sabato 29 novembre 2014

Mark Olson - Good-bye Lizelle

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il ritirarsi, in volontario esilio, evitando in tal modo le pressioni dell'odierna industria discografica, sembra giovare al songwriting di Mark Olson, come in passato dimostrato dagli album a nome Original Harmony Ridge Creek Dippers, cristallini risultati di una purezza compositiva ritrovata tra la sabbia del deserto del Mojave, o come nel caso dell'odierno 'Good-bye Lizelle', album "globale" concepito e posto su nastro durante alcuni viaggi, tra Armenia, Repubblica Ceca, Usa, Norvegia e Finlandia. Proprio nel freddo nord Europa il songwriter americano pare aver trovato nuovi stimoli, grazie anche all'incontro con la polistrumentista e cantante norvegese Ingunn Ringvold, divenuta sua moglie e partner artistica. Un sodalizio, ricordante quello con l'ex consorte Victoria Williams, iniziato, musicalmente, tra i solchi di Many Colored Kite, secondo album solista, invero non del tutto a fuoco, del nostro, e seguito dell'invece brillante esordio The Salvation Blues, per poi proseguire durante le sessioni di registrazione di Mockingbird Time, acerbo frutto dell'estemporanea reunion dei seminali Jayhawks. Solo oggi, tuttavia, la collaborazione autoriale tra i due pare raggiungere finalmente la propria compiutezza, con la Ringvold non solo impegnata a "colorare" il songwriting olsoniano con le proprie, multiformi capacità strumentali, oltre che con splendide armonizzazioni vocali, quanto a partecipare direttamente allo stesso, unendo in più di un episodio la propria penna a quella del marito, in un processo di scrittura a due non scevro di pregevoli risultati. Composizioni in divenire, nate e registrate, in modo spesso informale, nella quiete di un portico o tra le pareti di legno di un vecchio fienile, grazie all'ausilio di un registratore portatile Nagra e al supporto di una piccolo gruppo di musicisti norvegesi, nel tentativo di salvaguardare l'immediatezza del momento e la veridicità esecutiva, grazie ad un approccio che pare figlio delle field recordings di lomaxiana memoria. A giovarne, oltre alle composizioni, è il suono stesso dell'album, caldo ed avvolgente, come ricoperto da una suggestiva aurea Sixties, nonché intriso delle influenze sonore dei luoghi nei quali è stato impresso su nastro. Ed è proprio la ricchezza cromatica delle strutture melodiche a colpire, in un inedito ampliamento della tavolozza sonora olsoniana, con le seppiate tonalità Americana originarie a fondersi con più mediorientali coloriture dalle tinte ocra. Basta infatti immergersi in brani quali Running Circles o Jesse In An Old World, dove il tremulo vibrare delle corde del quanon ed il rallentato battere tribale delle percussioni sono l'ideale tappeto ritmico-melodico per melismatici incroci vocali, oppure nella sublime Say You Are The River, rimandante tanto alla pastoralità acida del folk psichedelico albionico di fine anni Sessanta, quanto all'infatuazione per il misticismo e le sonorità indiane di George Harrison, in particolare, e dei Beatles tutti, per apprendere come la parte mediorientale del viaggio dei due abbia senza dubbio influenzato la genesi degli stessi brani. Nella luminescenza lisergica di Poison Oleander appare invece la sei corde elettrica dell'amico Neal Casal, riportando le coordinate stilistiche aldilà dell'Oceano, entro quelle strade Americana in passato battute a più riprese con i Jayhawks e i cui ricordi qui paiono a tratti riemergere, come nella melanconica Long Distance Runner. Piccole oasi di trattenuta introversione sono tanto Cherry Thieves e Which World Is Ours?, in un incantevole pastiche folk rock intriso della solarità del Laurel Canyon settantiano di un'altra coppia, quella formata da Graham Nash e Joni Mitchell. Non mancano momenti di più sgargiante chiarore melodico, come All These Games e Heaven's Shelter, dove ben evidente, invece, è il marchio sonoro dell'Olson solista, o la conclusiva, pianistica Go-Between Butterfly, impreziosita dagli intarsi cameristici del violoncello di Vojtech Havel e del flauto di di Marek Spelina. Uno scrigno colmo di delizie, Good-bye Lizelle, di cartoline esistenziali di un viaggio musicale da parte di un songwriter cosmopolita tornato a deliziarci con una grazia espressiva raramente attestatasi sui medesimi livelli nelle sue precedenti sortite da solista.





