martedì 19 agosto 2014

Jonathan Wilson @ Mojotic Festival - Sestri Levante

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Risuonano ancora le ultime note della earliana Guitar Town, come trasportate dal soffiare della brezza marina, in una Sestri Levante che si appresta ad ospitare, nel suo intimo abbraccio, un nuovo appuntamento live targato Mojotic Festival. E se per l'appunto ieri sera un solitario Steve Earle aveva ammaliato una platea adorante con la forza lirica della propria voce, dividendosi tra chitarra acustica e mandolino, accompagnandoci ad esplorare le strade meno battute dell'America di provincia, oggi a prenderne il posto in veste di “guida sonica” sarà Jonathan Wilson, songwriter originario del North Carolina, ma avente trovato nella California, e nella quiete bucolica del Laurel Canyon in particolare, il proprio “habitat” musicale. Tra le colline alle porte di Los Angeles il nostro ha infatti avviato una fervente attività dietro al bancone di regia, fino a diventare uno dei più apprezzati e richiesti produttori odierni, decidendo in seguito di dare sfogo anche alle proprie pulsioni creative, dapprima organizzando jam informali all'interno del proprio studio - in compagnia di amici del calibro di Chris Robinson, Pat Sansone e John Stirratt dei Wilco, solo per citarne alcuni – in un primo passo verso quella che si sarebbe tramutata, di lì a poco, in una carriera solista sbocciata con lo splendido debutto Gentle Spirit, al quale ha replicato lo scorso anno, l'altrettanto riuscito Fanfare. Una musica dal fascino atemporale, quella contenuta tra i solchi di questi suoi, primi, lavori da titolare, pervasa dagli echi lontani della magica stagione musicale vissuta, tra le alture del Laurel Canyon, nei primi anni Settanta. Armonie westcoastiane, debitrici tanto dell'unirsi vocale di Crosby, Stills e Nash, quanto dell'ugola di Jackson Browne, a sublimare un'ammaliante aura folk rock di stampo californiano, si fondono con gli acidi sentori elettrici della vicina San Francisco, dando vita ad una spirale armonica dalla vorticosa estasi allucinatoria. Ed è questa magia sonica che Jonathan Wilson ha saputo ricreare questa sera sul palco del Teatro Arena Conchiglia, in un prolungato, trascendente Big Moon Ritual, giusto per citare il titolo del debutto discografico della Brotherhood capitanata dall'ex “compagno di jam” Chris Robinson, con la quale il nostro presenta più di un punto in comune. A far entrare il copioso pubblico, affollante gli spalti del teatro, nel mood della serata provvede tuttavia Omar Velasco, chitarrista “al soldo” dello stesso Wilson, presentando, solo voce e chitarra alcuni brani tratti dal suo EP, See Lion Run, alternando ad un neo folk proveniente dalle Blue Ridge Mountains delle “volpi di velluto”, inaspettati sconfinamenti sudamericani, con una sentita riproposizione di Alfonsina Y El Mar, in omaggio alla “cantora popular” Mercedes Sosa. Non vi è neanche bisogno di un veloce cambio palco che su di un'inquietante risata in sottofondo Wilson e i suoi sodali guadagnano il proscenio, con subito il tocco morbido sui tasti del piano di Jason Borger, a tessere la gentile melodia di Lovestrong, unico sostegno alla voce di Wilson la cui cristallina, tenue tonalità rimanda, a tratti, a quella del Graham Nash dell'esordio solista, per poi ingaggiare, una volta imbracciata la propria chitarra, quello che sarà solo il primo di una lunga serie di duelli solistici con Velasco, deviando il tutto verso una liquida divagazione di stampo floydiano. Se, già nella loro versione in studio, i brani partoriti dalla penna wilsoniana spiccavano per la loro consistente durata, dal vivo vengono ulteriormente dilatati, tramutandosi in autentiche ondate psichedeliche, a travolgere gli astanti nel loro sciabordante muoversi, tra anfratti di struggente