lunedì 28 gennaio 2013

Omid Jazi - Lenea

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Conosciuto in ambito indie come ‘Quarto Verdena’, in virtù della sua collaborazione con il gruppo bergamasco nel recente quanto fortunato tour di supporto a Wow, Omid Jazi tenta ora, con questo suo debutto da solista, di scrollarsi definitivamente di dosso quest’ingombrante etichetta.
Tourbillon sonoro lungo cinque brani, Lenea, si cristallizza in una sorta di sperimentale ibrido in bilico tra indie rock, psichedelia ed electro pop. Un progetto portato avanti, dal nostro, in solitaria, da vero e proprio one man band del terzo millennio, destreggiandosi tra voce, chitarra, batteria ed avvalendosi dei più disparati marchingegni elettronici. Testi ironici e dissacranti vanno ad incastrarsi su di sghembe melodie, tra rumori assortiti e deviate scariche elettriche, in un’ideale summa del cammino musicale fin qui intrapreso. Nonostante il suo desiderio di affrancarsi dal gruppo dei fratelli Ferrari, evidenti sono ancora gli echi di quest’ultimo, come ben riscontrabile nelle volute distorte di Ossitocina, così come nella conclusiva Giulietta Ha Le Chiavi, che paiono esercizi di vivisezione del Verdena Sound. Di ben altro stampo sono l’iniziale Taglia Le Paranoie, che denota un intelligente lavoro a livello testuale, sviluppandosi a strati su di una meccanica scansione ritmica, così come La Molla di Chaplin, dove pare di sentire un Bugo delirante, tra architetture musicali di matrice elettronica e spigolosità elettriche. Pensiero Magico, nel suo guardare al passato più che al futuro, si apre invece ad ariose melodie di stampo pop, tuttavia screziate da lievi innesti psichedelici. Lenea può essere considerato, a tutti gli effetti, il primo e riuscito viaggio di un eclettico artista verso nuovi e visionari territori sonici, nella speranza che ne rappresenti al contempo il viatico per future ed ancor più audaci esplorazioni.

sabato 26 gennaio 2013

Melissa Ruth and the Likely Stories - Ain't no whiskey

(Pubblicato su Rootshighway)

Canadese d'origine, Melissa Ruth ha dovuto abbandonare, come d'altronde molte altre sue "colleghe", la terra natia per poter avviare la propria carriera musicale. Trasferitasi infatti nell'assolata California, per iscriversi alla facoltà di musica, si dedica al contempo alla stesura di brani autografi, i quali andranno in seguito a comporre il suo album d'esordio. Una volta laureatasi, si stabilisce ad Eugene, Oregon, dove, oltre ad iniziare la professione d'insegnante, in ambito ovviamente musicale, pone le basi di un parallelo percorso artistico, la cui prima tappa è la pubblicazione di Underwater and Other Places. Un debutto, quest'ultimo, caratterizzato da scarne composizioni di ascendenza folk, o per meglio dire home-grown folk sass, come definito dalla stessa Ruth. Una formula quest'ultima che sembra tuttavia sopravvivere solo in parte tra i solchi del nuovo Ain't no Whiskey, nel quale, complice l'acquisto di una chitarra elettrica, una Guild Freshman del 1958 per la precisione, lo spettro sonoro della songwriter canadese pare allargarsi a dolenti ed elettriche sonorità bluesy, così come a soffuse melodie jazz. La schiettezza acustica del debutto viene in parte accantonata, in favore di una maggiore introspezione, percepibile tanto a livello sonoro quanto lirico. Fondamentali, nell'attuazione di questo cambio di sonorità, sono senza dubbio gli apporti strumentali di Johnny Neal, marito della stessa Ruth, alla chitarra e al basso, e del fratello di quest'ultimo, Jimmy, che percuote con calibrata maestria i propri tamburi. Quello che il trio ottiene è un amalgama elettro-acustico, nel quale trovano spazio agresti echi country, la sofferenza insita nel blues, ed il fascino notturno del jazz, in quello che la nostra sintetizza con la suggestiva definizione di doop-woop twang. E proprio una chitarra twangy tesse la melodia nell'opener Drive in the Rain, umbratile blues dalle tinte country. Impregnata di sentori bluesy è anche la title track, avvolgente slow che si dipana lento intorno a una sofferta interpretazione vocale della Ruth, che pare trovarsi a proprio agio negli inediti panni della blueswoman. Assistiamo invece ad un ritorno verso gli originari territori folk nella pulsante Write Me a Love Song, con un preciso lavoro di Jimmy Neal alle spazzole, così come nell'armonioso valzer No one Said Nothin 'bout Dancin'. Se Cinco de Mayo è una riuscita ballata d'impronta folk, la conclusiva Wake me in the Morning è un nuovo malinconico tuffo nel tormentato animo della songwriter, enfatizzato dai ricami della sei corde di Neal. Un album di una bellezza insinuante Ain't no Whiskey, ad opera di un'artista che pare aver trovato la dimensione sonora ad essa più congeniale.