Luke Winslow-King - Everlasting Arms

(Pubblicato su Rootshighway)


The Coming Tide, suo esordio, lo scorso anno, per la chicagoana Bloodshot Records, ma in realtà terzo lavoro a proprio nome, era stato il classico "fulmine a ciel sereno", capace di guadagnarsi il plauso di larga parte della critica. D'altronde il chitarrista, songwriter di Cadillac, Michigan, ma da tempo trapiantato in quel di New Orleans, aveva dimostrato, fin dai primi parti solistici, di saper mescolare, con gusto e padronanza, stilemi musicali tra i più disparati, appartenenti alla tradizione afroamericana. E se al principio era alquanto marcata l'influenza di quel fervente crogiuolo musicale che è tutt'oggi la città della Louisiana, con The Coming Tide, il nostro aveva ulteriormente arricchito la propria, personale miscela con bucolici squarci melodici, in odore di Americana, e gli stridori del blues deltaico, in un percorso di riscoperta condotto parallelamente ad una crescita autoriale ed interpretativa oggi giunta alla sua definitiva maturazione. Anzi, con l'odierno Everlasting Arms, Winslow-King si appropria di nuove, e ben più elettriche, sonorità, dimostrando un insaziabile appetito musicale. Registrato in quattro differenti studi, tra i quali i familiari Piety Street di New Orleans e il Jambona Lab di Livorno, dove ha impresso su nastro il proprio contributo il "nostro" Roberto Luti, Everlasting Arms è, senza dubbio, la testimonianza perfetta dell'attuale modus operandi del chitarrista. Punti focali erano e rimangono, per l'appunto, la sua sei corde, sia essa una vecchia resofonica che una sua più moderna "discendente"; ed una vellutata voce, da troubadour, legata armonicamente, a più riprese, con quella della consorte Esther Rose, qui nuovamente impegnata ad accentuare la spigliatezza ritmica dell'intero lavoro, dividendosi tra washboard e un "inconsueto" ferro di cavallo. Vedono la luce in tal modo piccole delizie come I'm Your Levee Man, dove si avverte l'eco dell'orgiastica esuberanza dixieland della Creole Jazz Band di King Oliver, o la title track, dall'afflato gospel, riuscito reprise dell'omonima composizione di Anthony J. Showalter. Di ben maggior grana elettrica sono invece la tellurica Swing That Thing, dove l'hill country blues di RL Burnside incontra il Diddley-sound urbano di Elias Bates McDaniel, una Cadillac Slim tra rimandi al rhythm and blues marchiato Stax ed intrecci vocali doo wop, e il sincopare sudista di una Domino Sugar figlia "illegittima" tanto dei Black Crowes che degli Stones di Sticky Fingers. Con la percussiva briosità caraibica di La Bega's Carousel, ci si immerge invece nel selvaggio "suono delle giungla" dell'orchestra del "Duca", per poi passare, in Home Blues, al caracollare jazzy di quella di Cab Calloway, mentre con il lancinante scorrere del bottleneck della conclusiva Traveling Myself si torna sulle colline in un ideale tributo all'arte di Mississippi Fred McDowell. Ancora una volta Luke Winslow-King ha saputo dimostrare come sia possibile rileggere il passato senza, al contempo, perdere nulla della propria originalità, ed Everlasting Arms ne è la prova più che tangibile.



