domenica 21 dicembre 2014

Melissa Ruth and the Likely Stories - Riding Mercury

(Pubblicato su Rootshighway)


Diciassette microfoni posti davanti alla batteria, due diversi bassisti, il proprio marito alla sei corde elettrica, una bottiglia di whiskey e l'amata Guild Guitar del 1958 al suo fianco; tanto è servito a Melissa Ruth per "catturare" su nastro l'essenza primigenia dei brani andati infine a comporre Riding Mercury, sua terza prova in studio. Un lavoro che ricalca quanto di buono mostrato dal precedente Ain't No Whiskey, deciso scarto di lato stilistico rispetto al debutto Underwater And Other Places, ben più ancorato ad acustiche trame country folk. Per il suo nuovo parto artistico la Ruth opta, infatti, come già avvenuto nella precedente release per sonorità ancor più pregne d'elettricità, tra cupa tribolazione blues e notturna confessionalità jazz. Accompagnata anche in questo frangente dalle "Storie Piacevoli" ovvero un combo a conduzione "familiare" nel quale figurano il già citato marito, Johnny Leal, alla chitarra, e il di lui fratello Jimmy alla batteria, ai quali si aggiungono in questo frangente, alternandosi al basso, Rick DeVol e Scoop McGuire, la Ruth, oltre a dedicarsi a un, più che notevole, lavorio di songwriting, e a padroneggiare chitarra elettrica, banjo e tastiere, si fa qui carico anche del ruolo di produttrice, in partnership con Don Ross. Registrati in analogico, con tutti i musicisti chiusi in un'unica stanza, i brani qui acclusi mantengono, in tal modo, intatta la propria forza lirica, ulteriormente accentuata dalla tormentata voce della Ruth, intrisa della rabbia e della disperazione di un periodo della propria vita non facile, segnato da perdite familiari e da profondi dolori privati. Una vocalità, la sua, accostabile tanto a quella, meno roca, di una giovane Lucinda Williams, quanto ad una Ani DiFranco più introspettiva e meno barricadera, in grado di emergere, in tutta la propria, calda espressività, in brani dalla maggior dilatazione armonica, come nel pervasivo slow blues Summer Nights In New Orleans, nel respiro soul di Your Love, impreziosita dai limpidi fraseggi della chitarra di Leal, o nel crucciarsi amoroso di una stentorea, supplichevole Who's Your Lover?. Non mancano tuttavia episodi di più marcata dinamicità, come la sfuriata bluesy dell'opener What I Got, che non avrebbe sfigurato sull'ultimo, stupendo, disco della stessa Williams, o il puntato shuffle A Letter, fino alla ritmata sarabanda, con la comparsa del trombone di Talon Nansel, di High Brow Blues, dove più evidenti sono, a livello vocale, le assonanze con la DiFranco. Il rallentato, drammatico svolgersi della lunga title track, posta in chiusura, è invece l'occasione, per la Ruth, di profondersi in un'ultima, straziante prova vocale. Giunta al tanto ambito, quanto rischioso, terzo album, Melissa Ruth mostra un'invidiabile maturità stilistica ed interpretativa, tale da permetterle di fuoriuscire dal "popolato" gruppo delle "promesse" ed entrare a far parte del, all'incontrario, ristretto novero delle più solide, nuove realtà del songwriting americano.




Dirtmusic @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«Tante persone, tante lingue; una musica, una strada», spiega Hugo Race dal palco del Raindogs, e migliori parole non avrebbe potuto trovare il songwriter australiano per descrivere l'idea alla base del progetto Dirtmusic. Una ‘sporca’, cosmopolita entità musicale quest'ultima, fautrice d'una nuova, modernista concezione di world music, figlia d'un approccio democratico e partecipato, in un dialogo aperto tra elettroniche trame occidentali e l'arcaica fascinazione dei ritmi e delle melodie dell'Africa subsahariana. Una strada sulla quale il nostro, in compagnia dell'amico Chris Eckman, si è, in passato, incamminato con destinazione finale Bamako, capitale di un Mali allora, come oggi, squassato da un'intestina guerra civile, dove, grazie all'incontro con un nutrito gruppo di musicisti locali, hanno visto la luce una serie di sorprendenti album, in un, riuscito, intento di creare una “musica globale”, in grado, grazie ad un universale linguaggio sonico, di travalicare ottundenti barriere mentali e fisiche. Musica quale unico mezzo per avvicinare ed unire culture e storie molto diverse tra loro quindi, come d'altronde ha scritto Samba Touré, uno dei musicisti coinvolti nel progetto, nelle liner notes di Troubles, «La musica è molto, molto importante. Oggi è praticamente tutto quello che abbiamo». Musica, quella a nome Dirtmusic, divenuta quindi ideale canale comunicativo attraverso il quale far conoscere al mondo il dolore e la frustrazione del popolo maliano, così come del continente africano tutto, in un rabbioso grido di dolore, a denti stretti, a denunciare le oppressioni perpetuate dalla cieca efferatezza dei fondamentalismi religiosi, ma anche portatrice di un'utopica speranza in un futuro di più radiosa pace. Un messaggio che Eckman e Race hanno deciso di portare sui palchi di mezza Europa, impegnandosi in una serrata serie di impegni live, tra i quali spiccava, è proprio il caso di dirlo, un'unica data italiana, in quel di Savona. Un'occasione tanto rara quanto imperdibile quindi per poter assistere, dal vivo, ad un incontro tra due mentalità, musicali e non, tanto diverse quanto altrettanto simili tra loro. Accompagnati per l'occasione dal fenomenale polistrumentista Baba Sissoko e dall'altrettanto versatile Moussa Coulibaly, Eckman e Race si sono così palesati sul palco del Raindogs per dispensare ad una nutrita platea, una ben studiata “panoramica” della produzione discografica a marchio Dirtmusic. Un quartetto capace non solo d'incantare i presenti con una performance d'ipnotica trascendenza, quanto di non far avvertire la ben che minima mancanza del folto organico di strumentisti presenti tra i solchi degli album in studio. Non solo Race ha saputo ovviare in parte al “problema” di ridimensionamento della line-up, attraverso una sapiente gestione dei loop, della quale hanno tratto particolare giovamento, ma non solo, i brani contenuti nel recente, sintetico Lion City, ma gli stessi Sissoko e Coulibaly si sono fatti carico, egregiamente, della “componente” africana, regalando momenti di pura astrazione mistica. Guidati dalle sei corde di Race e di Eckman, quest'ultimo quanto mai ineccepibile nel creare un continuo, elettrico flusso cosmico, pregno di distorsioni ed effetti, i quattro hanno dato vita ad un collettivo, cinematico profluvio di suoni, rumori e battiti, con il pubblico coinvolto, come rapito, in una sciamanica danza. Un'empatia quella instaurata tra palco e platea, ideale amplificazione di quella tra i quattro musicisti, più d'una volta lasciatisi andare a grida, tanto d'incitamento quanto d'approvazione per i rispettivi interventi strumentali, fino ad autentiche risate d'incontenibile gioia, testimonianza di quanto essi, per primi, si stessero divertendo. Non vi sono frontman sul palco, ognuno riveste un ruolo fondamentale, ed ognuno ha a disposizione il medesimo spazio strumentale e vocale. Proprio l'alternarsi e l'intrecciarsi delle quattro voci è stato uno dei tratti peculiari dell'intero concerto, con le vocalità scure e magnetiche di Race ed Eckman a fondersi con l'enfatico salmodiare di quelle di Sissoko e Coulibaly, a rievocare l'opera dei leggendari cantori africani, i griots. Il tutto su di un substrato sonoro ricco e variegato, grazie anche al risuonare delle corde del ngoni di Sissoko, del quale è un autentico virtuoso, ideale contrappunto armonico alle due “canoniche” chitarre; ed al caleidoscopico percuotere tribale del balafon di Coulibaly. Un vibrante excursus sonoro che ha saputo toccare la quasi totalità degli album sin qui pubblicati, a cominciare da BKO, dal quale vengono riesumate una dilatata Smokin' Bowl ed una Black Gravity, dalla distorcente ruvidità, dove il balafon sopperisce egregiamente alla mancanza della spinta propulsiva dell'originaria sezione ritmica maliana. Da Troubles arrivano invece l'incedere ossessivo della title track, declamatorio african blues, affidato all'ugola di Eckman, nel quale aleggia lo spirito di Ali Farka Touré; un'algida Fitzcarraldo, quantomai sintomatica della, riuscita, unione tra antico e moderno, tra Africa ed Europa, ed una tesa e nervosa Take It On The Chin, con Sissoko a sedersi dietro un minimale drum set. Dall'ultimo parto artistico, Lion City, proviene invece la conclusiva, plumbea Clouds Are Cover, dove su di poliritmici incastri percussivi, tra il rimbombare sintetico dei loop e l'ancestrale battito dello djembèe di Coulibaly e del tamani di Sissoko, si insinua l'evocativo talking di Race. Richiamati a gran voce, i quattro non si fanno pregare, e tornano sul palco per “riportare tutto a casa” con la desertica, ammaliante ballata Bring It Home, lungo quella, succitata, sabbiosa strada grazie alla quale l'Africa e il Mali non sono mai stati così vicini come questa sera.




domenica 14 dicembre 2014

Ben Miller Band - Anyway, shape or form

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


È un'autentica dichiarazione d'intenti, fin dal titolo, il secondo album della Ben Miller Band, a rimarcare, perentoriamente, una naturale predisposizione a ricorrere a qualsiasi mezzo necessario pur di creare e trasmettere la propria musica. Una “filosofia sonica” che, fin dal loro esordio Heavy Load, ha visto il trio del Missouri rivolgere la sua attenzione alle radici musicali del proprio paese, estirpandole per poi ripiantarle in un più moderno, personale, humus sonoro, come ben si evince, fin dal primo ascolto, in questo loro nuovo parto discografico. Edito dalla prestigiosa New West e registrato in quel di Nashville, sotto l'egida del produttore Vance Powell(già al lavoro, tra gli altri, con Jack White e Wanda Jackson), Anyway, Shape Or Form, infatti, vede ulteriormente accentuarsi l'irriverente verve del trio, riuscendo, nel non facile intento, di suonare al contempo antico e moderno. D'altra parte la persona miscela approntata dai nostri, e battezzata, orgogliosamente, con il nome di Ozark Stomp, nasce da un continuo mescolarsi di suoni, stili e generi, in un salto musico-temporale, dove il folk appalachiano, proveniente proprio dalle succitate Ozark Mountains, viene sporcato con il fango del Delta del Mississippi, per poi essere diluito con l'afflitta indolenza del country, il tutto grazie ad un approccio dalla materia tradizionale caratterizzato da una lucida follia interpretativa. Un'atemporalità sonora riscontrabile anche nell'armamentario strumentale al quale i tre fanno ricorso, con vetusti strumenti provenienti proprio dalla tradizionale musicale afroamericana, ma dai nostri rivisitati, personalizzati nonché elettrificati. Alle classiche sei corde, acustiche ed elettriche, affidate alle sapienti mani di Ben Miller, il quale si diletta a martoriare con foga, e a più riprese. anche una cigar box ed un banjo, si affiancano il costante pulsare del washtub bass (basso ad una corda ottenuto infilando un bastone dentro ad una vecchia tinozza per bucato) di Scott Leeper e la washboard e i cucchiai di Doug Dicharry. Un nutrito “arsenale” attraverso il quale dar sfogo alle proprie “inquietudini” musicali, quindi, in una delirante digressione in arcaici territori di matrice bianca e nera. D'ascendenza bianca sono, senza dubbio, l'opener The Outsider, così come Ghosts, figlie illegittime della old time music echeggiante ancor oggi dalle Ozark Mountains, con il picking furibondo, sul banjo, di Miller ben sostenuto dagli sgangherati battiti percussivi dei suoi due compagni. Si respira, al contrario, l'aria delle colline del Mississippi in Hurry Up And Wait, in un rutilante vortice hill country blues dove l'ossessività ipnotica di RL Burnside, incontra la debordante schizofrenia, al limite del punk, degli Hillstomp; per arrivare, infine, a lambire il torrido Texas, patria di un altro trio, ben più barbuto dei nostri, gli ZZ Top di Billy Gibbons, con il sanguigno boogie You Don't Know. Di tutt'altro tenore è, invece, I Feel For You, d'agrodolce afflato country, arricchita dai dilatati fraseggi di una pedal steel. Country che ritroviamo imbastardito dal verace soffiare bluesy di un'armonica, anche in Life On Wheels, frenetica proprio come una “vita sulle ruote”, a macinare chilometri su chilometri, di città in città, lungo sterminate highway. Notevoli, pur nella loro atipicità, sono la vivace 23 Skidoo, a metà strada tra il western swing degli Asleep At The Wheel e un'euforica sarabanda in puro stile dixieland, ed il corale, ubriaco, valzer, in salsa mariachi, di Prettiest Girl. E se i nostri attingono direttamente alla summenzionata materia tradizionale, con una personale rivisitazione della ballata The Cuckoo, fagocitata e qui risputata sotto forma di un contorto salmodiare folk d'apocalittica elettricità, la chiusura dell'album è appannaggio, invece, del solo Miller e della sua sei corde acustica, con una King Kong di dimessa mestizia folkie. Nella sua multiforme varietà stilistica, Anyway, Shape Or Form, non solo rappresenta un'ideale summa della veemente estetica sonora del trio del Missouri, ma è allo stesso tempo una delle più genuine uscite, in ambito rootsy, di quest'anno.