martedì 22 gennaio 2013

Bap Kennedy @ FolkClub - Torino

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

La cultura, quella con la C maiuscola, arricchente, appagante e capace di avvicinare le persone delle età e delle condizioni sociali più disparate, è stata oggetto nel nostro paese, in questi ultimi anni, di tagli sempre più indiscriminati. Rassegne musicali, e non, letteralmente falcidiate, per non parlare di locali, anche storici, che hanno chiuso i battenti. Fortunatamente molti di essi “resistono”, con una tenacia insopprimibile, derivante da una passione autentica per l’arte nelle sue innumerevoli manifestazioni. Un’isola, appunto, “resistente” quanto felice è il FolkClub, storico locale torinese, arrivato quest’anno a festeggiare il suo venticinquesimo anno di attività. Venticinque anni di programmazione musicale, sempre all’insegna della qualità, che hanno visto alternarsi, nella suggestiva location posta nello “scantinato” di un palazzo della città piemontese, artisti provenienti da ogni parte del mondo. Questa sera per esempio si respira il profumo delle brughiere della verde Irlanda del Nord, visto che sul palco è di scena Bap Kennedy, da Belfast. Un songwriter, la cui scarsa fama sul suolo italico non rende giustizia ad un percorso musicale, che l’ha portato a collaborare, in passato, con artisti del calibro di Steve Earle (produttore del suo primo disco Domestic Blues), il conterraneo Van Morrison fino a Mark Knopfler, in cabina di regia ed alla chitarra nell’ultimo The Sailor’s Revenge, edito nel 2011. Album nel quale emergeva, una volta di più, un talento compositivo di indubbio spessore, capace di catalizzare l’attenzione anche della stampa italiana, specializzata e non, con il nostro ad esibirsi per la prima volta nel nostro paese, l’estate scorsa. Concerti nei quali si è potuto assaporare finalmente da vicino la bontà della sua proposta musicale, in bilico tra country e folk, con qualche lieve accento della propria terra d’origine. Presentatosi, questa sera, in trio, ed accompagnato dalla moglie Brenda al basso elettrico e alle backing vocals, e dal funambolico Gordy MacAllister alla chitarra acustica, il cantautore di Belfast ha incantato i presenti andando ad attingere in particolar modo proprio al suo ultimo e fortunato lavoro, senza tuttavia tralasciare alcuni estratti dalla sua produzione meno recente. Una perfomance al centro della quale vi è stata senza dubbio la voce dello stesso Kennedy, seducente strumento narrativo di una storia musicale lunga ormai quindici anni. Ad impreziosire quest’ultima, oltre che la chitarra dello stesso Kennedy, i deliziosi interventi solistici della sei corde di McAllister, strumentista eccelso, semplicemente superbo nel suo abbellire con gusto e misura, a cui si aggiunge il preciso pulsare del basso di Brenda Kennedy. L’inizio è quasi in sordina con la melodia jazzy di Be Careful What You Wish For, che ci introduce in punta di piedi nel microcosmo sonoro dell’irlandese, subito bissata dalla limpida melodia di Jimmy Sanchez (ispirata dall’omonimo minatore cileno, rimasto imprigionato nel sottosuolo) che pare guardare all’assolata West Coast, più che alla terra dei “folletti e delle fate”, segno evidente di come il background sonoro del nostro sia ben radicato anche in territorio statunitense. Come peraltro ribadito dalle acustiche tinte bluesy di Domestic Blues, o da una Unforgiven di stampo earliano. Ramblin' Man è invece country fino al midollo e non potrebbe essere altrimenti visto che si tratta di un brano del leggendario Hank Williams, uno degli artisti più amati da Kennedy. Legata alla propria terra d’origine è invece Howl On, salvifica ballata dove ogni singola nota viene centellinata con cura certosina, così come nella più recente The Beauty Of You, dove country e irish music paiono danzare insieme sulle onde dell’Oceano Atlantico. Di tutt’altro tenore l’arrembante country’n’grass di Cold War Country Blues prima di una breve pausa, preludio alla magia sonora della morrisoniana Madame George, superbamente interpretata, a rafforzare ulteriormente un legame artistico con il ben più blasonato conterraneo, alla quale si aggiungerà poco più avanti Milky Way, brano scritto a quattro mani proprio con quest’ultimo. Si vira verso invece il country gospel con una spigliata Satan Your Kingdom Must Come Down, a firma Everly Brothers, alla quale pare replicare l’autografa e ruspante Please Return To Jesus. Giusto ancora il tempo di qualche estratto dall’ultimo album, prima di giungere agli invocati encore, tra i quali spicca una robertsiana Hey Joe, rinvigorita dal chickaboom di cashiana memoria. Una serata, a dir poco magica, nella quale abbiamo potuto assaporare appieno, anche grazie all’ottima acustica del FolkClub, l’adamantina bellezza di una delle voci più genuine del nuovo cantautorato folk, irlandese e non.