Bonnie "Prince" Billy - Singer's Grave - A Sea Of Tongues

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Eccentrico e, a volte, sin troppo esuberante, con una labirintica produzione discografica caratterizzata dal frenetico avvicendarsi delle più diverse ragioni sociali, di fronte alla quale anche il più fervente sostenitore è rimasto a volte, per usare un eufemismo, spiazzato, Will Oldham ha continuato imperterrito a perpetuare, fin dagli esordi, una propria, intransigente concezione musicale, tramutandosi, sempre più, nella classica "mosca bianca", in un mondo discografico oggi più omologato che mai. Un modus operandi, quello dell'istrionico songwriter di Louisville, Kentucky, capace tuttavia di produrre, ogni qual volta egli pone piede in uno studio di registrazione, album dalla visionaria bellezza, in grado di irretire l'ascoltare, in una sorta di rapimento mistico, trasportandolo in un bislacco mondo parallelo, dove i vetusti stilemi folk, appresi da bambino nella propria città natia, vengono riveduti e corretti attraverso una personale, stranita visione della medesima materia sonora. Frutto di questo approccio "senza regole" è anche l'odierno Singer's Grave - A Sea Of Tongues, pubblicato, quasi a sorpresa, a distanza di pochi mesi da un'opera omonima, divenuta in breve tempo il Sacro Graal della discografia oldhmaniana, vista anche l'assenza di una vera e propria distribuzione, ed una conseguente reperibilità pari, per l'appunto, alla tanto agognata reliquia cristiana. Una scelta, questa, anch'essa controcorrente che aveva fatto mangiare le mani a più di un suo fedele "suddito", specie alla luce della qualità del lavoro stesso, senza dubbio tra le punte di eccellenza dell'epopea discografica del nostro. Ed oggi, quasi a volersi far perdonare, il Principe dà alle stampe un nuovo lavoro, della medesima, se non maggiore, caratura; un nuovo ossequio alla tradizione folk, perpetrato attraverso la consueta, trasognata forza poetica. In realtà l'aggettivo "nuovo" è forse quello meno calzante per definire l'opera in questione, visto che ben cinque brani comparivano già tra i solchi di Wolfroy Goes To Town, vecchia pubblicazione a marchio principesco uscita nel "lontano" 2011. Certo il nostro ci aveva abituato, ricorrendo proprio al suo pseudonimo più famoso, a rileggere e riarrangiare il proprio materiale passato, vedasi a tal proposito Bonnie Prince Billy Sings Greatest Palace Music, meraviglioso esercizio di “rivangazione”, in chiave country folk, del repertorio a nome Palace, nelle sue più diverse accezioni, così come l'E.P. Now Here's My Plane, dove oggetto di rivisitazione erano proprio alcuni "classici" del suo moniker regale; eppure, fin dal primo ascolto, il lavorio in fase di arrangiamento approntato per questi e i restanti brani, scritti per l'occasione, è la fulgida testimonianza di una mai prosciugatasi vena lirica, anzi a dir poco idilliaca nel suo stare in bilico tra trattenute vibrazioni acustiche e trascendenti increspature elettriche. Su cotanto flusso sonoro di disincantato fascino agreste, a spiccare, in tutto il suo magnetismo, è, come sempre d'altronde, il canto oldhamiano mai forse così capace di affascinare per pienezza timbrica e melanconica confessionalità, raggiungendo il proprio apice emozionale negli scambi vocalizzanti con le corde vocali, d'ascendenza gospel, delle McCrary Sisters e di Caroline Peyton, quest'ultima chiamata qui a sostituire la "dimissionaria" Angel Olsen, dietro al microfono in occasione proprio del precedente Wolfroy Goes To Town. E sono i brani di quest'ultimo a lasciare a bocca aperta per la trasformazione sonora ai quali sono stati sottoposti, con il velo di cupezza che originariamente li rivestiva sostituito da un nuovo, tenue manto melodico, dove si avverte tanto l'influsso della mano, e della mente, dello stesso titolare, quanto il contributo strumentale del fido Emmett Kelly, e di una sei corde ormai da tempo asservita all'operato sonoro del proprio "sovrano" musicale. Devono, pertanto, leggersi come composizioni "inedite" una There Will Be Spring pregna di languide sfumature country, con le fluttuanti ondulazioni melodiche della pedal steel di Paul Niehaus, già con Calexico e Lambchop tra gli altri, in primo piano, così come il quieto raccoglimento di una, quasi, sussurrata It's Time To Be Clear, passando per il saliscendi polveroso di Quail And Dumplings, con lo stridere delle corde del violino di Billy Contreras a contrappuntare l'empatico duetto vocale tra Oldham e la Peyton, fino ad una We Are Unhappy dallo scarno scheletro strumentale old time, costruito sul picking appalachiano del banjo di Richard Bailey, con le voci delle McCrary Sister ad aggiungere al tutto una chiesastica forza devozionale. Un continuo incrociarsi di voci che ritroviamo anche nello spartano country rock dell'opener Night Noises, o in una Whipped dove la voce del "Principe" arriva a raggiungere vette d'inusitata altitudine timbrica, quasi spezzandosi nel tentativo di cotanta scalata tonale. Di maggior dinamismo è invece So Far And Here We Are, dove il retroterra musicale a stelle e strisce del nostro incontra le nebbie psichedeliche dei Trembling Bells, tanto da sembrare una outtake di The Marble Downs, album condiviso proprio con il combo scozzese. Si smorzano tuttavia, nuovamente, i toni e si rallentano i tempi in New Black Rich (Tusks) e in Sailor’s Grave A Sea Of Sheep, poste in chiusura, la prima una lenta, straziante ballata elettrica, mentre la seconda un valzer dalla inarrivabile grazia acustica, ed ideale chiosa intimista, dall'evanescente bellezza. Collocandosi idealmente tra l'imprescindibile, succitato, Sings Greatest Palace Music, e le passeggiate bucoliche di Ease Down The Road; Singer's Grave - A Sea Of Tongues, nella sua paradisiaca grana melodica rootsy, rappresenta l'ennesima pietra miliare della saga "principesca".




