venerdì 22 giugno 2012

Renato Franchi & Orchestrina del Suonatore Jones - Dopo le strade...appunti di viaggio

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Dopo un lungo cammino sulle tortuose strade della canzone d’autore per Renato Franchi è arrivato il momento di fermarsi ed estrarre dalla valigia il proprio taccuino sul quale, nel corso degli anni, ha accuratamente annotato i suoi appunti di viaggio. Trovano qui spazio, su pagine consumate dal tempo, fatti, luoghi, persone e soprattutto canzoni, partorite sia dalla penna dello stesso Franchi che estrapolate dal repertorio di illustri predecessori. Brani, questi ultimi, troppo spesso destinati all’oblio, ma che tornano a brillare di nuova ed intensa luce. Merito senza dubbio della bravura interpretativa di Franchi, ben coadiuvato dalla sua Orchestrina del Suonatore Jones (la ragione sociale è un evidente rimando al Fabrizio De Andrè spoonriveriano, vera e propria “stella guida” dei nostri), l’organico della quale viene per l’occasione ulteriormente ampliato dalla presenza di alcuni ospiti di rilievo. A colpire è tuttavia la scelta delle canzoni altrui da interpretare, le quali possono forse essere considerate episodi minori, visto anche la caratura artistica dei canzonieri dai quali sono tratte, ma che in questo frangente riescono a mostrare tutta la loro bellezza, solo apparentemente, nascosta. Brani come Filastrocca a motore di Pierangelo Bertoli o Caterina di Francesco De Gregori, qui riletta in un arrangiamento quasi “classico” con il piano e la chitarra acustica a tessere la melodia, accompagnati da un flauto e da una sparuta sezioni d’archi; paiono nascere a nuova vita grazie proprio al trattamento sonoro ad esse riservato. Sul medesimo piano si pone la splendida ballata Se mi guardi, vedi, dalla penna di Marino Severini dei Gang, qui presente alla seconda voce in un riuscito duetto con lo stesso Franchi. Se il cantautore dimostra di sapersi brillantemente destreggiare con materiale altrui, nei brani a proprio nome quella che emerge è una capacità di scrittura affinata con il trascorrere degli anni, nella quale sono preminenti le liriche, denotanti una profonda ricerca linguistica. La materia sonora da plasmare è invece un folk rock di matrice essenzialmente elettroacustica debitore sia degli stessi Gang, che dell’opera del Maestro De Andrè. Appartengono al solco “ganghiano” la robusta title track, in odore di country rock, con l’Orchestrina lanciata a briglia sciolta dietro il proprio leader, così come Baci e pugnali, forse la più “americana” del lotto, che riprende nel suo incipit nientemeno che le sonorità care alla E Street Band, in ricordo del recentemente scomparso Big Man, Clarence Clemons. Simile per incedere I Tempi del cuore, da un’idea testuale di Claudio Ravasi, che il violino del sempre ottimo Michele Gazich colora di tinte folk. Non poteva poi mancare un omaggio al Faber, non con un reprise di un suo brano bensì con la trasposizione in italiano di Canta di loro, brano originariamente scritto in dialetto genovese da Piero Milesi e dedicato proprio al cantautore. Chiude il disco un sentito tributo ad un altro gigante della canzone d’autore italiana, purtroppo scomparso troppo presto, Luigi Tenco, del quale Franchi riprende Un giorno dopo l’altro, inserita ai tempi, era il 1965, nei titoli di testa e di coda dello sceneggiato “Le inchieste del commissario Maigret”, con protagonista Gino Cervi. Un album, questo Dopo Le Strade… Appunti di Viaggio, pregno di passione, dedizione e sensibilità artistica; merce davvero rara di questi tempi.