Hardin Burns - Down the deep well

(Pubblicato su Rootshighway)


Il crowdfunding pare essere diventato, in questi giorni di recessione economica, una delle pratiche più diffuse, in ambito musicale e non, perlomeno a giudicare dal proliferare delle "piattaforme" atte ad ospitare progetti culturali tra i più diversi. E' tuttavia alquanto avvilente vedere sempre più artisti costretti a chiedere un "finanziamento dal basso" per poter dare alle stampe i loro sforzi creativi, anche se tale sistema di sovvenzionamento sembra essere in alcuni casi l'unica risorsa, visti i sempre più ridotti investimenti dell'industria discografica. Non si è voluto esimere da questa collaudata pratica, anche la sigla "a due" formata da Andrew Hardin e Jeannie Burns, i quali, per poter fisicamente realizzare il seguito di Lounge, buon debutto di coppia pubblicato nel 2012, hanno deciso di ricorrere ad Indiegogo. Fissato il classico "traguardo" da raggiungere, si sono pertanto affidati al buon cuore della rete, e tale fiducia sembra essere stata ben riposta visto che in poco tempo la somma preventivata è stata raccolta, e l'album ha così potuto vedere la luce. Registrato in quel di Austin, Down The Deep Well beneficia senza dubbio della libertà espressiva donatagli da una realizzazione "autartica", attestandosi al contempo sulle medesime coordinate stilistiche del suo predecessore, ovvero un colorato patchwork Americana, dalle dense colorazioni blues. A primeggiare, per pulizia di tocco ed abilità di fraseggio sono le sei corde, elettriche ed acustiche, dello stesso Hardin, attorniato da uno ristretto novero di abili strumentisti, ovvero David Carroll al contrabbasso, Dony Wynn alla batteria e Gabriel Rhodes intento, oltre a produrre il tutto, a disimpegnarsi tra accordion, tastiere e chitarra elettrica. Un impasto elettroacustico sul quale spicca la melanconica vocalità della Burns, in grado di spaziare su più registri, passando dal talking country della funerea The Call al flebile sussurrare della soave Gentle Rain. Dal canto suo Hardin, avvicendandosi davanti al microfono, ottiene rimarchevoli risultati, specie nella title track, sussultante swamp blues, venato di gospel, rilasciando al contempo un assolo degno del più ispirato Tony Joe White. E' tuttavia quando le voci dei due titolari si alternano e si armonizzano che ci troviamo di fronte ai momenti migliori dell'album, quali la speranzosa Blooming, il fremente rock'n'blues Run, o l'elettrico trascinarsi bluesy dell'enfatica Ache. In Back Porch, la chitarra di Hardin pare invece ricordarsi dei propri trascorsi al fianco di Tom Russell, con lo spazzolare della batteria e l'accordion di Rhodes a profumare il tutto con gli aromi del border messicano. Vi è spazio anche per una nuova rivisitazione del songbook altrui (su Lounge era presente la harrisoniana Beware Of Darkness) ovvero Walkin On A Wire, tra gli apici compositivi di Richard Thompson, e qui riletta, dal duo americano, con l'apporto vocale di Terry Burns, in un più scarno, ma non meno emozionante, arrangiamento. Composizioni ben scritte, ed interpretate, quelle contenute in Down The Deep Well, una meritata, ricompensa per coloro che hanno creduto nel talento autoriale della coppia, contribuendo attivamente alla sua nascita, ma che saprà solleticare altresì le orecchie degli appassionati dell'Americana nelle sue più varie ramificazioni.




The Devil Makes Three - I'm a stranger here

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«C'è sempre una strada che si allontana da ogni città, tutto quello che dovete fare è percorrerla», spiega Pete Bernhard, chitarra, voce nonché mente dietro al progetto The Devil Makes Three. Una di queste strade si trova, certamente, anche alla periferia di Brattleboro, piccola, sperduta cittadina nel Vermont che ha dato i natali al trio, ed è proprio quest'ultima che i nostri hanno deciso di percorrere, imbarcandosi in un personale, itinerante medicine show d'altri tempi, fino a giungere nella "terra promessa" steinbeckiana, l'assolata California. Sembrano proprio tre moderni ‘hobo’, erranti girovaghi nella più profonda America rurale, tra treni merci, dissestate ‘rural route’ e i più disparati, anacronistici personaggi. Un vagabondare musicale dal quale hanno tratto senza dubbio ispirazione, apprendendo fatti, storie e leggende oltre alle arcane sonorità folk ancor bene radicate nelle sterminate campagne statunitensi. Garage-y time, punkfied blues; queste le definizioni date dallo stesso trio per descrivere il loro energico, stringato ed essenziale amalgama elettroacustico, la cui incontenibile vitalità risiede nel rustico vibrare delle corde più varie, siano esse quelle della chitarra del già menzionato Bernhard, del banjo di Cooper McBean, o di quelle ben più corpose del contrabbasso di Lucia Torino, così come in un delirante intrecciarsi di voci, profumante d'antico. Fuoriusciti dal medesimo, fervido "filone revivalistico" di altri sciamannati quali Old Crow Medicine Show, Hackensaw Boys e Pokey LaFarge, i The Devil Makes Three hanno saputo ritagliarsi, nel tempo, un proprio, sicuro pertugio in una, sempre più, brulicante scena Americana, arrivando non solo al ragguardevole traguardo del quarto disco, ma debuttando, con l'odierno I'm A Stranger Here, per la prestigiosa etichetta New West Records. Impresso su nastro in quel di Nashville, presso il celeberrimo Easy Eye Studio di proprietà di Dan Auerbach, questo nuovo lavoro mostra una combo ben conscio delle proprie potenzialità, affinate tra la polvere dei molti chilometri percorsi in quest'ultimi anni, ed oggi capace di dare alle stampe la sua opera più matura e ragionata, priva di cadute di stile o tono, in un febbrile barcamenarsi tra i più diversi dettami della tradizione musicale americana. E se l'intera ossatura strumentale è frutto del lavorio delle dita dei tre titolari, non mancano tuttavia fondamentali contributi esterni, quali la batteria di Marco Giovino e il violino di Casey Dreissen. Proprio l'archetto di quest'ultimo è assoluto protagonista, con guizzanti fraseggi, in una Dead Body Moving d'arrembante irruenza grassy, così come nell'accorata A Moment's Rest, valzer old timey, dove evidenti sono le assonanze con i "colleghi" Old Crow Medicine Show. Marco Giovino, dal canto suo, porta in dote un marcato, sbuffante rollio ritmico ad innervare una, ben più elettrica, Hand Back Down, libera interpretazione del paludoso ‘swampy sound’ marchiato Creedence Clearwater Revival. E' senza dubbio al folk d'ascendenza bianca che il terzetto sembra guardare con maggior attenzione, accostando ad una contagiosa "gioiosità" melodica, liriche d'amaro livore, come nella torbida Stranger, autobiografica narrazione della sradicata vita del musicista, sempre in viaggio di città in città, di concerto in concerto, privo di un luogo da poter chiamare "casa"; o nella rilucente gemma dixieland Forty Days, con tanto di soffiare jazzy dei fiati della Preservation Hall di New Orleans, tristemente ispirata proprio dalla devastazione subita dalla cittadina della Louisiana in seguito al passaggio dell'uragano Katrina, così come dal drammatico straripamento del corso d'acqua attraversante la natia Brattleboro. Si rifà invece alla lezione impartita dal leggendario Hank Williams, Spinning Like A Top, spavaldo honky tonk, venato di swing, con i nostri ad improvvisarsi novelli Drifting Cowboys, per poi provare ad analizzare il traumatico passaggio dall'infanzia all'età adulta in una spigliata Worse Or Better. E se l'indiavolato country gospel di Hallelu, dal sublime, fervente vociare devozionale, guarda da vicino quanto fatto di recente da Pokey LaFarge, Goodbye Old Friend, posta in chiusura, mostra invece il lato più riflessivo del trio, in una, quasi, impalpabile slow country ballad, ‘sporcata’ da elettriche aperture cosmiche. Che altro aggiungere? Ah si, produce, e partecipa attivamente con la propria chitarra, Buddy Miller, come dire: un nome, una garanzia. Un impeccabile compendio, in chiave modernista, di quella ‘vecchia sporca America’ descritta da Greil Marcus, I'm A Stranger Here, da, seguendo le istruzioni stampigliate sulla copertina, «play on all talking machine», meglio ancora se su un vecchio grammofono.



