturano l’originaria formula sonora acustica del quartetto. Con Non Mi Stanco i nostri si avventurano in prima inesplorati territori avant folk, dimostrando di sapersi muovere con disinvoltura anche in questo frangente.
La musica dei Med in Itali pare proprio ricordare le piante grasse menzionate nel titolo; caratterizzata da una robusta scorza esterna, al suo interno cela una dissetante e fresca miscela sonora, tutta da scoprire.

sabato 8 settembre 2012

Kelly Joe Phelps - Brother sinner and the whale

(Pubblicato su Rootshighway)

Ritorno alle origini per Kelly Joe Phelps che, per questa sua decima fatica discografica, decide di dedicarsi nuovamente alla sola chitarra, esplorando con essa quei territori acustici che ne hanno contraddistinto la carriera fin dagli esordi. Sulle doti chitarristiche e sulla bontà del songwriting del musicista americano credo che nessuno abbia alcunché da obiettare, ma anche gli eventuali scettici sono sicuro che verranno convertiti, è proprio il caso di dirlo, dalla bontà di Brother Sinner & the Whale. Phelps ha infatti plasmato dodici splendidi brani, tra autografi e traditional, di chiara derivazione gospel ma intrisi di folk e blues, nei quali, a livello testuale, a spiccare è una profonda vena religiosa, come si può facilmente intuire dai chiari rimandi biblici presenti. Lo stesso Phelps descrive l'album come un libro, del quale Goodbye to sorrow può essere considerata la prefazione, mentre gli altri brani hanno funzione di ipotetici capitoli letterari, piccole ma fondamentali parti di una più ampia opera narrativo-musicale.Un lavoro pregno di significati quindi, pur nel suo scarno impianto acustico; un vero e proprio viaggio alla riscoperta della propria spiritualità e fede in Dio, che Phelps affronta a cuore aperto, con l'unico supporto della propria fida sei corde. Quest'ultima, sia che si tratti di una resofonica o di un acustica, è infatti l'indiscussa protagonista dell'intero lavoro, come ben si può evincere fin dall'incalzante Talking to Jehova, posta in apertura, con bottleneck d'ordinanza, o nelle tinte gospel di Hope in the Lord to provide. Se il traditional I've been converted è un ritorno verso un arcaico e primordiale blues (era già presente, seppur in una versione più estesa, sul suo debutto Lead Me On), lo strumentale Spit me outta the whale è territorio ideale per le digressioni chitarristiche del nostro. Nella sofferta Hard time they never go away, così come in Pilgrim's reach, la resofonica cede invece la scena alla chitarra acustica e ad un fingerpicking del quale Phelps è indiscusso maestro. Tecnica quest'ultima che ritroviamo nella bellezza adamantina di Goodbye to sorrow, punto focale della raccolta, dove, ad una prestazione maiuscola sulla sei corde, si aggiunge una perfomance vocale calda e avvolgente, e dalla quale traspaiono echi del leggendario bluesman Mississippi John Hurt. Le tematiche religiose hanno, come accennato in precedenza, ruolo preponderante nell'economia dell'album, come ribadito dai sentori folk di Sometimes a drifter, o nel delicato scorrere del bottleneck di Down on the praying ground. Phelps pare proprio un novello Mississippi John Hurt, in grado con la musica di riscattare la propria anima dalle brutture a cui la vita terrena la sottopone quotidianamente, estendo al contempo questa salvifica redenzione musicale anche a coloro che fruiranno della sua opera. Che siate ferventi credenti o meno, quello che è fuori discussione è la caratura artistica di Brother Sinner & the Whale; un vero e proprio toccasana per le orecchie e per l'anima.