Trenincorsa - Abracadàbra

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Un percorso quello dei Trenincorsa, lungo più di dieci anni, tra binari, rotaie e vecchie stazioni di paese. Accantonate in parte le prestigiose collaborazioni del precedente Verso Casa, per questo nuovo Abracadàbra il gruppo lombardo decide di puntare esclusivamente sulle proprie forze, lasciando tuttavia aperta la propria porta a sporadiche apparizioni esterne.
Una formula sonora variopinta e dalle molteplici influenze quella perpetuata anche in questo frangente dai nostri, che viaggia tuttavia sicura sui binari del folk rock italico, con qualche strizzata d’occhio verso lievi sonorità pop. Ad emergere fin dal primo ascolto è tuttavia un più marcato utilizzo, rispetto al passato, del dialetto lombardo, ricordando, almeno idealmente il Laghèe bernasconiano. Proprio il Bernasconi, o meglio Davide Van De Sfross, figurava tra gli ospiti del precedente lavoro, il poc’anzi menzionato Verso Casa, e la sua influenza sul pentagramma dei nostri è quanto mai evidente. Dai solchi dell’album emergono tuttavia anche echi ramblersiani, seppur edulcorati della loro combattività in favore di una forma, a livello testuale, più orientata al cantautorato; il tutto miscelato con i solari ritmi in levare dello ska e del reggae. Una ferrovia sonora, quella sulla quale viaggiano i treni lombardi, costellata da undici piccole e sperdute stazioni, in corrispondenza delle quali troviamo ad attenderci altrettante storie di vita vissuta. Se Primavera rappresenta il giusto compromesso tra l’ariosità del pop e la baldanza del folk, la title track così come Il Cinema Magnolia, sono figlie di una patchanka in bilico tra la Modena ramblersiana e la Giamaica.
Di stampo letterario è invece Agua Mala, liberamente tratta dal romanzo Il vecchio e il mare di Hemingway, che la fisarmonica e la tromba conducono verso inesplorati territori latini. Mare che ritroviamo al centro della narrazione anche in L’Uomo Del Faro, dove; come in La Grande Occasione, ed in particolar modo in El Gir Del Vent, con ospiti i calabresi Koralira, si concretizzano maggiormente le sperimentazioni sonore del combo lombardo. E’ l’ironia a caratterizzare invece la partecipazione di Martino Iacchetti alla divertente e autobiografica Sès Omen, mentre si dipana su toni sommessi la soffice ballata folkie Mi e Ti. Spicca senza dubbio per intensità e tematiche trattate, la conclusiva, per sola voce e piano, L’Altra Parte Del Mur, storia vera di un anziano ospite in una delle tante case di riposo cittadine, le cui mura non riescono a imprigionarne il desiderio di libertà. Un album Abracàdabra , pur non discostandosi da un canovaccio sonoro già ampiamente utilizzato da altre compagini, comunque fresco e vitale, capace di regalare, seppure a tratti, buone vibrazioni. Ai Trenincorsa auguriamo pertanto di continuare a viaggiare anche in futuro su questi binari, magari alla ricerca di nuove stazioni sonore, evitando tuttavia pericolose deviazioni verso i binari morti del pop.