venerdì 5 dicembre 2014

Eric Sardinas & Big Motors @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Aveva lasciato un ricordo, è proprio il caso di dirlo, incendiario, Eric Sardinas, nella sua precedente sortita savonese, con la sua chitarra resofonica letteralmente data alle fiamme davanti ad un pubblico allibito di fronte ad una così veemente furia performativa. Un infuocato espediente scenico, quest'ultimo, a rendere ancor più bollente un live act dove la protagonista indiscussa rimane , per l'appunto, la sua sei corde, seviziata e tormentata senza remora alcuna, con o senza slide, in un torrido, grezzo rifferama bluesy, figlio bastardo di quello del fu grande Elmore James. Non stupisce quindi, questa sera, di trovare un Raindogs, nonostante l'allerta meteo incombente su Savona, alquanto affollato, tra reduci del passato concerto ligure del nostro, e nuovi avventori, incuriositi dagli entusiastici racconti dei primi, pronti ad accogliere il ritorno del chitarrista americano, in tour per presentare Boomerang, suo ultimo lavoro in studio. Ad aprire la serata sono i liguri Snake Oil Limited, saldamente guidati dal carismatico cantante Dario Gaggero, il quale, per movenze e timbro vocale, ricorda tanto la folle visionarietà di Captain Beefheart quanto l'imponente ululare di Howlin Wolf. Paragoni scelti non a caso, visto che Gaggero, ben accompagnato da un compatto terzetto elettrico, saccheggerà a più riprese proprio il repertorio del Lupo Ululante, prima con una demoniaca Evil, frequentata in passato anche dallo stesso Capitano Cuore di Manzo, e poi con una cavernosa Who's Been Talking?, in bilico tra i ritmi tribali del voodoo e sulfuree aperture jazzy. Notevoli anche le riprese diddleiane di una The Greatest Lover In The World, che il cantante interpreta come avrebbe potuto fare un giovane Elvis Presley in preda ad un attacco epilettico, ed una You Can't Judge A Book, tramutata dai quattro in uno sferzante, sporco rockabilly, passando per il Texas blues di Lightning Hopkins, con una sostenuta Mojo Hand. Un set senza dubbio azzeccato quello approntato per l'occasione dai genovesi, ottimo preambolo di quello che, ahinoi, si sarebbe poi rivelato essere il disastroso "main event". Accompagnato dai fidi Big Motors, ovvero il corpulento, barbuto bassista Levell Price, e l'assatanato batterista Bryan Keeling, poco dopo le 23 il chitarrista di Fort Lauderdale, cappellaccio ben calcato in testa, giubbotto di pelle rigorosamente nera, pantaloni a zampa e stivalacci d'ordinanza, fa la propria comparsa on stage. Una prima avvisaglia delle sue, non perfette, condizioni fisiche, avremmo potuto invero averla proprio nel vedere il nostro, ancora vistosamente provato da una brutta frattura ad una gamba non del tutto ristabilitasi, farsi aiutare a salire sul palco. Lo stesso Sardinas, quasi come a voler mettere le classiche "mani avanti", spiega, inoltre, come quello di stasera sia l'ultimo concerto di un lungo ed estenuante tour, e quanto lui e i suoi due compagni siano provati dal serrato ruolino di marcia dello stesso, pur promettendoci al contempo che ciò non intaccherà la consueta grinta ed intensità del loro live act. Una promessa che purtroppo per noi non verrà, perlomeno non del tutto, mantenuta, alla luce di come si è concluso il suo, infelice, ritorno in terra savonese. Il biascicare insicuro di fronte al microfono è un ulteriore indizio della sua salute alquanto precaria, minata più che dai dolori alla gamba, da problemi di ben altra, alcolica natura. La sua condizione psico-fisica, indubbiamente, alterata non sembra tuttavia, perlomeno inizialmente, pregiudicare l'andamento di un set caratterizzato da un continuo, insistito profluvio di torrido rock blues, reso ancor più tagliente dagli stridori metallici del bottleneck, e dopato ritmicamente dal devastante martellare percussivo dei tamburi di Keeling e dal roccioso vibrare delle corde del basso di Price. A subire cotanto muscolare trattamento sono brani quali una torrenziale Flames Of Love, estrapolata dall'album Black Pearls, e rigettata sugli astanti in un'annichilente, distorta tempesta elettrica, o lo shuffle alcolico Get Down To Whiskey, il cui "velato" invito viene forse preso, fin troppo, alla lettera dallo stesso Sardinas. Il chitarrista appare infatti alquanto alticcio e sempre meno in grado di articolare un discorso coerente, tanto che sembrano accorgersene, rassegnati, anche i suoi due compagni di "sventura", i quali cercano come possono di assecondarlo in alcune delle sue ebbre digressioni chitarristiche, con esiti spesso al limite dell'aberrante. E se una Can't Be Satisfied orribilmente deturpata avrà fatto rigirare nella tomba McKinley Morganfield, ancor peggiori sono i risultati quando i tre improvvisano un'improbabile omaggio strumentale a Malcom Young, encomiabile dal punto di vista umano, ma quantomeno discutibile da quello strumentale. Non bastano una selvaggia How Many More Years, a firma Chester Burnett, né una monolitica e declamatoria Trouble, presa dal songbook presleyiano, ed entrambe contenute nel succitato Boomerang, per riportare in carreggiata un concerto ormai avviatosi verso una, non certo dignitosa, conclusione. Il chitarrista, vuoi per la gamba ancora dolorante o per le massicce dosi di whiskey ingerite, appare sempre più instabile, barcollante, tanto da rovinare prima sulla batteria, facendo seriamente temere per la sua incolumità fisica, per poi abbattersi, durante una stentata esecuzione di Run Devil Run, sull'amplificatore e sulla testata, ponendo, di fatto, fine ad un concerto nato sotto i più nefasti auspici. Si scusa più d'una volta, Sardinas, conscio anch'egli, pur nella sua flebile lucidità, della non proprio "esaltante", ad essere generosi, prova di questa sera, ma davvero, fisicamente e mentalmente, non sembra più in grado di poter continuare, tanto da essere costretto ad abbandonare il palco sorretto a forza. Quella che rimane, una volta riaccese le luci in sala, è una cocente delusione, non tanto per la durata esigua della "performance" (un'oretta scarsa), quanto per essersi trovati di fronte un musicista che è parso la sfocata ombra dell'incontenibile animale da palco abituale. Nulla da eccepire, invece, sul funzionamento dei due "Grandi Motori" Price e Keeling, i cui granitici pistoni hanno cercato in tutti i modi di pompare energia e forza nella macchina sonora sardinasiana, purtroppo condotta ad arrancare, troppo spesso, fuori strada da un "guidatore" in evidente stato d'ebbrezza.



sabato 29 novembre 2014

Mark Olson - Good-bye Lizelle

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il ritirarsi, in volontario esilio, evitando in tal modo le pressioni dell'odierna industria discografica, sembra giovare al songwriting di Mark Olson, come in passato dimostrato dagli album a nome Original Harmony Ridge Creek Dippers, cristallini risultati di una purezza compositiva ritrovata tra la sabbia del deserto del Mojave, o come nel caso dell'odierno 'Good-bye Lizelle', album "globale" concepito e posto su nastro durante alcuni viaggi, tra Armenia, Repubblica Ceca, Usa, Norvegia e Finlandia. Proprio nel freddo nord Europa il songwriter americano pare aver trovato nuovi stimoli, grazie anche all'incontro con la polistrumentista e cantante norvegese Ingunn Ringvold, divenuta sua moglie e partner artistica. Un sodalizio, ricordante quello con l'ex consorte Victoria Williams, iniziato, musicalmente, tra i solchi di Many Colored Kite, secondo album solista, invero non del tutto a fuoco, del nostro, e seguito dell'invece brillante esordio The Salvation Blues, per poi proseguire durante le sessioni di registrazione di Mockingbird Time, acerbo frutto dell'estemporanea reunion dei seminali Jayhawks. Solo oggi, tuttavia, la collaborazione autoriale tra i due pare raggiungere finalmente la propria compiutezza, con la Ringvold non solo impegnata a "colorare" il songwriting olsoniano con le proprie, multiformi capacità strumentali, oltre che con splendide armonizzazioni vocali, quanto a partecipare direttamente allo stesso, unendo in più di un episodio la propria penna a quella del marito, in un processo di scrittura a due non scevro di pregevoli risultati. Composizioni in divenire, nate e registrate, in modo spesso informale, nella quiete di un portico o tra le pareti di legno di un vecchio fienile, grazie all'ausilio di un registratore portatile Nagra e al supporto di una piccolo gruppo di musicisti norvegesi, nel tentativo di salvaguardare l'immediatezza del momento e la veridicità esecutiva, grazie ad un approccio che pare figlio delle field recordings di lomaxiana memoria. A giovarne, oltre alle composizioni, è il suono stesso dell'album, caldo ed avvolgente, come ricoperto da una suggestiva aurea Sixties, nonché intriso delle influenze sonore dei luoghi nei quali è stato impresso su nastro. Ed è proprio la ricchezza cromatica delle strutture melodiche a colpire, in un inedito ampliamento della tavolozza sonora olsoniana, con le seppiate tonalità Americana originarie a fondersi con più mediorientali coloriture dalle tinte ocra. Basta infatti immergersi in brani quali Running Circles o Jesse In An Old World, dove il tremulo vibrare delle corde del quanon ed il rallentato battere tribale delle percussioni sono l'ideale tappeto ritmico-melodico per melismatici incroci vocali, oppure nella sublime Say You Are The River, rimandante tanto alla pastoralità acida del folk psichedelico albionico di fine anni Sessanta, quanto all'infatuazione per il misticismo e le sonorità indiane di George Harrison, in particolare, e dei Beatles tutti, per apprendere come la parte mediorientale del viaggio dei due abbia senza dubbio influenzato la genesi degli stessi brani. Nella luminescenza lisergica di Poison Oleander appare invece la sei corde elettrica dell'amico Neal Casal, riportando le coordinate stilistiche aldilà dell'Oceano, entro quelle strade Americana in passato battute a più riprese con i Jayhawks e i cui ricordi qui paiono a tratti riemergere, come nella melanconica Long Distance Runner. Piccole oasi di trattenuta introversione sono tanto Cherry Thieves e Which World Is Ours?, in un incantevole pastiche folk rock intriso della solarità del Laurel Canyon settantiano di un'altra coppia, quella formata da Graham Nash e Joni Mitchell. Non mancano momenti di più sgargiante chiarore melodico, come All These Games e Heaven's Shelter, dove ben evidente, invece, è il marchio sonoro dell'Olson solista, o la conclusiva, pianistica Go-Between Butterfly, impreziosita dagli intarsi cameristici del violoncello di Vojtech Havel e del flauto di di Marek Spelina. Uno scrigno colmo di delizie, Good-bye Lizelle, di cartoline esistenziali di un viaggio musicale da parte di un songwriter cosmopolita tornato a deliziarci con una grazia espressiva raramente attestatasi sui medesimi livelli nelle sue precedenti sortite da solista.





Luke Winslow-King - Everlasting Arms

(Pubblicato su Rootshighway)


The Coming Tide, suo esordio, lo scorso anno, per la chicagoana Bloodshot Records, ma in realtà terzo lavoro a proprio nome, era stato il classico "fulmine a ciel sereno", capace di guadagnarsi il plauso di larga parte della critica. D'altronde il chitarrista, songwriter di Cadillac, Michigan, ma da tempo trapiantato in quel di New Orleans, aveva dimostrato, fin dai primi parti solistici, di saper mescolare, con gusto e padronanza, stilemi musicali tra i più disparati, appartenenti alla tradizione afroamericana. E se al principio era alquanto marcata l'influenza di quel fervente crogiuolo musicale che è tutt'oggi la città della Louisiana, con The Coming Tide, il nostro aveva ulteriormente arricchito la propria, personale miscela con bucolici squarci melodici, in odore di Americana, e gli stridori del blues deltaico, in un percorso di riscoperta condotto parallelamente ad una crescita autoriale ed interpretativa oggi giunta alla sua definitiva maturazione. Anzi, con l'odierno Everlasting Arms, Winslow-King si appropria di nuove, e ben più elettriche, sonorità, dimostrando un insaziabile appetito musicale. Registrato in quattro differenti studi, tra i quali i familiari Piety Street di New Orleans e il Jambona Lab di Livorno, dove ha impresso su nastro il proprio contributo il "nostro" Roberto Luti, Everlasting Arms è, senza dubbio, la testimonianza perfetta dell'attuale modus operandi del chitarrista. Punti focali erano e rimangono, per l'appunto, la sua sei corde, sia essa una vecchia resofonica che una sua più moderna "discendente"; ed una vellutata voce, da troubadour, legata armonicamente, a più riprese, con quella della consorte Esther Rose, qui nuovamente impegnata ad accentuare la spigliatezza ritmica dell'intero lavoro, dividendosi tra washboard e un "inconsueto" ferro di cavallo. Vedono la luce in tal modo piccole delizie come I'm Your Levee Man, dove si avverte l'eco dell'orgiastica esuberanza dixieland della Creole Jazz Band di King Oliver, o la title track, dall'afflato gospel, riuscito reprise dell'omonima composizione di Anthony J. Showalter. Di ben maggior grana elettrica sono invece la tellurica Swing That Thing, dove l'hill country blues di RL Burnside incontra il Diddley-sound urbano di Elias Bates McDaniel, una Cadillac Slim tra rimandi al rhythm and blues marchiato Stax ed intrecci vocali doo wop, e il sincopare sudista di una Domino Sugar figlia "illegittima" tanto dei Black Crowes che degli Stones di Sticky Fingers. Con la percussiva briosità caraibica di La Bega's Carousel, ci si immerge invece nel selvaggio "suono delle giungla" dell'orchestra del "Duca", per poi passare, in Home Blues, al caracollare jazzy di quella di Cab Calloway, mentre con il lancinante scorrere del bottleneck della conclusiva Traveling Myself si torna sulle colline in un ideale tributo all'arte di Mississippi Fred McDowell. Ancora una volta Luke Winslow-King ha saputo dimostrare come sia possibile rileggere il passato senza, al contempo, perdere nulla della propria originalità, ed Everlasting Arms ne è la prova più che tangibile.