giovedì 6 settembre 2012

Ry Cooder - Election special

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Povero Mitt Romney, neanche il tempo di essere incoronato sfidante repubblicano di Obama nella prossima corsa alla Casa Bianca, che si trova ad essere indagato, per elusione fiscale, dalla procura di NYC. Un bel grattacapo per il mormone del Massachusetts che, all’alba della convention del partito dell’Elefantino, aveva dovuto anche fronteggiare l’attacco musicale di un rabbioso Ry Cooder. Election Special, il nuovo duro e politicizzato album del chitarrista americano pare infatti scagliarsi con particolare veemenza, in vista della futura tornata elettorale, proprio contro il candidato repubblicano, acuendo la profonda critica socio-politica già alla base di Pull Up Some Dust And Sit Down dello scorso anno. Esplicativo in tal senso è un brano come Mutt Romney Blues, un tagliente e percussivo blues acustico, narrante la triste vicenda di Seamus, il setter dello stesso politico, lasciato dal suo padrone sul tettuccio della propria macchina, durante un viaggio di centinaia di chilometri. Prendendo spunto dalla lapidaria frase del reverendo Al Sharpton secondo la quale “Capisci molte cose da come una persona tratta il suo cane”, Cooder insinua così più di un dubbio sulle qualità morali del candidato presidenziale. La Destra americana è tuttavia solo uno dei bersagli contro i quali si scaglia l’invettiva cooderiana. Ad essere analizzata in tutte le sue contraddizioni è la società statunitense nella sua interezza, minata nel profondo dal nero cancro della speculazione economica, in cui il divario tra i pochi ricchi e i tanti poveri cresce ogni giorno di più, e dove lo stesso presidente Obama pare il più delle volte essere soggiogato, suo malgrado, al volere delle fameliche lobby economiche. La finanza torna oggetto di feroce critica in The Wall Street Part Of Town, in cui affiorano tematiche care al movimento Occupy, o in una Brother Is Gone dove protagonisti sono, su di un’ossatura folkie sferzata da arie irish, i fratelli miliardari David e Charles Koch e il loro patto con il Diavolo. Un album, musicalmente forse meno vario rispetto al suo predecessore, sicuramente più scarno e diretto, dove la musica è ideale veicolo di importanti messaggi socio-politici. Cooder vuole parlare direttamente al ventre molle dell’elettorato americano e lo fa andando a riappropriarsi degli stilemi della tradizione musicale del suo paese. Folk e blues la fanno infatti da padrone, con il nostro che opta per una dimensione “solitaria”, alternandosi ai vari strumenti a corda, principalmente chitarra e mandolino, coadiuvato dal solo supporto ritmico del figlio Joachim. Nasce così lo sbuffare country’n’grass di Going To Tampa, satirica presa per i fondelli dell’evento politico clou del Grand Old Party, la sua annuale convention, tenutasi appunto in Florida, mentre il muscolare roots rock di Guantanamo pone in primo piano il sempre più preoccupante fenomeno della proliferazione delle carceri private. Nel lento incedere blues di Cold Cold Feeling Cooder si immagina invece nei panni del presidente Obama, solo nella Casa Bianca con all’esterno la minaccia dei mastini dell’alta finanza e dell’ostracismo repubblicano, invitando ogni singolo americano a fare altrettanto per constatare di persona come in queste condizioni il più delle volte risulti impossibile governare. L’oscura Kool-aid pare invece arrivare dai solchi di We’ll Never Turn Back, splendido disco intestato a Mavis Staples, dove il chitarrista era impegnato in prima persona, e dal quale pare mutuarne l’impasto sonoro. The 90 And The 9, dal canto suo, è forse quanto di più bello scritto ultimamente dal nostro, una lenta e sofferta ballata che profuma di radici dove, grazie ad un ipotetico dialogo tra padre e figlio, viene analizzata l’assurda pratica di reclutamento militare effettuata direttamente nelle scuole. Un American Dream che si è fatto negli anni sempre più opaco, minato nelle sue stesse centenarie radici, quelle costituite dalla Costituzione, che nella conclusiva ed urlata Take Your Hands Off It, Cooder intima di non profanare. Musica viva e pulsante quindi quella alla base di Election Special, ennesimo grande album a nome Ry Cooder.