sabato 19 gennaio 2013

Luke Winslow-King @ Cantina Teatrale dei Cattivi Maestri

(Pubblicato su Rootshighway)

Savona, in una buia sera d'inverno, è come al solito sferzata da un vento gelido, quasi annichilente; eppure basta varcare la soglia di un vetusto edificio della città "storica" per ritrovarsi immersi tra i caldi e colorati ritmi di New Orleans. La Cantina Teatrale dei Cattivi Maestri, adibita solitamente a rappresentazioni di prosa, pare infatti essersi trasformata per una sera, grazie alla proverbiale organizzazione di Marco Traverso del Raindogs, in uno dei tanti locali che affollavano la Storyville d'inizio secolo. Fautore di cotanto salto spazio-temporale è Luke Winslow-King, di ritorno sull'italico suolo dopo aver incantato la scorsa estate il pubblico del Rootsway. Un vero "man out of time" il nostro, nativo di Cadillac, nel Michigan, ma da tempo trasferitosi proprio in quel di New Orleans, dove la sua carriera artistica, come quella di molti altri, ha trovato nuova linfa vitale. E proprio della Big Easy pare aver assorbito umori e ritmi, fondendoli con le lamentose sonorità del Delta blues, la briosità del ragtime e un pizzico di rock'n'roll, il tutto in un pastiche sonoro dal fascino antico. Ad aprire la serata è chiamato Stefano Ronchi, bluesman genovese (anche tra le fila degli Almalibre), che con l'aiuto della sola chitarra ha presentato alcuni estratti dal suo recente album solista, l'ottimo I'm ready, intervallandoli a brani tradizionali e tributi ai musicisti che più lo hanno ispirato. Pur essendo innamorato, come egli stesso confessa, delle sonorità elettriche del Chicago blues, il chitarrista si è spinto tuttavia fino ai paludosi territori del Delta, con una riuscita ripresa della Crow Jane di Skip James, per poi tornare nella "Windy City", omaggiando prima Little Walter (My babe) e poi Muddy Waters (I'm ready). Decisamente convincenti sono state anche le riproposizioni dei brani autografi, tra i quali merita di essere menzionata Down to the river, che oltre a dimostrare la perizia alla sei corde del nostro, ne mettono in luce anche una roca vocalità che sembra forgiata appositamente per cantare il blues. Il testimone passa poi da un chitarrista nostrano ad un altro, visto che ad accompagnare Luke Winslow-King questa sera c'è Roberto Luti, autentico maestro della chitarra slide. Completa la formazione Esther Rose, compagna di Winslow-King non solo sul palco ma anche nella vita, impegnata a grattare sulla washboard e a percuotere con un cacciavite su di un ferro di cavallo. L'inizio è tuttavia appannaggio della sola coppia americana, con The coming tide, title track della loro recente fatica discografica in uscita tra qualche mese, con le note della chitarra resofonica di Winslow-King subito ad avvolgere l'ambiente, amalgamandosi con le aeree armonie delle due voci, il tutto sul preciso quanto "rurale" supporto ritmico della washboard della Rose. L'entrata in scena di Roberto Luti non fa altro che arricchire di sentori bluesy il patchwork sonoro messo in scena dal trio, in un rapido quanto coinvolgente excursus nella storia della musica americana di matrice tradizionale. Si passa così dalle tinte gospel di Keep your lamp trimmed and burning e Let your light shine on me dal repertorio di Blind Willie Johnson, ad atmosfere jazzy, fino al country blues "minniano" di Bumble bee con la Rose protagonista alla voce. C'è spazio anche per il folk, nelle sue più diverse derivazioni e varianti, siano esse caraibiche o americane, quest'ultime ben rappresentate da una soffice rilettura di Shake sugaree, dalla penna di Elizabeth Cotten. È comunque il blues a farla da padrone, terreno sonoro ideale, d'altronde, sul quale i due chitarristi hanno modo di destreggiarsi in lancinanti assoli, con il bottleneck a scorrere fluido sulle corde. Non poteva pertanto mancare un omaggio ad uno dei più grandi chitarristi slide di sempre, Mississippi Fred McDowell, prima con una Someday baby (scritta invero da Sleepy John Estes) e poi con un infuocato reprise di Kokomo blues, con Roberto Luti a dispensare lampi di classe immensa. Un musicista forse anagraficamente giovane Luke Winslow-King, ma che ha dimostrato di saper padroneggiare con grande classe e versatilità, ed una più che spiccata personalità, sonorità arcaiche, e lo splendido concerto di questa sera ne è stata un'ulteriore conferma.