Bonnie "Prince" Billy - Singer's Grave - A Sea Of Tongues

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Eccentrico e, a volte, sin troppo esuberante, con una labirintica produzione discografica caratterizzata dal frenetico avvicendarsi delle più diverse ragioni sociali, di fronte alla quale anche il più fervente sostenitore è rimasto a volte, per usare un eufemismo, spiazzato, Will Oldham ha continuato imperterrito a perpetuare, fin dagli esordi, una propria, intransigente concezione musicale, tramutandosi, sempre più, nella classica "mosca bianca", in un mondo discografico oggi più omologato che mai. Un modus operandi, quello dell'istrionico songwriter di Louisville, Kentucky, capace tuttavia di produrre, ogni qual volta egli pone piede in uno studio di registrazione, album dalla visionaria bellezza, in grado di irretire l'ascoltare, in una sorta di rapimento mistico, trasportandolo in un bislacco mondo parallelo, dove i vetusti stilemi folk, appresi da bambino nella propria città natia, vengono riveduti e corretti attraverso una personale, stranita visione della medesima materia sonora. Frutto di questo approccio "senza regole" è anche l'odierno Singer's Grave - A Sea Of Tongues, pubblicato, quasi a sorpresa, a distanza di pochi mesi da un'opera omonima, divenuta in breve tempo il Sacro Graal della discografia oldhmaniana, vista anche l'assenza di una vera e propria distribuzione, ed una conseguente reperibilità pari, per l'appunto, alla tanto agognata reliquia cristiana. Una scelta, questa, anch'essa controcorrente che aveva fatto mangiare le mani a più di un suo fedele "suddito", specie alla luce della qualità del lavoro stesso, senza dubbio tra le punte di eccellenza dell'epopea discografica del nostro. Ed oggi, quasi a volersi far perdonare, il Principe dà alle stampe un nuovo lavoro, della medesima, se non maggiore, caratura; un nuovo ossequio alla tradizione folk, perpetrato attraverso la consueta, trasognata forza poetica. In realtà l'aggettivo "nuovo" è forse quello meno calzante per definire l'opera in questione, visto che ben cinque brani comparivano già tra i solchi di Wolfroy Goes To Town, vecchia pubblicazione a marchio principesco uscita nel "lontano" 2011. Certo il nostro ci aveva abituato, ricorrendo proprio al suo pseudonimo più famoso, a rileggere e riarrangiare il proprio materiale passato, vedasi a tal proposito Bonnie Prince Billy Sings Greatest Palace Music, meraviglioso esercizio di “rivangazione”, in chiave country folk, del repertorio a nome Palace, nelle sue più diverse accezioni, così come l'E.P. Now Here's My Plane, dove oggetto di rivisitazione erano proprio alcuni "classici" del suo moniker regale; eppure, fin dal primo ascolto, il lavorio in fase di arrangiamento approntato per questi e i restanti brani, scritti per l'occasione, è la fulgida testimonianza di una mai prosciugatasi vena lirica, anzi a dir poco idilliaca nel suo stare in bilico tra trattenute vibrazioni acustiche e trascendenti increspature elettriche. Su cotanto flusso sonoro di disincantato fascino agreste, a spiccare, in tutto il suo magnetismo, è, come sempre d'altronde, il canto oldhamiano mai forse così capace di affascinare per pienezza timbrica e melanconica confessionalità, raggiungendo il proprio apice emozionale negli scambi vocalizzanti con le corde vocali, d'ascendenza gospel, delle McCrary Sisters e di Caroline Peyton, quest'ultima chiamata qui a sostituire la "dimissionaria" Angel Olsen, dietro al microfono in occasione proprio del precedente Wolfroy Goes To Town. E sono i brani di quest'ultimo a lasciare a bocca aperta per la trasformazione sonora ai quali sono stati sottoposti, con il velo di cupezza che originariamente li rivestiva sostituito da un nuovo, tenue manto melodico, dove si avverte tanto l'influsso della mano, e della mente, dello stesso titolare, quanto il contributo strumentale del fido Emmett Kelly, e di una sei corde ormai da tempo asservita all'operato sonoro del proprio "sovrano" musicale. Devono, pertanto, leggersi come composizioni "inedite" una There Will Be Spring pregna di languide sfumature country, con le fluttuanti ondulazioni melodiche della pedal steel di Paul Niehaus, già con Calexico e Lambchop tra gli altri, in primo piano, così come il quieto raccoglimento di una, quasi, sussurrata It's Time To Be Clear, passando per il saliscendi polveroso di Quail And Dumplings, con lo stridere delle corde del violino di Billy Contreras a contrappuntare l'empatico duetto vocale tra Oldham e la Peyton, fino ad una We Are Unhappy dallo scarno scheletro strumentale old time, costruito sul picking appalachiano del banjo di Richard Bailey, con le voci delle McCrary Sister ad aggiungere al tutto una chiesastica forza devozionale. Un continuo incrociarsi di voci che ritroviamo anche nello spartano country rock dell'opener Night Noises, o in una Whipped dove la voce del "Principe" arriva a raggiungere vette d'inusitata altitudine timbrica, quasi spezzandosi nel tentativo di cotanta scalata tonale. Di maggior dinamismo è invece So Far And Here We Are, dove il retroterra musicale a stelle e strisce del nostro incontra le nebbie psichedeliche dei Trembling Bells, tanto da sembrare una outtake di The Marble Downs, album condiviso proprio con il combo scozzese. Si smorzano tuttavia, nuovamente, i toni e si rallentano i tempi in New Black Rich (Tusks) e in Sailor’s Grave A Sea Of Sheep, poste in chiusura, la prima una lenta, straziante ballata elettrica, mentre la seconda un valzer dalla inarrivabile grazia acustica, ed ideale chiosa intimista, dall'evanescente bellezza. Collocandosi idealmente tra l'imprescindibile, succitato, Sings Greatest Palace Music, e le passeggiate bucoliche di Ease Down The Road; Singer's Grave - A Sea Of Tongues, nella sua paradisiaca grana melodica rootsy, rappresenta l'ennesima pietra miliare della saga "principesca".




giovedì 6 novembre 2014

Sonido Gallo Negro - Sendero Mistico

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dalla pubblicazione, invero solo nel natio Messico, del loro folgorante debutto, Cumbia Salvaje, i Sonido Gallo Negro hanno a dir poco “bruciato le tappe” di un percorso che li ha visti passare da fenomeno di culto della scena underground della propria città natale, Città del Messico, a calcare i palchi dei maggiori festival messicani, fino ad essere invitati, nella vecchia Europa, nientemeno che da Emir Kusturica, al, da lui stesso curato, Kustendorf Festival. Il regista serbo non è stato tuttavia il solo ad accorgersi della schizofrenica amalgama sonora approntata dai nove messicani, anche la benemerita Glitterbeat, fino ad oggi intenta a scandagliare il desertico terreno musicale africano, ha rivolto la propria attenzione verso il prima inesplorato continente sudamericano, pubblicando, sotto la propria egida, il secondo album dei nostri, Sendero Mistico. Sviluppatosi sulle medesime, folli coordinate sonore del suo predecessore, questo nuovo lavoro in studio del combo messicano rappresenta una nuova febbrile esplorazione della tradizione musicale latinoamericana, appropriandosi del misticismo della cumbia peruviana ed amazzonica, miscelandolo con il huayno e il boogaloo, per poi stravolgerlo ed “imbastardirlo” con ruvida elettricità garage, liquide fluttuazioni lisergiche, e l'immaginario desertico del miglior spaghetti western. Una speziata ricetta sonora ottenuta grazie a strumenti d'ascendenza tradizionale, come il flauto, il theremin, e le più diverse percussioni latine, ai quali se ne aggiungono altri di più moderna foggia, come farfisa, chitarre elettriche, basso e sintetizzatori. Un caleidoscopico, torrido, tessuto musicale che trae la propria forza dall'assenza di liriche, in quello che è un unico, dilatato, flusso sonoro strumentale, diviso in dieci ideali “movimenti”. Dieci tracce aventi ognuna un ruolo primario nel dar vita ad una narrazione sonica in bilico tra la sciamanica danza propiziatoria e l'allucinato trip lisergico. Impossibile tuttavia non citare episodi come la conturbante cumbia El Ventarron, sorta di libera improvvisazione tra i Calexico e i Los Lobos strafatti di mescalina; o le visioni desertiche di una Virgenes Del Sol dalla sabbiosa evanescenza. Di straordinaria densità strumentale sono altresì Alfonso Graña (Selvatica) e Inca-A-Delic, tra increspature solistiche, ad opera di farfisa, theremin e chitarre elettriche, ed un tripudio percussivo dalla costante, ossessiva scansione metronomica, in una mareggiata psichedelica recante, nel suo immaginifico moto ondoso, gli originali stilemi della succitata cumbia peruviana. Chiude l'album l'acida magnificenza di Mistery Of Zangbetos, ideale manifesto estetico di un collettivo a dir poco stupefacente nel suo perpetuare, imperterrito, una missione strumentale d'ipnotica astrazione. Un viaggio di mistica trascendenza, Sendero Mistico, dove tradizione e modernità si incontrano e si fondono in una sorta d'estatico rituale di cinematica visionarietà; un turbinio costante di ritmi, colori e rumori, capace di stregare dalla prima all'ultima nota, trasportandoci in sconosciuti, affascinanti mondi sonici. D'altra parte come gli stessi Sonido Gallo Negro spiegano nelle liner notes dell'album; «Instrumental cumbia can show you impressive, disconcerting and mysterious images, where everything invisible becomes present».