giovedì 6 novembre 2014

Sonido Gallo Negro - Sendero Mistico

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dalla pubblicazione, invero solo nel natio Messico, del loro folgorante debutto, Cumbia Salvaje, i Sonido Gallo Negro hanno a dir poco “bruciato le tappe” di un percorso che li ha visti passare da fenomeno di culto della scena underground della propria città natale, Città del Messico, a calcare i palchi dei maggiori festival messicani, fino ad essere invitati, nella vecchia Europa, nientemeno che da Emir Kusturica, al, da lui stesso curato, Kustendorf Festival. Il regista serbo non è stato tuttavia il solo ad accorgersi della schizofrenica amalgama sonora approntata dai nove messicani, anche la benemerita Glitterbeat, fino ad oggi intenta a scandagliare il desertico terreno musicale africano, ha rivolto la propria attenzione verso il prima inesplorato continente sudamericano, pubblicando, sotto la propria egida, il secondo album dei nostri, Sendero Mistico. Sviluppatosi sulle medesime, folli coordinate sonore del suo predecessore, questo nuovo lavoro in studio del combo messicano rappresenta una nuova febbrile esplorazione della tradizione musicale latinoamericana, appropriandosi del misticismo della cumbia peruviana ed amazzonica, miscelandolo con il huayno e il boogaloo, per poi stravolgerlo ed “imbastardirlo” con ruvida elettricità garage, liquide fluttuazioni lisergiche, e l'immaginario desertico del miglior spaghetti western. Una speziata ricetta sonora ottenuta grazie a strumenti d'ascendenza tradizionale, come il flauto, il theremin, e le più diverse percussioni latine, ai quali se ne aggiungono altri di più moderna foggia, come farfisa, chitarre elettriche, basso e sintetizzatori. Un caleidoscopico, torrido, tessuto musicale che trae la propria forza dall'assenza di liriche, in quello che è un unico, dilatato, flusso sonoro strumentale, diviso in dieci ideali “movimenti”. Dieci tracce aventi ognuna un ruolo primario nel dar vita ad una narrazione sonica in bilico tra la sciamanica danza propiziatoria e l'allucinato trip lisergico. Impossibile tuttavia non citare episodi come la conturbante cumbia El Ventarron, sorta di libera improvvisazione tra i Calexico e i Los Lobos strafatti di mescalina; o le visioni desertiche di una Virgenes Del Sol dalla sabbiosa evanescenza. Di straordinaria densità strumentale sono altresì Alfonso Graña (Selvatica) e Inca-A-Delic, tra increspature solistiche, ad opera di farfisa, theremin e chitarre elettriche, ed un tripudio percussivo dalla costante, ossessiva scansione metronomica, in una mareggiata psichedelica recante, nel suo immaginifico moto ondoso, gli originali stilemi della succitata cumbia peruviana. Chiude l'album l'acida magnificenza di Mistery Of Zangbetos, ideale manifesto estetico di un collettivo a dir poco stupefacente nel suo perpetuare, imperterrito, una missione strumentale d'ipnotica astrazione. Un viaggio di mistica trascendenza, Sendero Mistico, dove tradizione e modernità si incontrano e si fondono in una sorta d'estatico rituale di cinematica visionarietà; un turbinio costante di ritmi, colori e rumori, capace di stregare dalla prima all'ultima nota, trasportandoci in sconosciuti, affascinanti mondi sonici. D'altra parte come gli stessi Sonido Gallo Negro spiegano nelle liner notes dell'album; «Instrumental cumbia can show you impressive, disconcerting and mysterious images, where everything invisible becomes present».