mercoledì 16 gennaio 2013

Franca Masu - 10 anys

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Il greatest hits, o ‘best of ‘ che a dir si voglia, è da sempre, si sa, una delle pratiche più diffuse nel mondo discografico, quale ideale retrospettiva della carriera di un’artista; solitamente in occasione del raggiungimento di un rilevante traguardo temporale. Le logiche commerciali hanno tuttavia troppo spesso banalizzato questa funzione “documentaristica”, inondando a più riprese il mercato di una moltitudine di prodotti, accomunati purtroppo dalla loro trascurabilità. Esula fortunatamente da quest’ottica 10 Anys, splendida raccolta live, edita da Aramusica, per festeggiare i dieci anni di attività di Franca Masu. Originaria di Alghero, paesino sardo dove tutt’oggi l’eredità culturale aragonese-catalana è piuttosto marcata, la cantante riprende proprio di quest’ultima la suadente musicalità, diventandone in poco tempo una delle più valide ed apprezzate interpreti, a livello europeo. Riconoscimenti e fama ampiamente meritati, alla luce in particolar modo di tre incisioni “dedicate” proprio all’idioma spagnolo; El Meu Viatge, Alguìmia e Aquamare, piccoli gioielli in musica da riscoprire nella loro interezza. Questo trittico ‘catalano’ è d’altronde colonna portante della raccolta in esame, composta infatti, per la maggior parte, proprio da brani provenienti dai lavori poc’anzi menzionati. Pur registrati in paesi e momenti diversi, ed in un arco temporale lungo quattro anni, le canzoni paiono comunque ben integrarsi tra loro, trasformando la raccolta in un vero e proprio, quanto seppur atipico, live album. La scelta di includere brani ripresi dal vivo risulta più che mai azzeccata, non solo in quanto mostra una volta di più la bellezza intrinseca degli stessi, ma al contempo da modo di assaporare appieno la calda vocalità della Masu, nella dimensione forse ad essa più consona. Proprio la voce di quest’ultima è indiscussa protagonista, emergendo in tutta la sua espressività, fino ad assurgere a ruolo di vero e proprio strumento. Ciò che colpisce è come la stessa cantante sappia dosare con raffinatezza la propria vocalità, senza mai lasciarsi andare a pindarici quanto inutili vocalizzi, ma creando al contrario un suggestivo amalgama sonoro con le armonie intessute dai valenti strumentisti che l’accompagnano. Una duttilità vocale, quella mostrata, che le permette anche di addentrarsi in territori “altri” rispetto alla musica catalana, come il fado, il tango argentino fino ai colori musicali della propria terra natia, qui rappresentata da due brani inediti in lingua sarda. 10 Anys sancisce pertanto, come meglio non si potrebbe, il raggiungimento di un traguardo importante, quale il decennale di carriera, ed al contempo rappresenta un ottimo biglietto da visita per quanti vorranno avvicinarsi all’opera di un’artista dal talento cristallino.