Primus - Primus and the Chocolate Factory with the Fungi Ensemble

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



“Come credo la maggior parte del pianeta anche noi siamo rimasti piuttosto delusi dal remake del film di Willy Wonka, dalla versione di Tim Burton insomma. Volevo tributare il giusto omaggio al film originale che è stato molto importante per me, musicalmente, da bambino”; parole dello stesso Les Claypool, folle deus ex machina degli schizofrenici Primus. Sembra quasi di vederlo il bambino Leslie assistere, rapito, alla trasposizione cinematografica del libro di Roald Dahl, con un magistrale Gene Wilder nei panni dell'istrionico “cioccolataio” Willy Wonka, sognando di poter anch'egli visitare la magica fabbrica di quest'ultimo, un paradiso dolciario tra cascate di cioccolato e confetti senza confini. Un sogno che oggi per il bassista californiano diviene, perlomeno musicalmente, realtà, in una sghemba impresa di destrutturazione e rigenerazione delle composizioni originali approntate, all'epoca, da Leslie Bricusse e Anthony Newley. Non una calligrafica esecuzione delle partiture primigenie quindi, ma una delirante “appropriazione” pentagrammatica in puro Primus-style, prediligendo, al contempo, i temi ricorrenti presenti all'interno delle medesime composizioni. Quattordici le tracce riviste e corrette dal nostro in compagnia dei vecchi sodali Larry Lalonde e Tim “Herb” Alexander, a riformare, su disco, la storica line-up primusiana, ai quali si aggiunge, in questa grottesca orchestrazione “cioccolatosa”, il supporto strumentale del Fungi Ensemble (ovvero il percussionista Mike Dillon e il violoncellista Sam Bass, già nei Frog Brigade). Un baloccarsi stralunato tra dense, dopate spirali chitarristiche, il sibillino pulsare di un basso, al solito, seviziato, cacofoniche arie cameristiche, e fondali ritmici beefheartiani opera del claudicante percuotere di batteria, marimba e percussioni assortite, dove a spiccare è, tuttavia, lo sproloquiare psicotico, salmodiante, dello stesso Claypool, quanto mai a suo agio nel ruolo di Willy Wonka. Spiccano così per il claustrofobico trattamento ricevuto il sinistro benvenuto strumentale del tema d'apertura Hello Wonkites, il nevrotico svolgersi narrativo di una “giubilante” Golden Ticket, gli stranianti gorghi melodici ascendenti di Semi-Wondrous Boat Ride, così come le dissonanze aritmiche di una, a dir poco spettrale, Wonkmobile.Frammenti sonori, a volte di breve durata, nei quali tuttavia emerge l'eclettismo dirompente di Claypool, in questo frangente ancor più senza freni rispetto alle precedenti sortite della propria prediletta “creatura sonica”, ed avente la sua sublimazione nella riproposizione della splendida Pure Imagination, affidata, nella versione cinematografica, alle corde vocali di Gene Wilder, e qui tramutatasi, da un sognante viaggio attraverso i mondi fantastici creati dalla propria immaginazione, in un'angosciosa discesa negli anfratti più bui e reietti della mente umana. Davvero riuscite, nella loro lucida follia, sono anche le caratterizzazioni sonore dei vari personaggi (Oompa Augustus, Oompa Violet, Oompa Veruca, Oompa TV), scaturiti dalla geniale penna di Dahl e nel film spettanti alle divertenti filastrocche degli Oompa Loompa, fedeli aiutanti di Willy Wonka, qui ripresentate invece in nuove, inquiete versioni, tra acidi intrecci vocali e limacciosi incastri percussivi. Colpisce, per la sua aura orientaleggiante, I Want It Now, con lo stridere dell'archetto sul violoncello di Sam Bass a contrappuntare i dissoluti fraseggi della sei corde di Lalonde, per poi, infine, abbandonare quel luogo di, oggi, ferale incanto che è divenuto il mondo wonkiano, grazie al visionario filtro sonoro marchiato Primus, sulle note della conclusiva Farewell Wonkites, in bilico tra distorsioni hendrixiane e liquide trame sonore figlie dei Pink Floyd di Animals. Ed ora che la vecchia azienda di Willy Wonka ha riaperto i battenti, sotto la nuova gestione primusiana, non vi resta che procurarvi una copia fisica dell'album, nella speranza di trovare uno dei fantomatici biglietti dorati, e vincere così un immaginifico tour tra le caleidoscopiche mura della fabbrica di cioccolato. Claypool-Wonka vi attenderà all'ingresso per farvi da guida in questa escursione dolciaria e, se ne uscirete vivi, al vostro ritorno avrete sicuramente qualcosa da raccontare.


Da Joplin, Missouri, “con ogni mezzo necessario”. Intervista a Ben Miller

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo l'interessante esordio, “Heavy Load”, ed un intenso tour che li ha portati anche in Europa, di supporto agli ZZ Top, la Ben Miller Band ha da poco dato alle stampe, il suo secondo album ”Anyway, Shape Or Form”, registrato agli Sputnik Studios di Nashville e prodotto da Vance Powell. Folk degli Appalachi, blues del Delta e country nashvilliano tornano a convivere in un'irriverente amalgama battezzata dai nostri con la denominazione doc di Ozark Stomp. Abbiamo chiesto a Ben Miller di svelarci i segreti di questo folle trio.


Partiamo dal principio, come si è formata la Ben Miller Band?

Abbiamo iniziato a suonare insieme ad una serata open mic organizzata nella zona in cui viviamo, e dopo aver continuato a suonare insieme per un pò di tempo è venuto quasi naturale farlo durante i weekend nei vari club e locali.


Avete battezzato la vostra "miscela" musicale, in onore della vostra regione geografica, Ozark Stomp. Potete descriverci quali sono gli "ingredienti" che avete mescolato tra loro per creare questa vostra personale "ricetta"?

Non direi che gli ingredienti sono importanti, perlomeno non quanto una filosofia “innovativa”. E' presente una sorta di individualismo irriverente, che rappresenta una delle caratteristiche della regione in cui viviamo, nel nostro modo di intendere e fare musica. Così come probabilmente vi sono anche molte influenze delle sonorità delle Ozark Mountains in quello che suoniamo, ma questo non in modo consapevole. La nostra musica è paragonabile ad un cibo che ha assorbito determinati sapori dal terreno nel quale è stato coltivato.


“Anyway, Shape Or Form”, il vostro secondo album, rappresenta, fin dal titolo, una chiara dichiarazione d'intenti; il vostro desiderio di creare musica con ogni mezzo necessario. Questa ‘filosofia’ si riflette anche nei vostri particolari, nonchè autocostruiti, strumenti, estrapolati dalla tradizione musicale bianca e nera, ma modernizzati ed elettrificati. Ci potete spiegare come li avete modificati? Quanto sono importanti questi strumenti per l'economia sonora del vostro trio?

Amiamo provare e sperimentare cose nuove, spesso funzionano, altre volte no. Provo a spiegarlo usando una metafora sull'evoluzione naturale. Gli animali hanno, da sempre, sviluppato strane ed idiosincratiche caratteristiche e comportamenti, con il passare delle generazioni, attraverso la mutazione. Se un animale può sopravvivere meglio con il collo più lungo, quel tratto somatico rimarrà nel suo dna e verrà tramandato alla propria prole. Allo stesso modo, musicalmente, abbiamo subito un'evoluzione, fino a diventare quello che siamo oggi. Sperimentiamo nuovi strumenti, canzoni e stili, e se il tutto suona nel modo giusto per noi, e per i nostri amici, allora sopravvive anche nei successivi concerti. Non avevamo un'idea originaria del modo in cui avremmo dovuto suonare, il tutto si è, per l'appunto, evoluto in modo graduale, lungo la strada percorsa insieme, grazie anche alla nostra sensibilità musicale e all'ambiente circostante.


Nel vostro debutto discografico, “Heavy Load”, era contenuto un personale arrangiamento dello spiritual nero, Get Right Church, mentre oggi in “Anyway, Shape Or Form”, è presente una notevole versione della ballata folk, d'ascendenza bianca, The Cuckoo; come scegliete solitamente i brani da rivisitare, alla luce anche della molteplicità di stili che esplorate? In che modo approcciate la tradizione musicale del vostro paese, bianca e nera?

Non penso alla "razza" del musicista quando ascolto vecchie canzoni o brani tradizionali. Certamente la musica è stata influenzata dalla storia e dal patrimonio umano delle varie persone, e dal contesto storico nelle quali esse hanno vissuto. Ma, davvero, noi non pensiamo alle canzoni, le sentiamo, le viviamo. Ho notato come, spesso, le persone non appena ascoltano qualcosa provano, immediatamente, a razionalizzare ciò che stanno sentendo. Se apprezzano la vecchia musica country, per esempio, potrebbero dire; «Mi piacciono i valori che essa rappresenta e la sua autenticità», oppure se a loro piace la musica hip hop; «Apprezzo la critica sociale presente nei testi». Non credo che a loro piaccia, realmente, la musica per queste ragioni, la sentono invece nel loro cuore, nel profondo. Sarebbe come chiedere perché uno scherzo è divertente oppure perché il cibo è delizioso, siamo sicuramente in grado di dare risposte diverse a queste domande, ma uno scherzo è divertente perché è divertente e il cibo ha un buon sapore perché, semplicemente, ha un buon sapore. Non vi è assolutamente bisogno di razionalizzare ogni cosa. Bene, detto questo, per quanto riguarda la scelta dei brani da rivisitare, faccio solo quello che ritengo sia giusto per me.


Parlaci, invece, di come nascono le tue canzoni.

In primo luogo, una canzone ha sempre il proprio inizio da qualche parte. Non sai mai esattamente dove nascerà, a volte da una melodia, o da uno spunto strumentale, oppure da un'idea che mi si fissa in testa. Cerco così di trovare un modo di portare questa idea ad uno nuovo stadio, più compiuto, aggiungendo altri elementi, per poi "portarla" fuori dalla mia mente e realizzarla fisicamente. Non sono tuttavia mai del tutto sicuro di quando una canzone è veramente completa, infatti cambio spesso i testi a brani che ormai eseguo da anni. Immagino che non si arrivi mai ad una fine vera e propria, almeno fino a quando uno non si arrende e lascia il tutto com'è.


Per “Anyway, Shape Or Form” siete stati affiancati, in studio, da Vance Powell, dietro al bancone di regia, in passato, per Jack White e Wanda Jackson, come è stato lavorare con lui? Che tipo di cambiamenti vi sono stati, rispetto alle sessioni di registrazione di Heavy Load?

Vance è un nostro caro amico, veniamo tutti da Joplin, nel Missouri, ed è stato rassicurante lavorare con qualcuno che ha le nostre stesse radici. Le sessioni di registrazione, questa volta, sono state una sorta d'esperimento, suonando le canzoni dal vivo, direttamente in studio. E' stato un modo per accelerare la crescita di alcuni brani nati, prevalentemente, durante i lunghi periodi passati sulla strada. Abbiamo trascorso parecchio tempo cercando di trovare le giuste sonorità, lavorando intensamente sulle canzoni, fino al punto in cui abbiamo, finalmente, sentito che avevano trovato la loro forma definitiva.


King Kong, l'ultima canzone contenuta in “Anyway, Shape Or Form”, è una splendida ballata folk per sola voce e chitarra acustica. Come mai avete scelto di chiudere l'album con questo brano?

King Kong è stata l'ultima canzone che ho scritto, quasi una sorta di "ripensamento". Durante le sessioni di registrazione ho chiesto a Vance se poteva settarmi un singolo microfono in modo da poter registrare mentre Doug e Scott erano in pausa dal lavoro su di un'altra canzone. Abbiamo preparato il microfono e registrato il brano un paio di volte, ma non eravamo del tutto sicuri se avrebbe fatto parte dell'album oppure no. Nel mentre stavamo stilando l'ordine dei brani del disco abbiamo cercato di inserire King Kong in diversi punti, ma non suonava mai in modo organico con il resto, probabilmente a causa della sua scarsa strumentazione. Posizionandola tuttavia in chiusura dell'album sembra quasi un extra, un qualcosa in più per coloro che ascolteranno il disco.


Quali sono invece le canzoni dell'album che meglio si prestano per essere riproposte dal vivo?

Amiamo suonare le canzoni di quest'album in concerto, davvero. Come ho già accennato abbiamo lavorato in studio suonando le canzoni dal vivo, ed è un piacere poterle portare, su di un palco, ai nostri fan. Le mie preferite in questo momento, ma cambiano di giorno in giorno, sono: Life On Wheels, 23 Skidoo, Ghosts e Hurry Up And Wait.