bellezza catartica e acuminate spigolosità strumentali. Ogni brano è come parte di un unico continuum narrativo-musicale, di una jam infinita avente tuttavia come proprio punto di partenza la primigenia struttura armonica e lirica sulla quale i brani medesimi sono stati creati. Una dimensione sonora, quella wilsoniana, dove songwriting e pratica improvvisativa hanno, pertanto, entrambi il medesimo peso specifico, essendo il primo elemento fondamentale per l'esistenza della seconda. Una forma canzone aperta quindi, con la voce di Wilson quale iniziale, luminosa linea guida, a condurci attraverso un inquieto svolgersi narrativo-sonoro, per poi cedere il testimone ad una chitarra elettrica assurgente al ruolo di traghettatrice verso nuovi ed inesplorati mondi improvvisativi. Ne sono esempio una Fanfare dall'evanescente grazia jazzy, così come l'intima spiritualità di una Magic Everywhere, dove le voci di Wilson e Velasco si congiungono magistralmente, con la sedici corde del secondo a contrappuntare la “canonica” chitarra acustica del titolare, in un incedere younghiano rimandante a 4 Way Street, epica testimonianza dal vivo dell'avventura a nome CSNY. Il vellutato pulsare funk di Fazon, vecchio brano dei Sopwith Camel, allucinata compagine operante in quel di San Francisco verso la fine degli anni Sessanta, dà modo al basso di Richard Gowen e alla batteria di Dan Horne di mettersi in mostra in tutta la loro compattezza ritmica., per poi ritornare, invece, con Gentle Spirit, a fluttuare in una nuova materica oasi d'agrodolce quiete. Un'altra concessione al materiale altrui è Angel, estrapolata da Heroes Are Hard To Find dei Fleetwood Mac, e trasformata in una desolata invocazione, con Wilson ad abbandonare per un momento la chitarra per scuotere uno shaker africano, in una sorta di tribale danza sciamanica. Moses Pain era una gemma dalla rilucente bellezza già nella sua versione in studio, ma dal vivo acquista ulteriore caratura, in una corale progressione, dopo un incipit d'introspezione dylaniana, degna del Jackson Browne di Running On Empty. Se dalla San Francisco dei primi anni Settanta i cinque hanno tratto spunto per la rivisitazione della summenzionata Fazon, per il loro modo di vestire sembrano appartenere a qualche comune hippie instauratasi in quel di Haight-Ashbury, quartiere della suddetta città californiana, ai tempi del Flower Power. Qui devono anche aver avuto un reciproco, dopato, scambio di vedute con i “vicini di casa” Grateful Dead, perlomeno ad ascoltare Dear Friend con i fraseggi veloci delle dita di Wilson a ricordare quelli del leggendario Captain Trips, quel Jerry Garcia che dei Grateful Dead era anima e mente, e la cui influenza sul modo di suonare del suo moderno “adepto” si avverte anche nel mistico ondeggiare di Desert Raven, così come in una Valley Of The Silver Moon, assurta ad autentico manifesto del divagare musicale wilsoniano, in quella che è un'ultima, libera cavalcata sonora, dallo straniante magnetismo. Vi è comunque ancora spazio per i bis, con gli addetti del festival a sistemare delle stuoie nello spazio tra palco e spalti, e sulle quali, prontamente, si assiepano gran parte dei presenti. Ora sembra davvero di essere a Watkins Glen o ad uno dei leggendari happening d'inizio anni Settanta, e la musica che scaturisce dal palco ce lo conferma, un'ultima volta, con una Love To Love, più volte invocata dal pubblico, offerta da Wilson come ultimo, prezioso dono da conservare alla fine di questo sfibrante ma incantevole “viaggio” musicale. Più che un concerto, infatti, quello a cui abbiamo assistito, o per meglio dire al quale abbiamo partecipato, questa sera è stato un caleidoscopico trip sonoro collettivo, privo tuttavia d'ogni controindicazione, anzi, al contrario, dispensante ipnotiche quanto corroboranti “buone vibrazioni”.