mercoledì 13 giugno 2012

Trembling Bells and Bonnie "Prince" BIlly - The marble downs

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Com’era quel vecchio proverbio?! Ah già, “Dio li fa e poi li accoppia”. Ecco basterebbe questo a descrivere l’improbabile quanto riuscita collaborazione tra gli scozzesi Trembling Bells e l’icona dell’avant folk Bonnie “Prince” Billy. In realtà un primo approccio i nostri l’avevano già avuto qualche tempo fa, ma si trattava di un semplice corteggiamento, è infatti con questo The Marble Downs, che la loro storia d’amore musicale pare farsi cosa seria. E’ doveroso tuttavia precisare che il grosso del lavoro viene qui svolto dagli stessi Trembling Bells, sapientemente guidati dal batterista Alex Neilson, i quali si occupano sia della stesura dei brani che dell’esecuzione strumentale, mentre il buon Oldham in questa occasione si “limita” ad una partecipazione prettamente vocale. Ed è tuttavia proprio l’intrecciarsi delle voci, di quest’ultimo e della bravissima Lavinia Blackwall, il punto focale dell’intero lavoro, attorno al quale gravitano gli apporti strumentali dei restanti membri del combo scozzese. Un quartetto, quello di Glasgow, dedito fin dalla sua formazione ad un folk psichedelico che deve molto alla lezione impartita da giganti come Pentagle e Incredible String Band, dei quali i nostri possono essere considerati a tutti gli effetti dei moderni epigoni. Si respirano infatti effluvi sonici senza tempo, come nell’opener Made A Date (With An Open Vein) o nella bislacca, sin dal titolo, Ferrari In A Demolition Derby tanto che, invece del 2012, pare di ritrovarsi in una qualche sperduta corte inglese del tardo Medioevo, con i Trembling Bells intenti ad allietare il proprio sovrano, tra arie tradizionali e screziature moderniste, ai quali si aggiunge nel ruolo di improbabile giullare lo stesso Oldham. Un’intenzione, quella di rileggere e far propri stilemi sonori derivanti dal passato, che si evince anche in My Husband’s Got No Courage In Him, per sole voci, o nei rimandi all’opera dei Pentagle di I Can Tell You’re Leaving. Dai toni sommessi sono invece la pianistica Excursions Into Assonance così come l’algida Love Is A Velvet Noose nella quale il connubio scoto-americano pare raggiungere il suo massimo vertice artistico. Dal canto loro Riding e Ain’t Nothing Wrong With A Little Longing, virano verso acidi lidi in odore di psichedelia, tanto da sembrare figlie illegittime di Chocolate Watchband e Electric Prunes, più che della tradizione folk inglese. Sprazzi di americanità che emergono anche nel country folk alienato di Every Time I Close My Eyes, dove a farsi più marcata è l’influenza, seppur indiretta, del cantautore del Kentucky. Lord Bless All, posta giustamente in chiusura, può essere considerata un’ideale sintesi di quanto contenuto all’interno dell’album, tra leggiadre armonie vocali, un sinuoso tappeto d’organo, abrasive chitarre e una robusta e quadrata sezione ritmica. Un album, The Marble Downs, che oltre a confermare le qualità dei Trembling Bells, già peraltro messe in luce nelle precedenti prove a proprio nome, mostra un lato inedito dell’anima musicale di Bonnie “Prince” Billy che, visti i risultati, merita senza dubbio di essere ulteriormente scandagliato.

giovedì 7 giugno 2012

Mandrake - Zarastro

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Alzi la mano chi si ricorda di Mandrake, leggendario personaggio dei fumetti che fece la sua comparsa, su carta stampata, agli inizi degli anni ’30. E’ proprio al mago, partorito dalla fervida penna di Lee Falk, che si rifà infatti l’omonimo combo livornese per la scelta del proprio monicker. Scelta quanto mai azzeccata, visto che il quintetto capitanato da Giorgio Mannucci si diletta in veri e propri giochi di prestigio, in questo caso sonori, estraendo tuttavia dal proprio cilindro non il canonico coniglio ma bensì una creatura musicale di ben più strane fattezze. Creatura che deve i propri natali alle fervide terre albioniche, delle quali ha inglobato, all’interno del proprio Dna, arcaici geni folk, reminescenze classiche e diramazioni di stampo indie pop. Per farvi un’idea del sound approntato dai nostri immaginate di trovarvi di fronte a degli imberbi Starsailor, quelli di Love Is Here per intenderci, in ritiro spirituale nella verde e natia contea del Lancashire, intenti a dilettarsi con gli stilemi sonori precedentemente menzionati. Dal gruppo di James Walsh, i livornesi prendono infatti spunto per graffianti riff in puro stile british, smussandone le asperità con bucoliche venature folkie e intarsi quasi barocchi. Se l’iniziale I’m So Confused Part I pare uscita da lisergici esperimenti beatleasiani, tra acidi intrecci vocali e un lieve abbozzo strumentale in sottofondo, la quasi omonima I’m So Confused Part II, si dipana intorno alla voce e alla chitarra acustica di Mannucci, alle quali si aggiungono in un ipnotico crescendo musicale il violino di Asita Fathi e il flauto dell’ospite Tiziana Gallo. Sulla medesima scia si muove Time che, tra ondeggiamenti ritmici, nuove radiose intuizioni melodiche e complici il contributo vocale di Marta Bardi e il mandolino di Cristiano Tortoli, non sfigurerebbe tra i solchi di un album a marchio Johnny Flynn, uno dei massimi esponenti del new folk inglese. Formula quella scelta dai nostri che si rivela indubbiamente vincente, come ben traspare da brani quali la ballata dalle tinte pastello Nothing Is Predictable, o la conclusiva Soft Temple, dove è nuovamente la chitarra acustica a condurre le danze, ideale fulcro sonico intorno al quale volteggiano leggeri gli altri strumenti. Nei pentagrammi del quintetto trovano spazio anche influenze caraibiche, radicate in You’re Not Here e nella solare Uncertain Moment, dove sono prima l’ukulele, affidato allo stesso Mannucci, e poi la tromba di Mauro La Mancusa a creare un immaginifico ponte verso lontane terre tropicali.
Se i livornesi dimostrano di essere a proprio agio in oniriche digressioni musicali, non si tirano certo indietro quando si tratta di effettuare incursioni in territori pregni di elettricità, come nella vigorosa The Evil Meeting o nei rimandi calexichiani di Neighbours, dove la quiete della campagna inglese viene sferzata dall’impetuosità del desertico vento dell’Arizona. Un esordio, Zarastro, intriso di vera e propria magia con la quale i Mandrake riusciranno ad ipnotizzare più di un ascoltatore. Venghino siori, venghino, non c’è trucco, non c’è inganno, solo splendida musica.


