venerdì 22 febbraio 2013

Cranchi - Volevamo uccidere il re

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Otto piccole storie di gente comune, vissuta nella “parte scura della strada”, soffrendo e combattendo per un’ideale, in donchisciottesche e disperate imprese contro sistemi oppressivi e spesso d’insormontabile mole. Storie che sono il fulcro narrativo di Volevamo uccidere il re, secondo album dei Cranchi, dopo l’autoprodotto Caramelle Cinesi, uscito nel 2011. Il combo capitanato dal mantovano Massimiliano Cranchi, dal cognome del quale deriva la loro ragione sociale, sceglie come veicolo musico-descrittivo un folk leggero ed a tratti onirico che guarda tanto ai “pesi massimi” del cantautorato nostrano, quanto fa sue sonorità che arrivano dall’altra parte dell’oceano. L’apertura è quasi al velluto con Cecilia, dolorosa ballata acustica d’amor perduto, alla quale presta la propria  voce Francesca Amati (Comaneci, Amycanbe). La chitarra elettrica di Marco Degli Esposti irrobustisce invece il parco impianto musicale approntato dai nostri in La Primavera di Neda, toccante dedica alla ragazza iraniana uccisa in strada durante la rivolte della Primavera Araba. Sprazzi elettrici che pervadono anche Gaetano, in un, a tratti nervoso, impasto elettroacustico, dove nel finale viene lasciato spazio ai robusti contributi della sezione ritmica. Sembra invece scritta dal De Gregori più dylaniano Il Brigante Robin Hood, storia in musica dell’omonimo brigante, con un bel banjo a tessere un’esile melodia di fondo, ed un’armonica che rimanda neanche tanto indirettamente proprio al menestrello di Duluth. Il Ritorno di Maddalena dal canto suo riesce nel non semplice intento di unire l’idioma nostrano a melodie care al buon vecchio Bonnie “Prince” Billy, in una ballata oldhmaniana dall’ampio respiro. Degno di menzione è il notevole lavoro di cesellatura testuale, ad opera degli stessi Massimiliano Cranchi e Marco Degli Esposti, dove ogni singola parola diviene indispensabile e abbacinante tassello di un suggestivo mosaico dallo splendente lirismo. Esempi di questa fervida vena poetica sono senza dubbio Il Cuoco Anarchico e Anni Di Piombo, autentici vertici lirici dell’opera. Non so se siano infine riusciti ad uccidere il re, come era nei loro intenti, ma è indubbio come con il loro "combattere con musica e parole" i Cranchi abbiano prodotto quello che a tutti gli effetti è un pregevole manufatto di cantautorato folk italico, dal retrogusto internazionale.