domenica 10 agosto 2014

Steve Earle @ Mojotic Festival - Sestri Levante

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Tra i sempre più numerosi eventi musicali affollanti, come di consuetudine, l'estate nostrana spiccavano le tre date di un autentico “gigante” della canzone americana, Steve Earle, di certo non un assiduo frequentatore degli italici confini, dai quali mancava infatti da diverso tempo. Tre date in solitario che si preannunciavano non solo come eventi imperdibili, quanto necessari per potersi immergere, appieno, nel songwriting earliano nella sua primigenia, scarna e più pura manifestazione. Una chitarra acustica, un mandolino, qualche armonica e una voce oggi più che mai capace di arrivare a toccare gli spazi più reconditi dell'anima umana; è bastato questo al songwriter texano per stregare, letteralmente, una platea quasi ammutolita, con i racconti, trasposti in musica, di una vita, la sua, ma che potrebbe essere quella di ognuno di noi, irta di traversie, tonfi e risalite, a rivedere finalmente una luce apparsa troppe volte come lontana e irraggiungibile. Un cammino portato avanti sempre sulla parte buia della strada, con fierezza, seppur conscio dei propri errori, raccontando sé stesso e le brutture di un'America ben lungi dall'essere quella nazione dei sogni e delle speranze tanto decantata. Una Low Highway percorsa in lungo e in largo, macinando chilometri su di un nero tappeto d'asfalto, con lo scorrere veloce, al di fuori del finestrino, dei ruderi fatiscenti della società statunitense. Una Low Highway che titola anche la sua ultima fatica in studio, con la cui title track questa sera Earle apre il concerto, prendendoci idealmente per mano, per accompagnarci in un immaginifico cammino a ritroso, attraverso il proprio articolato percorso artistico ed umano. E se 21st Century Blues è anch'essa una cartolina, dalle tinte seppiate, del recente viaggio “autostradale”, una dolente My Old Friend The Blues ci riporta indietro non solo nello spazio, ma anche nel tempo, fino a Nashville, anno di grazia 1986, quando il nostro diede alle stampe il suo debutto, Guitar Town, dal quale ripesca anche un'intensa Someday, ancor intrisa di quella cieca speranza riposta nella fuga dall'aberrante vita di provincia. Ha già conquistato la platea, Earle, la quale non si fa certo pregare quando viene incitata a cantare insieme a lui una straripante I Ain't Ever Satisfied, tanto da fargli affermare, divertito: “Non c'è davvero bisogno di convincere gli italiani a cantare”. É quantomai ciarliero e affabile il nostro, occhiali ben piantati sul naso, giacchetto di pelle su t-shirt e jeans sdruciti e una lunga, incolta barba; una sorta di moderno “hard core troubadour”, giusto per citare un titolo di una sua composizione, stasera peraltro riesumata, contenuta nell'album della sua rinascita artistica e umana, quel I Feel Alright, dal quale attingerà ripetutamente nel corso del concerto, raccontandoci, con il cuore in mano delle sue rovinose cadute, attraverso il picking country blues di un'agrodolce South Nashville Blues, e il sulfureo incedere di una straniante CCKMP (Cocaine Cannot Kill My Pain) a dir poco da brividi nel mettere in luce le debolezze di un uomo scampato per miracolo al demone della droga, cantando infine, con rauco trasporto, della propria ritrovata stabilità fisica ed emotiva in una Feel Alright introdotta dal metallico soffiare dell'armonica. Da I'll Never Get Out Of This World Alive provengono invece una God Is God dalla confessionalità religiosa al limite del gospel, e l'accorata dichiarazione d'amore di una confidenziale Every Part Of Me. Commovente è l'omaggio all'ispiratore e amico di lunga data, Townes Van Zandt, con una sommessa Rex's Blues, eseguita quasi in medley con un altrettanto vissuta Fort Worth's Blues. Abbandonata la chitarra ed imbracciato il mandolino veniamo guidati invece, con una Dixieland dal retrogusto grassy, verso quella “montagna” scalata anni fa in compagnia della Del McCoury Band, per poi attraversare l'Oceano, fino a raggiungere le brughiere irlandesi, sulle leggiadre note della splendida Galway Girl. L'impegno sociale, le battaglie per i diritti civili e le campagne di sensibilizzazione delle quali il nostro è sempre stato tra i più fieri sostenitori, emergono invece nella drammatica narrazione sonora di Billy Austin, preceduta da un ringraziamento alle associazioni umanitarie italiane per il loro fondamentale contributo alla battaglia per l'abolizione della pena di morte, per poi lasciarsi andare ad una ruvida, veloce The Devil's Right Hand, a rimembrare insieme ad una altrettanto sanguigna Copperhead Road il proprio passato rockista. È tuttavia con i bis che il rapporto empatico tra artista e pubblico raggiunge il suo massimo, con Earle a deliziare i presenti con una vibrante Christmas In Washington, preghiera laica rivolta al mai dimenticato Woody Guthrie, cantata in coro da tutti i presenti, prima di far ritorno, per un'ultima volta, con una verace rivisitazione di Guitar Town, a quella Nashville dove, ventotto anni fa, tutto ebbe inizio. Un songwriter ed interprete eccelso, Steve Earle, capace, da solo, con l'ausilio di pochi, essenziali strumenti ed un songbook d'atemporale bellezza, di dispensare emozioni difficili da descrivere a parole, ma di una tale salvifica forza da farci canticchiare, mentre abbandoniamo il teatro ormai vuoto, “I feel alright, I feel alright tonight”.