sabato 2 giugno 2012

The Mojomatics - You are the reason for my troubles

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Fin dagli esordi si intuiva quanto i ristretti confini nazionali fossero castranti per la creatura sonica a nome Mojomatics. Il duo veneto, formato da Matteo Bordin e Davide Zolli, rispettivamente chitarra e batteria, non ha mai nascosto il proprio amore verso atmosfere e sonorità nate e cresciute negli Stati Uniti ed arrivate solo in seguito ad infettare anche il Vecchio Continente. Passione che si è tradotta su disco, perlomeno inizialmente, in un robusto garage blues, profondamente debitore nei confronti della lezione impartita da Jon Spencer e dalla sua Blues Explosion. Con gli album successivi il loro sound si era aperto a nuove influenze, inglobando al proprio interno barlumi country e melodie folk rock. Sintomo questo di una voglia di ricerca mai assopita, che pare aver trovato nuova linfa grazie ad un tour proprio nei tanto a lungo sognati States. Sembra di vederli i due, in viaggio su di uno sgangherato furgone, nell’immensità territoriale statunitense, tra highways, deserti e paludi, fino a perdersi nei meandri più oscuri e reconditi dell’America. You Are The Reason For My Troubles, quarto album del duo, può essere pertanto visto, quantomeno dal lato prettamente musicale, come una sorta di valigia sonora, nella quale i nostri hanno riposto con cura souvenirs e cimeli del loro lungo peregrinare a stelle e strisce. You Don’t Give A Shit About Me, per esempio, così come la conclusiva Her Song, paiono cartoline musicali con impresso il timbro postale di Nashville, Tennessee. La prima è un’ariosa ballata country, con tanto di armonica, mandolino e pedal steel (tutte suonate dallo stesso Bordin), mentre l’impianto strumentale d’estrazione folk rock della seconda risente in particolar modo dell’influenza dylaniana. Parte in punta di piedi invece Don’t Talk To Me, per poi deflagrare in un crescendo rock’n’rollistico di derivazione Sixties, mentre Feet In The Hole è un ruspante rockabilly in odore di West, e pare suonato su di una diligenza lanciata a folle corsa per sfuggire all’attacco di spietati fuorilegge. I due passano poi con disinvoltura dall’allucinato jingle jangle, byrdsiano fino al midollo, della title track, ai nuovi squarci garage, quest’ultimo mai scomparso dal loro pentagramma, della ruvida Rain Is Diggin’ My Grave e della sincopata Yesterday Is Dead And Gone. Ritroviamo invece sprazzi di melodia in due piccole perle power pop come l’opener Behind The Trees, in odore di Big Star, e la scalcinata In The Meanwhile. Si sconfina poi nel verde Canada con Long And Lonesome Day, vero e proprio omaggio alla musica di Neil Young e dei suoi Crazy Horse, talmente ben riuscito che pare di ascoltare una perduta b-side del vecchio Bisonte, riveduta e corretta per l’occasione. Un album che ha il sapore forte della polvere, del sangue e del sudore ulteriormente acuito dall’utilizzo di tecniche di registrazione analogiche. Se vi è un merito, tra i tanti, da riconoscere ai Mojomatics, è quello di essere riusciti a variegare ulteriormente la propria proposta musicale, senza al contempo snaturarsi troppo, rimanendo anzi ancorati ad un’ottica lo-fi e vintage. Una scelta che alla resa dei conti si dimostra ancora una volta sensata oltre che vincente.