Primus - Primus and the Chocolate Factory with the Fungi Ensemble

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



“Come credo la maggior parte del pianeta anche noi siamo rimasti piuttosto delusi dal remake del film di Willy Wonka, dalla versione di Tim Burton insomma. Volevo tributare il giusto omaggio al film originale che è stato molto importante per me, musicalmente, da bambino”; parole dello stesso Les Claypool, folle deus ex machina degli schizofrenici Primus. Sembra quasi di vederlo il bambino Leslie assistere, rapito, alla trasposizione cinematografica del libro di Roald Dahl, con un magistrale Gene Wilder nei panni dell'istrionico “cioccolataio” Willy Wonka, sognando di poter anch'egli visitare la magica fabbrica di quest'ultimo, un paradiso dolciario tra cascate di cioccolato e confetti senza confini. Un sogno che oggi per il bassista californiano diviene, perlomeno musicalmente, realtà, in una sghemba impresa di destrutturazione e rigenerazione delle composizioni originali approntate, all'epoca, da Leslie Bricusse e Anthony Newley. Non una calligrafica esecuzione delle partiture primigenie quindi, ma una delirante “appropriazione” pentagrammatica in puro Primus-style, prediligendo, al contempo, i temi ricorrenti presenti all'interno delle medesime composizioni. Quattordici le tracce riviste e corrette dal nostro in compagnia dei vecchi sodali Larry Lalonde e Tim “Herb” Alexander, a riformare, su disco, la storica line-up primusiana, ai quali si aggiunge, in questa grottesca orchestrazione “cioccolatosa”, il supporto strumentale del Fungi Ensemble (ovvero il percussionista Mike Dillon e il violoncellista Sam Bass, già nei Frog Brigade). Un baloccarsi stralunato tra dense, dopate spirali chitarristiche, il sibillino pulsare di un basso, al solito, seviziato, cacofoniche arie cameristiche, e fondali ritmici beefheartiani opera del claudicante percuotere di batteria, marimba e percussioni assortite, dove a spiccare è, tuttavia, lo sproloquiare psicotico, salmodiante, dello stesso Claypool, quanto mai a suo agio nel ruolo di Willy Wonka. Spiccano così per il claustrofobico trattamento ricevuto il sinistro benvenuto strumentale del tema d'apertura Hello Wonkites, il nevrotico svolgersi narrativo di una “giubilante” Golden Ticket, gli stranianti gorghi melodici ascendenti di Semi-Wondrous Boat Ride, così come le dissonanze aritmiche di una, a dir poco spettrale, Wonkmobile.Frammenti sonori, a volte di breve durata, nei quali tuttavia emerge l'eclettismo dirompente di Claypool, in questo frangente ancor più senza freni rispetto alle precedenti sortite della propria prediletta “creatura sonica”, ed avente la sua sublimazione nella riproposizione della splendida Pure Imagination, affidata, nella versione cinematografica, alle corde vocali di Gene Wilder, e qui tramutatasi, da un sognante viaggio attraverso i mondi fantastici creati dalla propria immaginazione, in un'angosciosa discesa negli anfratti più bui e reietti della mente umana. Davvero riuscite, nella loro lucida follia, sono anche le caratterizzazioni sonore dei vari personaggi (Oompa Augustus, Oompa Violet, Oompa Veruca, Oompa TV), scaturiti dalla geniale penna di Dahl e nel film spettanti alle divertenti filastrocche degli Oompa Loompa, fedeli aiutanti di Willy Wonka, qui ripresentate invece in nuove, inquiete versioni, tra acidi intrecci vocali e limacciosi incastri percussivi. Colpisce, per la sua aura orientaleggiante, I Want It Now, con lo stridere dell'archetto sul violoncello di Sam Bass a contrappuntare i dissoluti fraseggi della sei corde di Lalonde, per poi, infine, abbandonare quel luogo di, oggi, ferale incanto che è divenuto il mondo wonkiano, grazie al visionario filtro sonoro marchiato Primus, sulle note della conclusiva Farewell Wonkites, in bilico tra distorsioni hendrixiane e liquide trame sonore figlie dei Pink Floyd di Animals. Ed ora che la vecchia azienda di Willy Wonka ha riaperto i battenti, sotto la nuova gestione primusiana, non vi resta che procurarvi una copia fisica dell'album, nella speranza di trovare uno dei fantomatici biglietti dorati, e vincere così un immaginifico tour tra le caleidoscopiche mura della fabbrica di cioccolato. Claypool-Wonka vi attenderà all'ingresso per farvi da guida in questa escursione dolciaria e, se ne uscirete vivi, al vostro ritorno avrete sicuramente qualcosa da raccontare.