Avete suonato in alcuni importanti festival negli Stati Uniti ed in Europa, come l'Americana Music, il Floydfest e il prestigioso Montreux Jazz Festival. Il vostro live show cambia a seconda che suoniate in un festival oppure che si tratti di un vostro "canonico" concerto?

Si, certamente, cambia a seconda di quanto tempo abbiamo a disposizione. Quando suoniamo per soli 45 minuti dobbiamo cercare di attirare l'attenzione del pubblico piuttosto velocemente. Solitamente non ho idea di quali canzoni eseguiremo quando saliamo su di un palco, penso sia molto importante riuscire a leggere lo stato d'animo del pubblico e in base a questo scegliere i brani. Ovviamente con un tempo limitato abbiamo, invece, a priori un'idea di quello che faremo sentire al pubblico presente, ma siamo in grado di cambiare il tutto a seconda dell'umore, nostro e del pubblico stesso.


Quali sono le lezioni che avete imparato nei lunghi periodi trascorsi in tour?

Beh, abbiamo sicuramente imparato a viaggiare leggeri, cercando di capire quali sono le cose essenziali da portare con noi e quali invece da lasciare a casa.


Una riscoperta e modernizzazione della "musica delle radici", la vostra, che vi accomuna a gruppi come la Big Damn Band del ‘Reverendo’ Peyton e agli Hillstomp, giusto per nominare due nomi a voi, musicalmente, affini. Vi sentite parte attiva di questa fervente scena?

In realtà non mi sento parte di una scena specifica, anche se rispettiamo alcune delle filosofie di altre band, ma penso che ognuna si sia sviluppata attraverso un proprio isolamento. Sono comunque felice di vedere come anche altri gruppi hanno le nostre medesime passioni, e solitamente quando le ascolto traggo sempre ispirazione dalle differenze che ci sono tra di noi, questo, inoltre, ci dà la possibilità di "rubare" l'uno dall'altro.


La scorsa estate avete anche debuttato, dal vivo, nel nostro Paese, come opening act per gli ZZ Top. Come vi ha accolto il pubblico italiano?

Sono rimasto davvero sorpreso dall'entusiasmo del pubblico italiano. Avrei dovuto sapere che gli italiani sono noti per la loro passionalità, ma sono stato preso davvero alla sprovvista dal calore dimostrato nei nostri confronti. Dopo lo spettacolo siamo andati a firmare autografi tra il pubblico, e la gente era davvero entusiasta. A volte mi devo fermare per rendermi conto di quanto sono fortunato ad avere l'opportunità di viaggiare e di essere apprezzato da estranei per quello, che con i miei amici, suoniamo.


Cosa c'è nel futuro della Ben Miller Band? Avremo la possibilità di rivedervi, di nuovo, in Italia?

Siamo costantemente sulla strada, di città in città. Suoniamo, regolarmente, quasi 200 concerti all'anno. Probabilmente, nel mentre i vostri lettori stanno leggendo questa intervista noi saremo in viaggio per andare a suonare da qualche parte. Per quanto riguardo il tornare in Italia, non appena ci sarà possibile di attraversare nuovamente l'Oceano, torneremo anche dalle vostre parti.


Ultima domanda, probabilmente scontata, quali sono gli album che vi hanno influenzato come musicisti e/o persone?

(per nulla banale, in realtà ho davvero apprezzato le tue domande, sono ben formulate ed attinenti alla nostra musica, grazie!)

Per quanto mi riguarda, la prima influenza musicale sono stati i dischi dei miei genitori. Ricordo di aver ascoltato e riascoltato parecchio “The Times They Are A-Changin” di Bob Dylan. Era uno degli lp di mia madre, insieme a quelli dei Beatles, Peter, Paul and Mary, Beach Boys e Creedence Clearwater Revival. Mio padre invece ascoltava album di Flatt & Scruggs, Carter Family, Hank Williams e Johnny Cash. Sono stato davvero fortunato ad aver avuto questi dischi in giro per casa, fin da piccolo.



martedì 21 ottobre 2014

Blue Moon Marquee - Lonesome Ghosts

(Pubblicato su Rootshighway)



Cresciuto musicalmente nei locali notturni canadesi, per poi trasferirsi in cerca di fortuna in quel di New York, il chitarrista Alexander Wesley Cardinal sembra aver trovato, alfine, quest'ultima facendo ritorno nella propria terra natia. Rientrato entro i confini canadesi il nostro, infatti, non solo ha posto le basi del progetto a nome Blue Moon Marquee, incidendo un primo album, Stainless Steel Heart, de facto valvola di sfogo delle proprie ambizioni solistiche, ma ha anche incontrato quella che sarebbe diventata la sua personale "Jass Band", come egli stesso ama definirla, ovvero Jasmine Colette, ballerina e cantante, oggi "convertita" al contrabbasso, al quale aggiunge un minimale set batteristico (grancassa, rullante e charleston) percosso con i piedi. Un "duo che suona come una band", come loro stessi si descrivono, nonché dedito ad una "zingaresca" esplorazione dei più diversi suoni appartenenti alla tradizione musicale dei vicini Stati Uniti, battezzata con il caratteristico nome di "gipsy blues". Composizioni quelle approntate dai due per questo loro primo parto discografico condiviso, nei cui pentagrammi convivono, così, saltellanti ragtimes, melmose vischiosità blues, di deltaica provenienza, seppiate melodie jazz, ariosità western swing e un rauco "vociare" richiamante tanto il primo Tom Waits quanto il sempiterno Dave Van Ronk. Coadiuvati da un ristretto numero di, peraltro pregevoli, musicisti, i due passano pertanto, con nonchalance, dal baldanzoso ragtime pianistico dell'opener What I Wouldn't Do, alle felpate movenze jazz di una Trouble's Calling in cui si avverte l'influenza, specie sull'abilità di fraseggio, alla sei corde, di Cardinal, di un "maestro", peraltro dichiarato, quale Lonnie Johnson; fino alle riflessioni alcoliche di una Scotch Whiskey dove, vuoi per le liquide incursioni dell'hammond di Simon Kendall, sono, altresì, evidenti i rimandi allo Stax Sound forgiato da Booker T e dai suoi M.G.'s. Sembra, al contrario, impregnata del medesimo fumo e alcool del waitsiano Nighthawks At The Diner, la strascicata Sugar Dime, con l'abrasivo talking della voce di Cardinal a ricordare proprio quello del, allora giovane, songwriter di Pomona. E se la rivisitazione di Piperliner Blues, presa "in prestito" dal songbook del pianista Moon Mullican, si attesta sulle medesime coordinate western swing dell'originale, figlia della tanto decantata estetica "gipsy blues" è invece l'esplicativa, fin dal titolo, Gipsy's Life, roca declamazione jazzy, strizzante l'occhio al succitato Dave Van Ronk, alla quale il violino di Cameron Wilson aggiunge un, reinhardtiano, tocco gitano. Un album, Lonesome Ghosts, che ha il notevole pregio di suonare antico ma non stantio, evitando al contempo di cadere nella calligrafica scopiazzatura di spartiti altrui. Immaginate di entrare in un fatiscente night club dove, in mezzo a sciantose ballerine in abiti succinti ed avventori intenti ad affogare i propri dispiaceri nella bottiglia, sono sicuro trovereste, su di un piccolo palco, proprio i Blue Moon Marquee e i loro "fantasmi solitari".



Noura Mint Seymali - Tzenni

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Se la Glitterbeat si è aggiudicata, quest'anno, il Womex Label Award, prestigioso premio riservato alle etichette discografiche operanti nell'ambito della “world music”, qualcosa vorrà pur dire. D'altra parte l'opera di ricerca e pubblicazione di “tesori” nascosti, da parte di quest'ultima ha saputo, fin dai suoi inizi, portare alla luce vere e proprie gemme sonore, estratte da un terreno, quello africano, mai così fervido musicalmente. Dai Tamikrest, a Ben Zabo, passando per il progetto “meticcio” Dirtmusic, sono solo alcuni degli artisti aventi trovato nella casa discografica tedesca un ideale “rifugio”, grazie ad un rapporto d'interscambio culturale alla pari, i cui maturi frutti sonici sono state alcune delle più interessanti release in ambito “world”, pur essendo quest'ultima una castrante e non esaustiva definizione, di questi ultimi anni. Una moderna spedizione etnomusicologica che raggiunge oggi, dopo aver esplorato a lungo il deserto del Mali, anche la vicina Mauritania, terra natia di Noura Mint Seymali. Figlia d'arte, con il padre Seymali Ould Ahmed Vall rinomato musicista, nonché tra i primi fautori di un sistema di annotazione delle melodie arabe, e la matrigna, Dimi Mint Abba, apprezzata cantante, Noura ha iniziato la propria carriera musicale prestando la sua voce, durante i concerti, proprio a quest'ultima, prima di dedicarsi ad una personale “modernizzazione” della musica tradizionale del suo paese natio, attraverso un'ardimentosa commistione con sonorità occidentali, mantenendo tuttavia intatta l'arcaica potenza narrativa dei leggendari griot. Dopo alcune pubblicazioni a livello locale, oggi, con il patrocinio della Glitterbeat, Seymali esordisce, a livello internazionale, con Tzenni, album nel quale, con l'aiuto del marito, ed eccellente chitarrista Jeiche Ould Chighaly, infonde, per l'appunto, nuova vita alle antiche sonorità mauritane. Melodie pentatoniche, caratterizzanti quest'ultime, aventi molto in comune con il blues, in una sorta d'ideale “ponte sonoro” tra i due continenti, africano e americano, ulteriormente enfatizzato dall'apporto percussivo d'una sezione ritmica, composta dalla batteria di Matthew Tinari e dal basso di Ousmane Tourè, dalle palpabili sincopi funk. A tracciare l'abbacinante linea melodica è, altresì, la sei corde elettrica di Chighaly, impegnato anche al tidinite, tra fraseggi arabi e libere digressioni d'acidità bluesy, in un continuo rincorrersi con il risuonare delle corde dell'ardine della stessa Seymali. É tuttavia la voce di quest'ultima, capace d'una straordinaria estensione glottidale, l'autentico fulcro “narrativo”, nel suo mantrico esplicare, in un continuo cambio di registri e tonalità, liriche pregne di tematiche d'antica fascinazione, legate indissolubilmente alle vicende politiche e religiose dello stato sub-sahariano che le ha dato i natali. Lo stesso titolo dell'album, Tzenni, rimanda ad una danza atavica, così come alla rotazione costante della Terra intorno al Sole, all'avvicendarsi del giorno e della notte, in un'ancestrale, catartico, riallacciarsi tribale con i solenni ritmi della terra. Una musica atemporale quella della Seymali, indissolubilmente legata alle sonorità desertiche, ma filtrata e riproposta secondo un'ottica “modernista”, in modo da essere, universalmente, compresa. Musica che abbisogna di un incondizionato abbandono, di un lasciarsi irretire, senza preconcetti, dalle sue avviluppanti trame, per ritrovarsi, una volta terminato l'ascolto, emotivamente e culturalmente arricchiti.


martedì 23 settembre 2014

Hank Shizzoe - Songsmith

(Pubblicato su Rootshighway)