sabato 16 febbraio 2013

Sea Wolf - Old world romance

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Dopo lo “sforzo collettivo” alla base del riuscito White Water, White Bloom, Alex Brown Church, fondatore e mente del progetto Sea Wolf, nel nuovo Old World Romance, intraprende un’intima esplorazione del proprio io, attraverso un solitario ritorno, sia musicale che fisico, alla natia California. Un desiderio di “riportare Sea Wolf nel proprio mondo”, che traspare tanto in una maggiore introspezione sonora, caratterizzata da melodie basiche dall’oscura briosità, quanto in liriche intrise nel profondo da una sottile vena malinconica. Architetture armoniche quelle ideate per l’occasione da Church a dir poco minimali, per non dire scarne, dove interventi musicali e singoli suoni vengono orchestrati con cura, grazie anche alla supervisione di Kennie Takahashi (già in cabina di regia con Broken Bells e Black Keys, tra gli altri). Abbandonando in parte l’epicità folk del precedente lavoro, Church pare flirtare con luccicanti arie pop, dando al contempo, su leggeri arpeggi acustici, maggior risalto alla propria espressività vocale, attorniandola con riverberati barlumi elettrici, e un substrato ritmico che, episodicamente, si trasforma in vero e proprio beat elettronico. Tutto ciò viene sapientemente cristallizzato in Old Friend, primo singolo e fotografia pressoché perfetta di quanto contenuto tra i solchi dell’album. E se il medesimo discorso sonico può valere per l’accattivante In Nothing, il quieto ondeggiare degli archi di Priscilla emana, al contrario, soffici arie folk, dall’afflato cameristico. Splendida, per limpidezza melodica, è Blue Stockings, che tra rimembranze irish ed un lento ma incalzante dipanarsi, pare far propria la lezione impartita dai Mumford and Sons. Rimandi a quest’ultimi, seppur meno marcati, si avvertono anche in Saint Catherine St, dove a condurre le danze è ancora la chitarra acustica, in quella che tuttavia si tramuta presto in una deliziosa marcia, punteggiata dai delicati contrappunti di un glockenspiel. La vena compositiva del musicista californiano non sembra pertanto aver perso un grammo della propria freschezza , come ribadito peraltro da Dear Fellow Traveler, tra ottimi incastri percussivi e un ben studiato refrain. Non convince appieno, invece, Miracle Cure, arrivando, nella sua forzata ricerca anthemica, a lambire sonorità coldplaiane, con lo stesso Church a fare il verso proprio a Chris Martin. Fortunatamente la conclusiva Whirlpool riporta il tutto entro i familiari confini dell’indie folk, tinteggiato pop, terreno sul quale il nostro dimostra di sapersi muovere con disinvoltura. Un album ombroso Old World Romance, colonna sonora ideale per affrontare il lento trascorrere del gelido inverno.

venerdì 15 febbraio 2013

Modena City Ramblers - Niente di nuovo sul fronte occidentale

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Vent’anni, tanto è passato da quel lontano 1993, quando un demo-tape, autoprodotto e dall’emblematico titolo Combat Folk, sanciva la nascita di un combo emiliano destinato a rivestire un ruolo di primo piano nel panorama folk rock italico, di stampo appunto combattente. Modena City Ramblers il nome scelto, a rivendicare un’identità meticcia tra la natia Modena e la verde Irlanda, tra storie di lotta e Resistenza, con l’irish music nel cuore. Da allora tanti sono stati i km percorsi, tante le storie apprese e le facce incontrate, così come tante le perdite, tragiche e non. Musicalmente “spugnosi” gli emiliani hanno sempre saputo, nel loro cammino musicale, tra gli angoli più sperduti del globo, fare propri i suoni più diversi, dando vita a un’originale patchanka, dalle molteplici sfumature. In grado come pochi altri di leggere e trasporre in musica tanto il passato, recente e non, quanto l’attualità, non sono poche le canzoni da essi partorite che, a distanza di anni, mantengono intatta la propria forza e valenza socio-musicale. Capacità narrativa che si fa addirittura bulimica in questo loro tredicesimo capitolo discografico, un doppio album dalla duplice anima. Diviso “vinilicamente” in lato A e lato B, troviamo qui contenute le due principali ramificazioni nelle quali lo spettro sonoro ramblersiano si è più volte, in passato, diviso. Se il primo disco, denominato Niente Di Nuovo, è infatti più elettrico e battagliero, nel secondo, marchiato Sul Fronte Occidentale, ampio spazio viene lasciato a sonorità di derivazione folk, in una riscoperta delle proprie radici cantautorali e acustiche. Diciotto i brani che compongono questo dispaccio “remarquiano” (proprio dall’omonima opera dello scrittore tedesco il titolo dell’album è stato mutuato) spedito dal fronte sul quale il gruppo emiliano continua a portare avanti le proprie lotte musicali. E se la title track, posta in apertura del primo disco, è una baldanzosa combat song in puro stile Ramblers, destinata a diventare punto inamovibile nelle setlist delle future esibizioni live, Occupy World Street, è figlia proprio dal movimento Occupy, unendo al suo interno l’Irlanda dei mai dimenticati Pogues con l’urgenza espressiva del Billy Bragg più agguerrito. Guarda invece alla nostra storia La Guèra D’L Baròt, narrante la storia di un contadino piemontese, “baròt” per l’appunto, costretto suo malgrado a lasciare la propria terra per andare a combattere i briganti nel Sud Italia, il tutto sviluppato su di trame folk elettroacustiche, abbellite dall’organetto di Daniele Contardo, dalla ghironda di Anna Lometto, e con la voce di Guido Talu Costamagna a doppiare quella di Davide “Dudu” Morandi. Quest’ultimo, dal canto suo, si conferma carismatico cantante, interpretando con trasporto sia i brani più combattivi che canzoni di maggiore introspezione. Alle seconde, appartiene Il Violino di Luigi, con Francesco “Fry” Moneti a suonare proprio lo strumento che da il titolo al brano, appartenuto all’omonimo partigiano, ritrovato per puro caso dopo sessant’anni, in una soffitta, e prestato per l’occasione dall’Anpi di Luzzara. O come Due Magliette Rosse, dedicata alla prima storica vittoria della Coppa Davis, da parte dell’Italia del tennis, all’Estadio Nacional de Cile, di Santiago, nel 1976, in pieno regime dittatoriale pinochetiano. Si ispira invece ad uno dei più vili, e mai dimenticati, atti terroristici della storia del nostro martoriato paese, la raccolta Il Giorno Che Il Cielo Cadde Su Bologna, dove l’abilità compositiva ed esecutiva dei Ramblers raggiunge livelli di inusitata emotività. Troppi i brani per poterli citare tutti, ognuno dei quali ha comunque eguale importanza in quello che, almeno concettualmente, può essere considerato un nuovo Riportando Tutto A Casa; un riaprirsi delle valigie, pregne dei souvenir sonori di un girovagare lungo e impervio, prima di ritornare in strada a macinare km. Saranno passati pure vent’anni dal loro esordio, ma nessuno sull’italico suolo sembra oggi capace di professare il verbo del combat folk come i ‘Deliqueint ed Modna’. Bentornati Ramblers!