Calexico @ Monfortinjazz - Monforte d'Alba

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il verde sgargiante delle langhe piemontesi, nel suo fertile saliscendi tra vigneti e noccioli è diventato in questi anni, una suggestiva, cornice naturale per concerti ed incontri letterari. Un binomio quello tra il territorio langarolo e la cultura sul quale è stato creato, recentemente, il festival Collisioni capace di attirare migliaia di persone grazie anche ad una serie di eventi culturali di caratura internazionale. Ancor più longevo di quest'ultimo è tuttavia il Monfortinjazz, nato quasi trentotto anni fa, nel vicino paese di Monforte d'Alba, dall'illuminata idea di un piccolo gruppo di appassionati jazzofili, e tramutatosi nel corso del tempo in uno dei più attesi appuntamenti estivi. Vuoi per la programmazione, oculata e sempre all'insegna della qualità, o per la raccolta location dell'Auditorium Horszowski, piccolo anfiteatro naturale situato nella parte storica del paesino cuneese, la rassegna ha visto negli anni incrementare nel numero un pubblico attento e partecipe. Un cartellone, quello approntato quest'anno, come da tradizione tanto ricco quanto variegato, nella sua apertura verso sonorità “altre” rispetto al jazz. Di fianco a nomi altisonanti quali Paolo Fresu Quintet e la Arto Lindsay Band, con ospite d'eccezione il chitarrista extraordinarie Marc Ribot, trovano così spazio quelli dei Gov't Mule e dei Calexico. Un'occasione più unica che rara quella di poter ammirare, ed ascoltare, il combo guidato da Joey Burns e John Convertino, nell'intimo raccoglimento del succitato Auditorium Horszowski, dove la consueta “barriera” tra artista e pubblico viene meno grazie all'assenza di un vero e proprio palco, accentuando, in tal modo, la vicinanza emotiva e fisica tra le due, opposte, “parti in causa”. Compito di aprire la serata spetta tuttavia ai nostrani Guano Padano, nati inizialmente come valvola di sfogo di alcuni musicisti gravitanti nell'orbita caposseliana ma divenuti ben presto un progetto di maggior compiutezza, con all'attivo due lavori in studio di pregevole fattura, e con un terzo di imminente pubblicazione. Il trio, guidato saldamente dalla sei corde di Alessandro “Asso” Stefana e completato dalla sezione ritmica affidata ai tamburi di Zeno Rossi e al basso di Danilo Gallo, ha saputo egregiamente confermare on stage quanto di buono lasciato trasparire dall'ascolto delle loro opere in studio, in un breve quanto apprezzato set strumentale dove il guano, di provenienza padana, si è più volte sporcato con la sabbia del deserto americano, tra rimandi all'immaginario western morriconiano e sbuffanti digressioni tra country e rockabilly. Un applauso più che meritato saluta quindi l'uscita di scena dei tre, acuendosi ulteriormente quando sul palco appare il settetto di Tucson. La line up è rimasta invariata rispetto alla loro ultima calata italiana, in supporto, dell'allora fresco di pubblicazione Algiers, i cui brani rappresenteranno l'ossatura anche dell'odierna set list, fin dall'apertura, affidata ad una evanescente, quanto insinuante, Epic. Non mancheranno tuttavia alcuni, tanto attesi quanto graditi, “ripescaggi” dal passato, prossimo e remoto, in una sorta d'ideale summa dell'epopea sonora calexichiana, a cominciare dalle roventi sonorità tex mex di Across The Wire, passando per il conturbante passo latino di una sensuale Inspiraciòn, fino all'onirica progressione di una dilatata Two Silver Trees. E se Splitter e una dolente Dead Moon provengono anch'esse dai solchi del summenzionato Algiers, con le pizzicate note inziali di Minas de cobre (For Better Metal) veniamo condotti nuovamente al di là del border, tra le visioni desertiche del seminale The Black Light. E proprio come l'automobile campeggiante sulla copertina di quest'ultimo, i Calexico paiono essersi, sempre più, tramutati in un veicolo sonoro rodato e ben oliato, lanciato in una continua, folle corsa tra la natia Arizona e l'America Latina. Ogni singolo contributo strumentale dei sette è volto infatti ad enfatizzare questo