Da Joplin, Missouri, “con ogni mezzo necessario”. Intervista a Ben Miller

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo l'interessante esordio, “Heavy Load”, ed un intenso tour che li ha portati anche in Europa, di supporto agli ZZ Top, la Ben Miller Band ha da poco dato alle stampe, il suo secondo album ”Anyway, Shape Or Form”, registrato agli Sputnik Studios di Nashville e prodotto da Vance Powell. Folk degli Appalachi, blues del Delta e country nashvilliano tornano a convivere in un'irriverente amalgama battezzata dai nostri con la denominazione doc di Ozark Stomp. Abbiamo chiesto a Ben Miller di svelarci i segreti di questo folle trio.


Partiamo dal principio, come si è formata la Ben Miller Band?

Abbiamo iniziato a suonare insieme ad una serata open mic organizzata nella zona in cui viviamo, e dopo aver continuato a suonare insieme per un pò di tempo è venuto quasi naturale farlo durante i weekend nei vari club e locali.


Avete battezzato la vostra "miscela" musicale, in onore della vostra regione geografica, Ozark Stomp. Potete descriverci quali sono gli "ingredienti" che avete mescolato tra loro per creare questa vostra personale "ricetta"?

Non direi che gli ingredienti sono importanti, perlomeno non quanto una filosofia “innovativa”. E' presente una sorta di individualismo irriverente, che rappresenta una delle caratteristiche della regione in cui viviamo, nel nostro modo di intendere e fare musica. Così come probabilmente vi sono anche molte influenze delle sonorità delle Ozark Mountains in quello che suoniamo, ma questo non in modo consapevole. La nostra musica è paragonabile ad un cibo che ha assorbito determinati sapori dal terreno nel quale è stato coltivato.


“Anyway, Shape Or Form”, il vostro secondo album, rappresenta, fin dal titolo, una chiara dichiarazione d'intenti; il vostro desiderio di creare musica con ogni mezzo necessario. Questa ‘filosofia’ si riflette anche nei vostri particolari, nonchè autocostruiti, strumenti, estrapolati dalla tradizione musicale bianca e nera, ma modernizzati ed elettrificati. Ci potete spiegare come li avete modificati? Quanto sono importanti questi strumenti per l'economia sonora del vostro trio?

Amiamo provare e sperimentare cose nuove, spesso funzionano, altre volte no. Provo a spiegarlo usando una metafora sull'evoluzione naturale. Gli animali hanno, da sempre, sviluppato strane ed idiosincratiche caratteristiche e comportamenti, con il passare delle generazioni, attraverso la mutazione. Se un animale può sopravvivere meglio con il collo più lungo, quel tratto somatico rimarrà nel suo dna e verrà tramandato alla propria prole. Allo stesso modo, musicalmente, abbiamo subito un'evoluzione, fino a diventare quello che siamo oggi. Sperimentiamo nuovi strumenti, canzoni e stili, e se il tutto suona nel modo giusto per noi, e per i nostri amici, allora sopravvive anche nei successivi concerti. Non avevamo un'idea originaria del modo in cui avremmo dovuto suonare, il tutto si è, per l'appunto, evoluto in modo graduale, lungo la strada percorsa insieme, grazie anche alla nostra sensibilità musicale e all'ambiente circostante.


Nel vostro debutto discografico, “Heavy Load”, era contenuto un personale arrangiamento dello spiritual nero, Get Right Church, mentre oggi in “Anyway, Shape Or Form”, è presente una notevole versione della ballata folk, d'ascendenza bianca, The Cuckoo; come scegliete solitamente i brani da rivisitare, alla luce anche della molteplicità di stili che esplorate? In che modo approcciate la tradizione musicale del vostro paese, bianca e nera?