martedì 12 febbraio 2013

Marcello Milanese - Goodnight to the bucket

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se con l'esordio da solista, targato 2011, si era paragonato ad "un lupo in un pollaio", con questo nuovo album Marcello Milanese porta, almeno idealmente, i frutti delle proprie passate razzie "gallinacee" nel profondo Sud degli Stati Uniti, condendo il tutto con inebrianti dosi di moonshine. Goodnight To The Bucket segna infatti un ritorno al blues, quello più puro, autentico ed incontaminato, da sempre presente nel dna musicale del chitarrista alessandrino.
Una chitarra appunto, autocostruita per l'occasione e denominata "Helleluja H1", che "puzza" di fango di palude, una stomp box come unico supporto ritmico, ed una voce roca e scura ad evocare demoni mai sopiti; questi gli ingredienti di un album, registrato in due sole sessioni, in presa diretta, che fa dell'immediatezza e dell'essenzialità le proprie peculiarità. Undici i brani contenuti, quasi tutti frutto della penna dello stesso Milanese, a conferma tanto della fertilità quanto della bontà della stessa, ai quali si aggiungono alcune "rivisitazioni" di arcaici e polverosi blues. Pare di trovarsi in un qualche dimenticato juke joint del Mississippi, tra le gente che urla e balla, ed il caldo insopportabile, con i vestiti che ti si attaccano letteralmente alle pelle, mentre da un angolo sgorga improvvisa una musica dolente e lacerante, sulla quale si erge fiera una voce arrochita, intenta a scorticare le anime e la carne degli ignari avventori. Sintomatiche in tal senso sono l'opener, Friday Mood, dal lento inizio deltaico, prima di lasciare correre veloci le dita sulle corde della chitarra, l'ipnotica Poseidon Blues, o l'evocativa title track, dove a risaltare è il magistrale uso del bottleneck. Recupera invece in parte l'impronta cantautorale dell'esordio la delicatezza folkie di I'd Change The Words, mentre echi "cooderiani" si avvertono nella strumentale Purple, con ancora in risalto il bottleneck. E se Bring Me Alcohol pare arrivare da una delle field recording di Alan Lomax, Come On In My Kitchen vede Milanese incontrare, nei pressi di uno sperduto crocicchio, lo spirito del tanto amato Robert Johnson, al quale tributa il proprio omaggio rivisitandone, con enfasi, uno dei brani più rappresentativi. Crocicchio dove il nostro sembra aver avuto anche "sataniche" frequentazioni, la cui influenza si insinua su nastro nella tetra The Devil Owe Me 50 Bucks. Ultima menzione per la splendida rilettura di Ain't No Grave, forse il picco emotivo dell'intero album, un vecchio gospel venato di blues che pare arrivare da "sei piedi sotto terra", in uno straziante urlo di dolore. Non ci sono orpelli, ne effetti ridondanti in Goodnight To The Bucket, ma solo un uomo, la sua chitarra e un pugno di blues, da cantare, come ultima possibilità per espiare i propri peccati ed avere salva la vita. Altamente consigliato.