muoversi all'unisono, dando vita ad un evocativo suono “d'assieme” capace di far fluttuare la platea su di estatiche note sospese quanto di coinvolgerla in danze sfrenate. Un muoversi sonico all'unisono ben esemplificato da una magistrale Victor Jara's Hands, resa ancor più emozionante dal cantato in spagnolo di Jacob Valenzuela, così come da una maestosa Crystal Frontier. Piccola quanto inaspettata sorpresa è invece la prima “concessione” live riservata ad uno dei brani che i nostri stanno incidendo in questi mesi in Messico, ovvero una bluesata Bullets And Rocks, invero non ancora del tutto a fuoco, tanto da far confessare allo stesso Burns, una volta conclusa: “Ci stiamo lavorando”. Come in occasione dello scorso tour, dove spiccava la riproposizione della yardbirdsiana For Your Love, anche per questa nuova trance di concerti i nostri hanno deciso di inserire in scaletta una nuova rivisitazione del songbook altrui, appropriandosi, il più delle volte, di Bigmouth Strikes Again degli Smiths, questa sera sostituita dalla dylaniana Senor (Tales Of Yankee Power), già incisa insieme a Willie Nelson per la colonna sonora di I'm Not There, con Burns che, inforcati gli occhiali per leggerne il testo, riesce nel non facile compito di non far rimpiangere proprio la voce dello “straniero dai capelli rossi”, in un'avvolgente rilettura capace di fondere l'epos narrativo dylaniano con gli echi della tradizione musicale messicana. Ardimentoso quanto riuscito è anche il medley tra la melodia sospesa di Not Even Stevie Nicks e le ferali tonalità New Wave di una joydivisioniana Love Will Tear Us Apart, prima che un'incontenibile, con i suoi fulmini stacchi e ripartenze, Alone Again Or - figlia della penna di Arthur Lee ma ormai calexichiana a tutti gli effetti - e una ritmata Puerto - impreziosita dal contributo vocale di Jairo Zavala, autentico mattatore sonico per tutto il concerto nel suo destreggiarsi tra chitarra elettrica e lapsteel - pongano fine al set “regolare”. E se il vento freddo delle colline piemontesi comincia a stuzzicare i presenti, il miglior antidoto lo “somministrano” gli stessi Calexico che, ritornati sul palco, danno il via, con un'infuocata Corona, ad un'autentica fiesta latina, invitando tutti i presenti ad un ultimo scatenato ballo a passo di cumbia sulle note di una corale, irresistibile Guero canelo. Un'acustica pressoché perfetta, una location da mozzare il fiato e i sette di Tucson al massimo della propria forma espressiva, che altro aggiungere al resoconto di una serata memorabile se non... Que viva Calexico! 




Billy Bragg @ Teatro dal Verme - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Trent'anni passati a dividersi tra musica e attivismo politico, con una chitarra, sia essa elettrica o acustica, come unica “arma” e uno sguardo profondamente critico nei confronti di una società, inglese e non, colma, ancor oggi, di contraddizioni, sopraffazioni ed ingiustizie, denunciate e messe in musica con Woody Guthrie nel cuore; questo è Billy Bragg, autentico working class hero, con un'ormai lunga carriera in un mondo musicale dove la sua integrità morale e la sua coerenza ideologica rappresentano la classica “mosca bianca”. Non è mai sceso a compromessi il songwriter inglese, ha inciso e cantato quello che pensava fosse giusto urlare al mondo con tutta la propria voce, schierandosi sempre dalla parte dei più deboli, degli oppressi e dei lavoratori, sulle orme proprio di quel Woody Guthrie che come un'ombra ha vegliato sul suo cammino musicale. Un percorso che ha visto il bardo di Barking, evolversi e mutare, musicalmente, passando dagli esordi contrassegnati da una giovanilistica rabbia clashiana, con la propria chitarra elettrica a menare fendenti contro nemici vecchi e nuovi, ad una “svolta” verso più raccolte sonorità di stampo Americana, figlie di quella terra statunitense patria dei suoi “maestri” musicali. Una “svolta” ben esemplificata dal suo recente parto in studio, Tooth And Nail, registrato sotto l'egida di Joe Henry, splendida fotografia in musica dell'odierno Billy