Songwriter dalla spiccata versatilità compositiva, nonché polistrumentista di comprovata bravura, con una predilezione particolare per le corde di vario genere, Hank Shizzoe, al secolo Thomas Herb, giunge oggi a "tagliare" il ragguardevole traguardo del ventennale di una carriera musicale sicuramente non avara di gratificazioni. Tanto, infatti, il tempo trascorso dal suo esordio, avvenuto nel 1994 con il pregevole Low Budget, a tutti gli effetti, nella sua variopinta eterogeneità, ideale manifesto programmatico dello shizzoe-pensiero. Una deliziosa mistura tra anticaglie folk, salmodianti blues prebellici e rusticità rootsy, divenuta ben presto la sua personale, identificativa cifra stilistica, capace non solo di non risultare dispersiva, né derivativa, nella sua multiformità di stili ed influenze, quanto al contrario di conservare intatta, in tutti questi anni, la propria genuinità e freschezza. Un canovaccio sonoro che, sottotraccia, ha quindi caratterizzato l'intera, ed ormai corposa, discografia del chitarrista di Berna, e che ritroviamo, oggi, anche tra i solchi di Songsmith. Frutto di uno sforzo compositivo congiunto con l'amico Stephan Eicher, che ne è anche il produttore, questo nuovo parto shizzoeiano si mantiene infatti sulle medesime coordinate stilistiche dei suoi predecessori, e come quest'ultimi trova la propria ragione d'essere in una libera digressione, autoriale e interpretativa, tra i generi più diversi. Vi è ampio spazio per l'animo cantautorale del nostro, come nella notturna ballata pianistica He Is Not dove a risaltare è la magnetica voce baritonale del titolare, così come nel duetto con l'altrettanto fascinosa vocalità di Shirley Grimes, in una vibrante Light Up tra gli evocativi fraseggi della lap steel e il suggestivo lavorio melodico del bouzouki e del pianoforte. L'inquietante, funereo inizio di The Ghost Of Pain, per sola voce, chitarra acustica e campane a morto, si stempera, infine, nelle atmosfere dilatate di un country desertico d'ascendenza gelbiana, tanto da ricordare in più di un frangente le ultime opere in studio del "Gigante di Sabbia", così come una Planned Obsolescence dall'afflato cameristico, complice la celesta di Reyn Ouwehand. Nell'opener Rocket Ship, al contrario, sono avvertibili rimandi alla reiterate fascinazioni ipnotiche del blues subsahariano dei Tinariwen, in una sorta di excursus sonoro attraverso il deserto del Mali, fino a giungere, sulle note sintetiche di I Talk Too Much, in vista delle luci urbane della Bamako dei Dirtmusic di Chris Eckman e Hugo Race. Di tutt'altro tenore sono invece l'acquerello eelsiano, tra folk e pop d'autore, di Itune (Song For Jony), così come la sagace equiparazione tra i tempi della Grande Crisi e l'odierna situazione economica mondiale di una Like It's 1929 di contagiosa effervescenza swing, seppur in parte inficiata da orrendi inserti strumentali che paiono presi da qualche oscuro b-movie. Splendida nella sua livida introspezione waitsiana è invece la title track, così come decisamente riuscita è la riproposizione della Je Chante del Le Fou Chantant, Charles Trenet, anglicizzata dal nostro in una I Sing dalla trascinante enfasi cabarettistica. Un eclettico artigiano delle corde, Hank Shizzoe, la cui certosina produzione discografica si è mantenuta, fin dall'esordio, sempre su di livelli qualitativi alquanto elevati, come peraltro rimarcato anche dall'odierno, riuscito Songsmith.





martedì 19 agosto 2014

Jonathan Wilson @ Mojotic Festival - Sestri Levante

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Risuonano ancora le ultime note della earliana Guitar Town, come trasportate dal soffiare della brezza marina, in una Sestri Levante che si appresta ad ospitare, nel suo intimo abbraccio, un nuovo appuntamento live targato Mojotic Festival. E se per l'appunto ieri sera un solitario Steve Earle aveva ammaliato una platea adorante con la forza lirica della propria voce, dividendosi tra chitarra acustica e mandolino, accompagnandoci ad esplorare le strade meno battute dell'America di provincia, oggi a prenderne il posto in veste di “guida sonica” sarà Jonathan Wilson, songwriter originario del North Carolina, ma avente trovato nella California, e nella quiete bucolica del Laurel Canyon in particolare, il proprio “habitat” musicale. Tra le colline alle porte di Los Angeles il nostro ha infatti avviato una fervente attività dietro al bancone di regia, fino a diventare uno dei più apprezzati e richiesti produttori odierni, decidendo in seguito di dare sfogo anche alle proprie pulsioni creative, dapprima organizzando jam informali all'interno del proprio studio - in compagnia di amici del calibro di Chris Robinson, Pat Sansone e John Stirratt dei Wilco, solo per citarne alcuni – in un primo passo verso quella che si sarebbe tramutata, di lì a poco, in una carriera solista sbocciata con lo splendido debutto Gentle Spirit, al quale ha replicato lo scorso anno, l'altrettanto riuscito Fanfare. Una musica dal fascino atemporale, quella contenuta tra i solchi di questi suoi, primi, lavori da titolare, pervasa dagli echi lontani della magica stagione musicale vissuta, tra le alture del Laurel Canyon, nei primi anni Settanta. Armonie westcoastiane, debitrici tanto dell'unirsi vocale di Crosby, Stills e Nash, quanto dell'ugola di Jackson Browne, a sublimare un'ammaliante aura folk rock di stampo californiano, si fondono con gli acidi sentori elettrici della vicina San Francisco, dando vita ad una spirale armonica dalla vorticosa estasi allucinatoria. Ed è questa magia sonica che Jonathan Wilson ha saputo ricreare questa sera sul palco del Teatro Arena Conchiglia, in un prolungato, trascendente Big Moon Ritual, giusto per citare il titolo del debutto discografico della Brotherhood capitanata dall'ex “compagno di jam” Chris Robinson, con la quale il nostro presenta più di un punto in comune. A far entrare il copioso pubblico, affollante gli spalti del teatro, nel mood della serata provvede tuttavia Omar Velasco, chitarrista “al soldo” dello stesso Wilson, presentando, solo voce e chitarra alcuni brani tratti dal suo EP, See Lion Run, alternando ad un neo folk proveniente dalle Blue Ridge Mountains delle “volpi di velluto”, inaspettati sconfinamenti sudamericani, con una sentita riproposizione di Alfonsina Y El Mar, in omaggio alla “cantora popular” Mercedes Sosa. Non vi è neanche bisogno di un veloce cambio palco che su di un'inquietante risata in sottofondo Wilson e i suoi sodali guadagnano il proscenio, con subito il tocco morbido sui tasti del piano di Jason Borger, a tessere la gentile melodia di Lovestrong, unico sostegno alla voce di Wilson la cui cristallina, tenue tonalità rimanda, a tratti, a quella del Graham Nash dell'esordio solista, per poi ingaggiare, una volta imbracciata la propria chitarra, quello che sarà solo il primo di una lunga serie di duelli solistici con Velasco, deviando il tutto verso una liquida divagazione di stampo floydiano. Se, già nella loro versione in studio, i brani partoriti dalla penna wilsoniana spiccavano per la loro consistente durata, dal vivo vengono ulteriormente dilatati, tramutandosi in autentiche ondate psichedeliche, a travolgere gli astanti nel loro sciabordante muoversi, tra anfratti di struggente bellezza catartica e acuminate spigolosità strumentali. Ogni brano è come parte di un unico continuum narrativo-musicale, di una jam infinita avente tuttavia come proprio punto di partenza la primigenia struttura armonica e lirica sulla quale i brani medesimi sono stati creati. Una dimensione sonora, quella wilsoniana, dove songwriting e pratica improvvisativa hanno, pertanto, entrambi il medesimo peso specifico, essendo il primo elemento fondamentale per l'esistenza della seconda. Una forma canzone aperta quindi, con la voce di Wilson quale iniziale, luminosa linea guida, a condurci attraverso un inquieto svolgersi narrativo-sonoro, per poi cedere il testimone ad una chitarra elettrica assurgente al ruolo di traghettatrice verso nuovi ed inesplorati mondi improvvisativi. Ne sono esempio una Fanfare dall'evanescente grazia jazzy, così come l'intima spiritualità di una Magic Everywhere, dove le voci di Wilson e Velasco si congiungono magistralmente, con la sedici corde del secondo a contrappuntare la “canonica” chitarra acustica del titolare, in un incedere younghiano rimandante a 4 Way Street, epica testimonianza dal vivo dell'avventura a nome CSNY. Il vellutato pulsare funk di Fazon, vecchio brano dei Sopwith Camel, allucinata compagine operante in quel di San Francisco verso la fine degli anni Sessanta, dà modo al basso di Richard Gowen e alla batteria di Dan Horne di mettersi in mostra in tutta la loro compattezza ritmica., per poi ritornare, invece, con Gentle Spirit, a fluttuare in una nuova materica oasi d'agrodolce quiete. Un'altra concessione al materiale altrui è Angel, estrapolata da Heroes Are Hard To Find dei Fleetwood Mac, e trasformata in una desolata invocazione, con Wilson ad abbandonare per un momento la chitarra per scuotere uno shaker africano, in una sorta di tribale danza sciamanica. Moses Pain era una gemma dalla rilucente bellezza già nella sua versione in studio, ma dal vivo acquista ulteriore caratura, in una corale progressione, dopo un incipit d'introspezione dylaniana, degna del Jackson Browne di Running On Empty. Se dalla San Francisco dei primi anni Settanta i cinque hanno tratto spunto per la rivisitazione della summenzionata Fazon, per il loro modo di vestire sembrano appartenere a qualche comune hippie instauratasi in quel di Haight-Ashbury, quartiere della suddetta città californiana, ai tempi del Flower Power. Qui devono anche aver avuto un reciproco, dopato, scambio di vedute con i “vicini di casa” Grateful Dead, perlomeno ad ascoltare Dear Friend con i fraseggi veloci delle dita di Wilson a ricordare quelli del leggendario Captain Trips, quel Jerry Garcia che dei Grateful Dead era anima e mente, e la cui influenza sul modo di suonare del suo moderno “adepto” si avverte anche nel mistico ondeggiare di Desert Raven, così come in una Valley Of The Silver Moon, assurta ad autentico manifesto del divagare musicale wilsoniano, in quella che è un'ultima, libera cavalcata sonora, dallo straniante magnetismo. Vi è comunque ancora spazio per i bis, con gli addetti del festival a sistemare delle stuoie nello spazio tra palco e spalti, e sulle quali, prontamente, si assiepano gran parte dei presenti. Ora sembra davvero di essere a Watkins Glen o ad uno dei leggendari happening d'inizio anni Settanta, e la musica che scaturisce dal palco ce lo conferma, un'ultima volta, con una Love To Love, più volte invocata dal pubblico, offerta da Wilson come ultimo, prezioso dono da conservare alla fine di questo sfibrante ma incantevole “viaggio” musicale. Più che un concerto, infatti, quello a cui abbiamo assistito, o per meglio dire al quale abbiamo partecipato, questa sera è stato un caleidoscopico trip sonoro collettivo, privo tuttavia d'ogni controindicazione, anzi, al contrario, dispensante ipnotiche quanto corroboranti “buone vibrazioni”.