mercoledì 6 febbraio 2013

Leitmotiv - A tremulaterra

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Più che un titolo, una vera e propria dichiarazione d’intenti quella dei pugliesi Leitmotiv. Nella lingua della loro terra natia, A Tremulaterra, è infatti un’espressione dialettale che significa “a capofitto”. E proprio con questo atteggiamento sembrano essersi dedicati i nostri alla stesura del loro terzo album, nonostante gli sferzanti venti di cambiamento che soffiavano intorno ad esso. Primo fra tutti un improvviso riassestamento dell’organico, il quale è sempre doloroso, per non dire deleterio, nell’economia di una band, ma può al contempo trasformarsi in un’inaspettata opportunità di crescita artistica. Infatti di quest’ultima si tratta, in quanto il quartetto attua profondi cambiamenti nel proprio suono, allontanandosi dalle dilatate atmosfere progressive dei precedenti lavori, in favore di un folk rock maggiormente incentrato sulla melodia. Una musica che profuma degli odori acri della Puglia e del Mediterraneo, libera tuttavia di assorbire al proprio interno le influenze più disparate; siano esse melodie orientali, chanson francaise, o gelidi lampi elettronici. Il legame con la propria terra d’origine rimane comunque indissolubile, e viene ulteriormente rimarcato dall’iniziale Tremulaterra, mantrica cantilena gergale su di un sognante frinire di cicale. Di stampo folk, seppur modernista, è Pecore, nella sua alternanza di strumenti a corde acustici ed elettrici, mentre Romeo Disoccupato è una trasposizione in musica della tragedia shakespeariana, riadattata agli odierni giorni della crisi, nella quale Romeo è per l’appunto disoccupato, e dalle fedina penale per nulla immacolata, mentre Giulietta ha gli occhi gonfi per le troppe lacrime versate. Les Jeux Sont Faits si adagia invece su di un’accattivante linea melodica, sulla quale volteggiano lievi le note orientali di un sitar e dell’autoharp. Fuoriesce dai canoni folk rock la cadenzata Lamaravilla, addentrandosi in lugubri territori blues, totalmente agli antipodi rispetto a Specchi, dolorosa ballata d’impronta acustica, quasi sussurrata. Scure, quasi claustrofobiche nel loro svolgimento, sono invece Fiori d’Iloti e Non Ci Resta Che Il Mare, nelle quali la sperimentazione sonica messa in campo dai pugliesi pare farsi più ardita e marcata. Un album ricco, quindi, di interessanti spunti musicali, A Tremulaterra, ciononostante caratterizzato dalla presenza di una ben precisa linea guida, che scorre sotterranea tra le undici tracce qui contenute, e sulla quale i Leitmotiv procedono, appunto, “a capofitto”.