Bragg, songwriter e uomo. Ed è proprio il Bragg più rootsy oriented quello che si presenta questa sera sul palco del Teatro Dal Verme di Milano, per la prima delle due date italiane a supporto della sua, summenzionata, ultima fatica discografica. Accompagnato da una solida ed impeccabile quanto al contempo versatile band, il nostro fa il suo ingresso in scena con in sottofondo le note della cooderiana No Bankers Left Behind, incipit quanto mai sintomatico di quelle che saranno le tematiche trattate durante il concerto. Se la musica e le liriche rivestono ovviamente un ruolo di primaria importanza nell'economia bragghiana, anche le storie e gli aneddoti raccontati tra un brano e l'altro, con il consueto umorismo britannico, hanno uguale peso specifico in quello che più che un concerto è parsa a tratti una chiacchierata con un vecchio amico che non si vedeva da lungo tempo. Il nostro strappa più d'un sorriso quando racconta di come si sia stupito che il suo ultimo album venga etichettato con il termine Americana, definendo quest'ultima “musica country per chi ama gli Smiths”, ed invitandoci a pensare ad un, neanche tanto improbabile, duetto tra Emmylou Harris e Morrissey. Un'Americana alla cui fonte si era già, tuttavia, abbeverato in passato, ai tempi del progetto Mermaid Avenue, quando era stato scelto da Nora, figlia di Woody Guthrie per musicare alcune liriche del padre rimaste incompiute, in un'opera di rivisitazione, condivisa con i Wilco. E proprio lungo la Mermaid Avenue Bragg ci accompagna questa sera, prima attraverso le delicate note di Way Over Yonder In The Minor Key, dall'incontaminata purezza folk, per poi lasciarsi andare in una All You Fascists Bound To Lose, cesellata dal lavorio allo slide di CJ Hillman ed irrobustita dalla sezione ritmica “antifascista” formata dalla batteria di Luke Bullen e dal basso di Dave Evans, indirizzata al rigurgito destrorso emerso dalle recenti elezioni europee. Liriche guthriane di sempre più drammatica attualità quindi, come quelle di I Ain't Got No Home, livido ritratto dello strapotere delle banche e della sopraffazione del ricco nel confronti del povero, cancri che ancor oggi attanagliano la società, riproposta in una dimessa, sofferta interpretazione, a dir poco da brividi. Sorprende allo stesso modo il trattamento riservato ai suoi “classici” rivisti e corretti attraverso un'ottica, per l'appunto, Americana, come una Ideology d'ascendenza quasi parsoniana, posta in apertura di concerto, o il sussultante clangore twangy di You Woke Up My Neighbourhood, contenuta in quel Don't Try This At Home a cui il songwriter inglese rivolgerà a più riprese la propria attenzione. Quella di una “svolta” country è anche l'accusa che più di un critico musicale ha rivolto al nostro all'indomani della pubblicazione proprio di Tooth And Nail. “Dicono che mi sono dato al country, solo perché ho un tizio che suona la pedal steel nella mia band, indosso una camicia e degli stivali a punta in stile Kenny Loggins, ed ho una barba lunga, ma nei miei album c'è sempre stato il twang tipico del country”, rimarca Bragg per poi lanciarsi in una disquisizione sullo skiffle, ricordando l'importanza di Lonnie Donegan e spiegando come l'Americana in realtà l'abbiano inventata gli inglesi, eseguendo, a sostegno della propria tesi, una stonesiana Dead Flowers. Non poteva mancare un divertente monologo sul modo in cui il nostro ha saputo, mentre si trovava in una caffetteria di Calgary (il Texas del Canada come l'ha definita egli stesso), della dipartita del suo “avversario” storico, ovvero l'ex primo ministro inglese Margareth Thatcher,e di come i presenti abbiano reagito con uno sbigottito: “Era ancora viva Margaret Thatcher!?”; quando ha comunicato loro la notizia. O di come una sera, a inizio carriera, in un locale del New England quando si è trovato, suo malgrado, a fronteggiare un accalorato membro del pubblico che gli urlava a più riprese “Play your hits”; episodio dal quale trae spunto per regalarci una scintillante Sexuality, dagli irresistibili coretti, uno dei suoi pezzi “commercialmente” più noti. Da Tooth And Nail il nostro ripropone, invece, l'intensa, nei suoi continui saliscendi melodico-ritmici, There Will Be A Reckoning, e il lento ciondolare rootsy di Handyman Blues, per poi deliziare la platea con un'incantevole rilettura di California Stars, anch'essa proveniente dal “viale della Sirena”. Un progetto quest'ultimo nel quale Bragg aveva pensato, parole sue, di farsi affiancare, anziché dagli Wilco, dai tedeschi Kraftwerk, per enfatizzare ancor più quella visione europea della figura di Guthrie fortemente voluta dalla figlia Nora. Si erano anche trovati in studio per iniziare a registrare qualcosa insieme ma il master contenente il frutto di queste sessioni di registrazione venne dimenticato sul sedile di un taxi. Suonando in Germania pochi giorni, però, gli è tornato in mente uno dei brani incisi in quei giorni e questa sera potremo finalmente ascoltarlo. È chiaramente solo una presa in giro, è il seguente intro sintetico, di stampo kraftwerkiano ovviamente, sfocia presto in una A New England cantata a squarciagola da tutta la platea. Un altro ripescaggio da Don't Try This At Home, è Accident Waiting To Happen, la quale non ha perso un grammo della sua primigenia carica elettrica, e sulle cui note il nostro e i suoi pards abbandonano il palco. Giusto il tempo di farsi invocare a gran voce ed eccolo ritornare in solitaria, imbracciando la fida sei corde elettrica, per una sempre pungente To Have And To Have Not, a rivangare i propri esordi e la lezione appresa dai Clash, a cui fa seguito l'intramontabile inno sindacale There Is A Power In A Union, che Bragg canta con veemenza, con tanto di pugno alzato, quasi a voler rievocare lo spettro di Joe Hill. Una dolente Tank Park Salute, con il contrappunto dei tasti bianchi e neri di Kenny Dickenson, è il preludio ad una conclusiva, straripante Waiting For The Great Leap Forward, con i due raggiunti a scaglioni dai restanti membri della band e con tutto il teatro ormai in piedi a ballare e a cantare. “La musica non può forse cambiare il mondo” afferma Bragg, “ma può aiutarci a non sentirci soli, a farci capire che altre persone come noi lottano ogni giorno per un futuro ed un mondo migliore. È il cinismo il vero nemico da combattere, non la globalizzazione o il capitalismo, ma bensì quel senso di frustrazione e inadeguatezza che regna sovrano, sottopelle, in ognuno di noi, che ci costringe a pensare di non essere in grado di far nulla per cambiare la società che ci circonda. Solo con una presa di coscienza individuale si potrà arrivare ad un cambiamento collettivo”. Una lezione che tutti i presenti sono sicuro hanno fatto propria, così come sono altrettanto sicuro che il concerto al quale hanno assistito questa sera rimarrà indelebilmente scolpito nella loro mente.


SETLIST:

Ideology
No One Knows Nothing Anymore
Way Over Yonder In The Minor Key
I Ain't Got No Home
All You Fascists Bound To Lose
You Woke Up My Neighbourhood
Dead Flowers
Greetings To The New Brunette
There Will Be A Reckoning
Handyman Blues
Sexuality
California Stars
A New England
Accident Waiting To Happen


ENCORE:

To Have And To Have Not
There Is A Power In A Union
Tank Park Salute
Waiting For The Great Leap Forward



Chris Cacavas & Edward Abbiati - Me and the Devil

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il confrontarsi, così come il desiderio di collaborare, sono in grado di abbattere ostacoli fisici e mentali, unendo, nel conseguimento di un comune fine artistico, personalità tra le più diverse e, solo sulla carta, inconciliabili. Una lezione sicuramente appresa, nel suo inquieto girovagare, da Chris Cacavas, tastierista degli indimenticati Green On Red, perlomeno a giudicare dal lungo elenco di collaborazioni, passate e presenti, andate ad arricchire il suo “curriculum sonico”. Steve Wynn, Howe Gelb, Calexico, Chris Eckman fino al vecchio “compare” Dan Stuart, sono solo alcuni tra quelli che si sono avvalsi, negli anni, della sua maestria ai tasti, il tutto senza tralasciare una parallela carriera solista affatto avara di soddisfazioni.