Non penso alla "razza" del musicista quando ascolto vecchie canzoni o brani tradizionali. Certamente la musica è stata influenzata dalla storia e dal patrimonio umano delle varie persone, e dal contesto storico nelle quali esse hanno vissuto. Ma, davvero, noi non pensiamo alle canzoni, le sentiamo, le viviamo. Ho notato come, spesso, le persone non appena ascoltano qualcosa provano, immediatamente, a razionalizzare ciò che stanno sentendo. Se apprezzano la vecchia musica country, per esempio, potrebbero dire; «Mi piacciono i valori che essa rappresenta e la sua autenticità», oppure se a loro piace la musica hip hop; «Apprezzo la critica sociale presente nei testi». Non credo che a loro piaccia, realmente, la musica per queste ragioni, la sentono invece nel loro cuore, nel profondo. Sarebbe come chiedere perché uno scherzo è divertente oppure perché il cibo è delizioso, siamo sicuramente in grado di dare risposte diverse a queste domande, ma uno scherzo è divertente perché è divertente e il cibo ha un buon sapore perché, semplicemente, ha un buon sapore. Non vi è assolutamente bisogno di razionalizzare ogni cosa. Bene, detto questo, per quanto riguarda la scelta dei brani da rivisitare, faccio solo quello che ritengo sia giusto per me.


Parlaci, invece, di come nascono le tue canzoni.

In primo luogo, una canzone ha sempre il proprio inizio da qualche parte. Non sai mai esattamente dove nascerà, a volte da una melodia, o da uno spunto strumentale, oppure da un'idea che mi si fissa in testa. Cerco così di trovare un modo di portare questa idea ad uno nuovo stadio, più compiuto, aggiungendo altri elementi, per poi "portarla" fuori dalla mia mente e realizzarla fisicamente. Non sono tuttavia mai del tutto sicuro di quando una canzone è veramente completa, infatti cambio spesso i testi a brani che ormai eseguo da anni. Immagino che non si arrivi mai ad una fine vera e propria, almeno fino a quando uno non si arrende e lascia il tutto com'è.


Per “Anyway, Shape Or Form” siete stati affiancati, in studio, da Vance Powell, dietro al bancone di regia, in passato, per Jack White e Wanda Jackson, come è stato lavorare con lui? Che tipo di cambiamenti vi sono stati, rispetto alle sessioni di registrazione di Heavy Load?

Vance è un nostro caro amico, veniamo tutti da Joplin, nel Missouri, ed è stato rassicurante lavorare con qualcuno che ha le nostre stesse radici. Le sessioni di registrazione, questa volta, sono state una sorta d'esperimento, suonando le canzoni dal vivo, direttamente in studio. E' stato un modo per accelerare la crescita di alcuni brani nati, prevalentemente, durante i lunghi periodi passati sulla strada. Abbiamo trascorso parecchio tempo cercando di trovare le giuste sonorità, lavorando intensamente sulle canzoni, fino al punto in cui abbiamo, finalmente, sentito che avevano trovato la loro forma definitiva.


King Kong, l'ultima canzone contenuta in “Anyway, Shape Or Form”, è una splendida ballata folk per sola voce e chitarra acustica. Come mai avete scelto di chiudere l'album con questo brano?

King Kong è stata l'ultima canzone che ho scritto, quasi una sorta di "ripensamento". Durante le sessioni di registrazione ho chiesto a Vance se poteva settarmi un singolo microfono in modo da poter registrare mentre Doug e Scott erano in pausa dal lavoro su di un'altra canzone. Abbiamo preparato il microfono e registrato il brano un paio di volte, ma non eravamo del tutto sicuri se avrebbe fatto parte dell'album oppure no. Nel mentre stavamo stilando l'ordine dei brani del disco abbiamo cercato di inserire King Kong in diversi punti, ma non suonava mai in modo organico con il resto, probabilmente a causa della sua scarsa strumentazione. Posizionandola tuttavia in chiusura dell'album sembra quasi un extra, un qualcosa in più per coloro che ascolteranno il disco.


Quali sono invece le canzoni dell'album che meglio si prestano per essere riproposte dal vivo?