martedì 15 gennaio 2013

Maria Muldaur - First came Memphis Minnie


(Pubblicato su Rootshighway)

La storia della musica afroamericana, e del blues in particolar modo, ha sempre visto l'avvicendarsi di personaggi a dir poco leggendari, ma troppo spesso, nonostante un lascito musicale d'indubbio spessore, destinati all'oblio. Tra questi è senza dubbio da annoverare Lizzie Douglas, meglio nota come Memphis Minnie, tanto importante per la storia del blues quanto inspiegabilmente sconosciuta al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati bluesofili. Songwriter, ma soprattutto chitarrista dall'invidiabile tecnica strumentale, non solo ha apportato grandi innovazioni al country blues, ma ad essa si deve anche l'introduzione della chitarra elettrica nello stesso, gettando di fatto le basi di quel sound di matrice urbana, che tanta fortuna ottenne in seguito sotto il nome di Chicago Blues. Fortunatamente la sua opera pare aver fatto proseliti nel corso degli anni, tra i quali proprio Maria Muldaur, che dopo aver già attinto in passato al suo songbook, con questo First Came Memphis Minnie, le tributa oggi un sentito e doveroso omaggio. Nato sulla falsariga del più generico Richland Woman Blues, targato 2001, l'album in questione pare riprenderne l'impostazione acustica, oltre alla nutrita schiera di ospiti, strutturandosi tuttavia solamente intorno alla figura della chitarrista originaria della Louisiana. Trovano quindi posto tra i solchi alcune riletture, inedite, di brani di quest'ultima, ad opera di vecchie "amiche" della Muldaur. A spiccare, sia per qualità che per livello emozionale raggiunto, è senza dubbio Rory Block, che ripropone, con la consueta classe e sensualità When You Love Me, dimostrando una volta di più come il country blues sia la materia sonora a lei più consona. Sulla medesima scia di qualità si muovono anche Bonnie Raitt che, accompagnata alla chitarra da Steve Freund, convince ampiamente in una deltaica Ain't Nothin' in Ramblin, per non parlare di Ruthie Foster, che colora di tenui tinte gospel Keep Your Big Mouth Closed. Parte del leone, o per meglio dire della leonessa, spetta ovviamente a Maria Muldaur e, pur trattandosi di registrazioni già edite, non si può che rimanere estasiati dalle sue perfomance vocali in classici come Me and My Chauffeur Blues, con la sei corde di un sempre magistrale Roy Rogers a sostenerne la roca vocalità, o nel country blues di Long as I Can See You Smile, con mandolino e chitarra ad intrecciarsi ottimamente tra loro. Quando poi la nostra divide il microfono con Alvin Youngblood Hart, in I'm Goin' Back Home così come in She Put me Outdoors, sembrano rivivere i duetti vocali tra la stessa Memphis Minnie e Kansas Joe McCoy. Tributo nel tributo è la presenza di due tracce, tuttavia anch'esse già editate in passato, In My Girlish Days e la conclusiva Black Rat Swing, appannaggio rispettivamente di Phoebe Snow e Koko Taylor, ed omaggio alle suddette, ovvero due delle più eccelse blues vocalist di sempre; oltre che ideale suggello di un album pregno di un fascino antico.