Proprio nel prosieguo del suo cammino “solitario”, il nostro si è anzi, a più riprese, circondato di uno stuolo di musicisti di più diversa estrazione, tra i quali molti italiani. Con il nostro Paese, in particolare, ha instaurato un profondo rapporto di interscambio sonoro, tanto da spingerlo, in preda ad un nuovo impulso creativo a lasciare il sud della Germania, dove ora risiede, valicando nuovamente le Alpi, per giungere infine nella pianura pavese, a bussare alla porta di Edward Abbiati. Forti di un'amicizia nata durante le sessioni di registrazione dei primi, notevoli album dei Lowlands, combo capitanato dallo stesso Abbiati, alle quali Cacavas aveva preso parte, i due pensavano da tempo di dar vita ad una più compiuta collaborazione, oggi finalmente concretizzatasi, dopo un lungo scambio epistolare, in un intrigante progetto condiviso. Condivisione caratterizzata da una voluta democraticità, evidente tanto nella scelta della ragione sociale, recante il nome di entrambi, quanto nel tipo di approccio compositivo usato. A supportare musicalmente questo scrivere “di coppia” troviamo due loro vecchie “conoscenze”, ovvero Mike “Slo-Mo” Brenner alla chitarra e lap steel, e Winston Watson ai tamburi, ai quali vanno ad aggiungersi gli interventi strumentali di un ristretto novero di valenti musicisti. Rinchiusi tra le vecchie mura di un casolare immerso nella quiete agreste della campagna pavese, lo “Studio in a Barn”, i nostri hanno così dato vita ad una sorta di brainstorming autoriale, scambiandosi reciprocamente idee, suoni e parole, senza porsi, a priori, alcun vincolo formale. Frutto di questo sforzo compositivo congiunto è un album, Me and the Devil, messo su nastro in una manciata di giorni nell'infuocato agosto dello scorso anno, avente proprio in una marcata multiformità stilistica il suo tratto distintivo. Un variegato amalgama, quello approntato dai nostri per l'occasione, nel quale far confluire, rielaborandoli secondo un comune sentire, elementi sonori provenienti dalle rispettive esperienze, passate e presenti. Esemplificativo, in tal senso, è il tribale incedere della salmodiante Against The Wall, posta in apertura, con le voci dei due titolari a muoversi, fin da subito, all'unisono, su di un reiterato fondale elettrico, screziato dai liquidi fraseggi dell'organo dello stesso Cacavas e dal vibrante soffiare, di nera ascendenza, del sax baritono di Andres Villani, presente, ancora in coppia con gli affreschi solistici dei tasti bianchi e neri, anche in una suadente Oh Baby, Please dalle scure tinte soul. Nella title track è invece un'armonica di stampo popperiano, affidata alle labbra di Richard Hunter, a infondere un flavour bluesy in sincopate trame funk, con le voci di Cacavas ed Abbiati ad unirsi nuovamente, in un'esorcizzante declamare, enfatizzato dalla spettrale sei corde di Stefan Roller. Un connubio davvero suggestivo quello tra le corde vocali dei due, con la voce d'umorale lividezza di Cacavas avente nella roca ugola di Abbiati il proprio ideale contraltare canoro. E se l'influenza della penna del primo è avvertibile negli episodi di più pugnace pervasività elettrica, come il talking reediano di una rutilante Long Dark Sky, o la cadenzata The Other Side, ipnotica cavalcata acida rievocante il Neil Young settantiano di “Zuma”; il secondo porta in dote, dal canto suo, quelle polverose sonorità Americana, già esplorate con i suoi Lowlands, e qui cristallizzatesi nel rotolare alternative country d'una sferragliante Can't Wake Up. Echi Americana udibili anche nel chiaroscurale splendore di Hay Into Gold dove, complice la lap steel di Brenner e gli intarsi del violoncello di David Henry, pare aleggiare lo spettro del mai troppo rimpianto Jason Molina. Nei momenti di più riflessiva introspezione ad emergere è, ancor più, la purezza della composizione della coppia, come nella dimessa The Week Song, affidata alle sole dita di Cacavas, con il discreto slide di Brenner a ricamare melodie sullo sfondo, o nel lieve pizzicare acustico, su di un chiesastico tappeto armonico intessuto dall'organo, della trattenuta I'll See Ya. A dir poco sublime, nella sua scarna leggiadria folkie, è la conclusiva Rest Of My Life figlia di una voluta economia d'arrangiamento tesa a valorizzare un ultimo, toccante duetto vocale. Un album di stupefacente bellezza, Me and the Devil, nonché prima, ispirata tappa di quello che, ci auguriamo, possa essere un viaggio sonoro, a due, lungo e fruttuoso.