Amiamo suonare le canzoni di quest'album in concerto, davvero. Come ho già accennato abbiamo lavorato in studio suonando le canzoni dal vivo, ed è un piacere poterle portare, su di un palco, ai nostri fan. Le mie preferite in questo momento, ma cambiano di giorno in giorno, sono: Life On Wheels, 23 Skidoo, Ghosts e Hurry Up And Wait.


Avete suonato in alcuni importanti festival negli Stati Uniti ed in Europa, come l'Americana Music, il Floydfest e il prestigioso Montreux Jazz Festival. Il vostro live show cambia a seconda che suoniate in un festival oppure che si tratti di un vostro "canonico" concerto?

Si, certamente, cambia a seconda di quanto tempo abbiamo a disposizione. Quando suoniamo per soli 45 minuti dobbiamo cercare di attirare l'attenzione del pubblico piuttosto velocemente. Solitamente non ho idea di quali canzoni eseguiremo quando saliamo su di un palco, penso sia molto importante riuscire a leggere lo stato d'animo del pubblico e in base a questo scegliere i brani. Ovviamente con un tempo limitato abbiamo, invece, a priori un'idea di quello che faremo sentire al pubblico presente, ma siamo in grado di cambiare il tutto a seconda dell'umore, nostro e del pubblico stesso.


Quali sono le lezioni che avete imparato nei lunghi periodi trascorsi in tour?

Beh, abbiamo sicuramente imparato a viaggiare leggeri, cercando di capire quali sono le cose essenziali da portare con noi e quali invece da lasciare a casa.


Una riscoperta e modernizzazione della "musica delle radici", la vostra, che vi accomuna a gruppi come la Big Damn Band del ‘Reverendo’ Peyton e agli Hillstomp, giusto per nominare due nomi a voi, musicalmente, affini. Vi sentite parte attiva di questa fervente scena?

In realtà non mi sento parte di una scena specifica, anche se rispettiamo alcune delle filosofie di altre band, ma penso che ognuna si sia sviluppata attraverso un proprio isolamento. Sono comunque felice di vedere come anche altri gruppi hanno le nostre medesime passioni, e solitamente quando le ascolto traggo sempre ispirazione dalle differenze che ci sono tra di noi, questo, inoltre, ci dà la possibilità di "rubare" l'uno dall'altro.


La scorsa estate avete anche debuttato, dal vivo, nel nostro Paese, come opening act per gli ZZ Top. Come vi ha accolto il pubblico italiano?

Sono rimasto davvero sorpreso dall'entusiasmo del pubblico italiano. Avrei dovuto sapere che gli italiani sono noti per la loro passionalità, ma sono stato preso davvero alla sprovvista dal calore dimostrato nei nostri confronti. Dopo lo spettacolo siamo andati a firmare autografi tra il pubblico, e la gente era davvero entusiasta. A volte mi devo fermare per rendermi conto di quanto sono fortunato ad avere l'opportunità di viaggiare e di essere apprezzato da estranei per quello, che con i miei amici, suoniamo.


Cosa c'è nel futuro della Ben Miller Band? Avremo la possibilità di rivedervi, di nuovo, in Italia?

Siamo costantemente sulla strada, di città in città. Suoniamo, regolarmente, quasi 200 concerti all'anno. Probabilmente, nel mentre i vostri lettori stanno leggendo questa intervista noi saremo in viaggio per andare a suonare da qualche parte. Per quanto riguardo il tornare in Italia, non appena ci sarà possibile di attraversare nuovamente l'Oceano, torneremo anche dalle vostre parti.


Ultima domanda, probabilmente scontata, quali sono gli album che vi hanno influenzato come musicisti e/o persone?

(per nulla banale, in realtà ho davvero apprezzato le tue domande, sono ben formulate ed attinenti alla nostra musica, grazie!)

Per quanto mi riguarda, la prima influenza musicale sono stati i dischi dei miei genitori. Ricordo di aver ascoltato e riascoltato parecchio “The Times They Are A-Changin” di Bob Dylan. Era uno degli lp di mia madre, insieme a quelli dei Beatles, Peter, Paul and Mary, Beach Boys e Creedence Clearwater Revival. Mio padre invece ascoltava album di Flatt & Scruggs, Carter Family, Hank Williams e Johnny Cash. Sono stato davvero fortunato ad aver avuto questi dischi in giro per casa, fin da piccolo.