domenica 10 agosto 2014

Steve Earle @ Mojotic Festival - Sestri Levante

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Tra i sempre più numerosi eventi musicali affollanti, come di consuetudine, l'estate nostrana spiccavano le tre date di un autentico “gigante” della canzone americana, Steve Earle, di certo non un assiduo frequentatore degli italici confini, dai quali mancava infatti da diverso tempo. Tre date in solitario che si preannunciavano non solo come eventi imperdibili, quanto necessari per potersi immergere, appieno, nel songwriting earliano nella sua primigenia, scarna e più pura manifestazione. Una chitarra acustica, un mandolino, qualche armonica e una voce oggi più che mai capace di arrivare a toccare gli spazi più reconditi dell'anima umana; è bastato questo al songwriter texano per stregare, letteralmente, una platea quasi ammutolita, con i racconti, trasposti in musica, di una vita, la sua, ma che potrebbe essere quella di ognuno di noi, irta di traversie, tonfi e risalite, a rivedere finalmente una luce apparsa troppe volte come lontana e irraggiungibile. Un cammino portato avanti sempre sulla parte buia della strada, con fierezza, seppur conscio dei propri errori, raccontando sé stesso e le brutture di un'America ben lungi dall'essere quella nazione dei sogni e delle speranze tanto decantata. Una Low Highway percorsa in lungo e in largo, macinando chilometri su di un nero tappeto d'asfalto, con lo scorrere veloce, al di fuori del finestrino, dei ruderi fatiscenti della società statunitense. Una Low Highway che titola anche la sua ultima fatica in studio, con la cui title track questa sera Earle apre il concerto, prendendoci idealmente per mano, per accompagnarci in un immaginifico cammino a ritroso, attraverso il proprio articolato percorso artistico ed umano. E se 21st Century Blues è anch'essa una cartolina, dalle tinte seppiate, del recente viaggio “autostradale”, una dolente My Old Friend The Blues ci riporta indietro non solo nello spazio, ma anche nel tempo, fino a Nashville, anno di grazia 1986, quando il nostro diede alle stampe il suo debutto, Guitar Town, dal quale ripesca anche un'intensa Someday, ancor intrisa di quella cieca speranza riposta nella fuga dall'aberrante vita di provincia. Ha già conquistato la platea, Earle, la quale non si fa certo pregare quando viene incitata a cantare insieme a lui una straripante I Ain't Ever Satisfied, tanto da fargli affermare, divertito: “Non c'è davvero bisogno di convincere gli italiani a cantare”. É quantomai ciarliero e affabile il nostro, occhiali ben piantati sul naso, giacchetto di pelle su t-shirt e jeans sdruciti e una lunga, incolta barba; una sorta di moderno “hard core troubadour”, giusto per citare un titolo di una sua composizione, stasera peraltro riesumata, contenuta nell'album della sua rinascita artistica e umana, quel I Feel Alright, dal quale attingerà ripetutamente nel corso del concerto, raccontandoci, con il cuore in mano delle sue rovinose cadute, attraverso il picking country blues di un'agrodolce South Nashville Blues, e il sulfureo incedere di una straniante CCKMP (Cocaine Cannot Kill My Pain) a dir poco da brividi nel mettere in luce le debolezze di un uomo scampato per miracolo al demone della droga, cantando infine, con rauco trasporto, della propria ritrovata stabilità fisica ed emotiva in una Feel Alright introdotta dal metallico soffiare dell'armonica. Da I'll Never Get Out Of This World Alive provengono invece una God Is God dalla confessionalità religiosa al limite del gospel, e l'accorata dichiarazione d'amore di una confidenziale Every Part Of Me. Commovente è l'omaggio all'ispiratore e amico di lunga data, Townes Van Zandt, con una sommessa Rex's Blues, eseguita quasi in medley con un altrettanto vissuta Fort Worth's Blues. Abbandonata la chitarra ed imbracciato il mandolino veniamo guidati invece, con una Dixieland dal retrogusto grassy, verso quella “montagna” scalata anni fa in compagnia della Del McCoury Band, per poi attraversare l'Oceano, fino a raggiungere le brughiere irlandesi, sulle leggiadre note della splendida Galway Girl. L'impegno sociale, le battaglie per i diritti civili e le campagne di sensibilizzazione delle quali il nostro è sempre stato tra i più fieri sostenitori, emergono invece nella drammatica narrazione sonora di Billy Austin, preceduta da un ringraziamento alle associazioni umanitarie italiane per il loro fondamentale contributo alla battaglia per l'abolizione della pena di morte, per poi lasciarsi andare ad una ruvida, veloce The Devil's Right Hand, a rimembrare insieme ad una altrettanto sanguigna Copperhead Road il proprio passato rockista. È tuttavia con i bis che il rapporto empatico tra artista e pubblico raggiunge il suo massimo, con Earle a deliziare i presenti con una vibrante Christmas In Washington, preghiera laica rivolta al mai dimenticato Woody Guthrie, cantata in coro da tutti i presenti, prima di far ritorno, per un'ultima volta, con una verace rivisitazione di Guitar Town, a quella Nashville dove, ventotto anni fa, tutto ebbe inizio. Un songwriter ed interprete eccelso, Steve Earle, capace, da solo, con l'ausilio di pochi, essenziali strumenti ed un songbook d'atemporale bellezza, di dispensare emozioni difficili da descrivere a parole, ma di una tale salvifica forza da farci canticchiare, mentre abbandoniamo il teatro ormai vuoto, “I feel alright, I feel alright tonight”.



Calexico @ Monfortinjazz - Monforte d'Alba

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il verde sgargiante delle langhe piemontesi, nel suo fertile saliscendi tra vigneti e noccioli è diventato in questi anni, una suggestiva, cornice naturale per concerti ed incontri letterari. Un binomio quello tra il territorio langarolo e la cultura sul quale è stato creato, recentemente, il festival Collisioni capace di attirare migliaia di persone grazie anche ad una serie di eventi culturali di caratura internazionale. Ancor più longevo di quest'ultimo è tuttavia il Monfortinjazz, nato quasi trentotto anni fa, nel vicino paese di Monforte d'Alba, dall'illuminata idea di un piccolo gruppo di appassionati jazzofili, e tramutatosi nel corso del tempo in uno dei più attesi appuntamenti estivi. Vuoi per la programmazione, oculata e sempre all'insegna della qualità, o per la raccolta location dell'Auditorium Horszowski, piccolo anfiteatro naturale situato nella parte storica del paesino cuneese, la rassegna ha visto negli anni incrementare nel numero un pubblico attento e partecipe. Un cartellone, quello approntato quest'anno, come da tradizione tanto ricco quanto variegato, nella sua apertura verso sonorità “altre” rispetto al jazz. Di fianco a nomi altisonanti quali Paolo Fresu Quintet e la Arto Lindsay Band, con ospite d'eccezione il chitarrista extraordinarie Marc Ribot, trovano così spazio quelli dei Gov't Mule e dei Calexico. Un'occasione più unica che rara quella di poter ammirare, ed ascoltare, il combo guidato da Joey Burns e John Convertino, nell'intimo raccoglimento del succitato Auditorium Horszowski, dove la consueta “barriera” tra artista e pubblico viene meno grazie all'assenza di un vero e proprio palco, accentuando, in tal modo, la vicinanza emotiva e fisica tra le due, opposte, “parti in causa”. Compito di aprire la serata spetta tuttavia ai nostrani Guano Padano, nati inizialmente come valvola di sfogo di alcuni musicisti gravitanti nell'orbita caposseliana ma divenuti ben presto un progetto di maggior compiutezza, con all'attivo due lavori in studio di pregevole fattura, e con un terzo di imminente pubblicazione. Il trio, guidato saldamente dalla sei corde di Alessandro “Asso” Stefana e completato dalla sezione ritmica affidata ai tamburi di Zeno Rossi e al basso di Danilo Gallo, ha saputo egregiamente confermare on stage quanto di buono lasciato trasparire dall'ascolto delle loro opere in studio, in un breve quanto apprezzato set strumentale dove il guano, di provenienza padana, si è più volte sporcato con la sabbia del deserto americano, tra rimandi all'immaginario western morriconiano e sbuffanti digressioni tra country e rockabilly. Un applauso più che meritato saluta quindi l'uscita di scena dei tre, acuendosi ulteriormente quando sul palco appare il settetto di Tucson. La line up è rimasta invariata rispetto alla loro ultima calata italiana, in supporto, dell'allora fresco di pubblicazione Algiers, i cui brani rappresenteranno l'ossatura anche dell'odierna set list, fin dall'apertura, affidata ad una evanescente, quanto insinuante, Epic. Non mancheranno tuttavia alcuni, tanto attesi quanto graditi, “ripescaggi” dal passato, prossimo e remoto, in una sorta d'ideale summa dell'epopea sonora calexichiana, a cominciare dalle roventi sonorità tex mex di Across The Wire, passando per il conturbante passo latino di una sensuale Inspiraciòn, fino all'onirica progressione di una dilatata Two Silver Trees. E se Splitter e una dolente Dead Moon provengono anch'esse dai solchi del summenzionato Algiers, con le pizzicate note inziali di Minas de cobre (For Better Metal) veniamo condotti nuovamente al di là del border, tra le visioni desertiche del seminale The Black Light. E proprio come l'automobile campeggiante sulla copertina di quest'ultimo, i Calexico paiono essersi, sempre più, tramutati in un veicolo sonoro rodato e ben oliato, lanciato in una continua, folle corsa tra la natia Arizona e l'America Latina. Ogni singolo contributo strumentale dei sette è volto infatti ad enfatizzare questo muoversi all'unisono, dando vita ad un evocativo suono “d'assieme” capace di far fluttuare la platea su di estatiche note sospese quanto di coinvolgerla in danze sfrenate. Un muoversi sonico all'unisono ben esemplificato da una magistrale Victor Jara's Hands, resa ancor più emozionante dal cantato in spagnolo di Jacob Valenzuela, così come da una maestosa Crystal Frontier. Piccola quanto inaspettata sorpresa è invece la prima “concessione” live riservata ad uno dei brani che i nostri stanno incidendo in questi mesi in Messico, ovvero una bluesata Bullets And Rocks, invero non ancora del tutto a fuoco, tanto da far confessare allo stesso Burns, una volta conclusa: “Ci stiamo lavorando”. Come in occasione dello scorso tour, dove spiccava la riproposizione della yardbirdsiana For Your Love, anche per questa nuova trance di concerti i nostri hanno deciso di inserire in scaletta una nuova rivisitazione del songbook altrui, appropriandosi, il più delle volte, di Bigmouth Strikes Again degli Smiths, questa sera sostituita dalla dylaniana Senor (Tales Of Yankee Power), già incisa insieme a Willie Nelson per la colonna sonora di I'm Not There, con Burns che, inforcati gli occhiali per leggerne il testo, riesce nel non facile compito di non far rimpiangere proprio la voce dello “straniero dai capelli rossi”, in un'avvolgente rilettura capace di fondere l'epos narrativo dylaniano con gli echi della tradizione musicale messicana. Ardimentoso quanto riuscito è anche il medley tra la melodia sospesa di Not Even Stevie Nicks e le ferali tonalità New Wave di una joydivisioniana Love Will Tear Us Apart, prima che un'incontenibile, con i suoi fulmini stacchi e ripartenze, Alone Again Or - figlia della penna di Arthur Lee ma ormai calexichiana a tutti gli effetti - e una ritmata Puerto - impreziosita dal contributo vocale di Jairo Zavala, autentico mattatore sonico per tutto il concerto nel suo destreggiarsi tra chitarra elettrica e lapsteel - pongano fine al set “regolare”. E se il vento freddo delle colline piemontesi comincia a stuzzicare i presenti, il miglior antidoto lo “somministrano” gli stessi Calexico che, ritornati sul palco, danno il via, con un'infuocata Corona, ad un'autentica fiesta latina, invitando tutti i presenti ad un ultimo scatenato ballo a passo di cumbia sulle note di una corale, irresistibile Guero canelo. Un'acustica pressoché perfetta, una location da mozzare il fiato e i sette di Tucson al massimo della propria forma espressiva, che altro aggiungere al resoconto di una serata memorabile se non... Que viva Calexico!