martedì 21 ottobre 2014

Blue Moon Marquee - Lonesome Ghosts

(Pubblicato su Rootshighway)



Cresciuto musicalmente nei locali notturni canadesi, per poi trasferirsi in cerca di fortuna in quel di New York, il chitarrista Alexander Wesley Cardinal sembra aver trovato, alfine, quest'ultima facendo ritorno nella propria terra natia. Rientrato entro i confini canadesi il nostro, infatti, non solo ha posto le basi del progetto a nome Blue Moon Marquee, incidendo un primo album, Stainless Steel Heart, de facto valvola di sfogo delle proprie ambizioni solistiche, ma ha anche incontrato quella che sarebbe diventata la sua personale "Jass Band", come egli stesso ama definirla, ovvero Jasmine Colette, ballerina e cantante, oggi "convertita" al contrabbasso, al quale aggiunge un minimale set batteristico (grancassa, rullante e charleston) percosso con i piedi. Un "duo che suona come una band", come loro stessi si descrivono, nonché dedito ad una "zingaresca" esplorazione dei più diversi suoni appartenenti alla tradizione musicale dei vicini Stati Uniti, battezzata con il caratteristico nome di "gipsy blues". Composizioni quelle approntate dai due per questo loro primo parto discografico condiviso, nei cui pentagrammi convivono, così, saltellanti ragtimes, melmose vischiosità blues, di deltaica provenienza, seppiate melodie jazz, ariosità western swing e un rauco "vociare" richiamante tanto il primo Tom Waits quanto il sempiterno Dave Van Ronk. Coadiuvati da un ristretto numero di, peraltro pregevoli, musicisti, i due passano pertanto, con nonchalance, dal baldanzoso ragtime pianistico dell'opener What I Wouldn't Do, alle felpate movenze jazz di una Trouble's Calling in cui si avverte l'influenza, specie sull'abilità di fraseggio, alla sei corde, di Cardinal, di un "maestro", peraltro dichiarato, quale Lonnie Johnson; fino alle riflessioni alcoliche di una Scotch Whiskey dove, vuoi per le liquide incursioni dell'hammond di Simon Kendall, sono, altresì, evidenti i rimandi allo Stax Sound forgiato da Booker T e dai suoi M.G.'s. Sembra, al contrario, impregnata del medesimo fumo e alcool del waitsiano Nighthawks At The Diner, la strascicata Sugar Dime, con l'abrasivo talking della voce di Cardinal a ricordare proprio quello del, allora giovane, songwriter di Pomona. E se la rivisitazione di Piperliner Blues, presa "in prestito" dal songbook del pianista Moon Mullican, si attesta sulle medesime coordinate western swing dell'originale, figlia della tanto decantata estetica "gipsy blues" è invece l'esplicativa, fin dal titolo, Gipsy's Life, roca declamazione jazzy, strizzante l'occhio al succitato Dave Van Ronk, alla quale il violino di Cameron Wilson aggiunge un, reinhardtiano, tocco gitano. Un album, Lonesome Ghosts, che ha il notevole pregio di suonare antico ma non stantio, evitando al contempo di cadere nella calligrafica scopiazzatura di spartiti altrui. Immaginate di entrare in un fatiscente night club dove, in mezzo a sciantose ballerine in abiti succinti ed avventori intenti ad affogare i propri dispiaceri nella bottiglia, sono sicuro trovereste, su di un piccolo palco, proprio i Blue Moon Marquee e i loro "fantasmi solitari".



Noura Mint Seymali - Tzenni

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Se la Glitterbeat si è aggiudicata, quest'anno, il Womex Label Award, prestigioso premio riservato alle etichette discografiche operanti nell'ambito della “world music”, qualcosa vorrà pur dire. D'altra parte l'opera di ricerca e pubblicazione di “tesori” nascosti, da parte di quest'ultima ha saputo, fin dai suoi inizi, portare alla luce vere e proprie gemme sonore, estratte da un terreno, quello africano, mai così fervido musicalmente. Dai Tamikrest, a Ben Zabo, passando per il progetto “meticcio” Dirtmusic, sono solo alcuni degli artisti aventi trovato nella casa discografica tedesca un ideale “rifugio”, grazie ad un rapporto d'interscambio culturale alla pari, i cui maturi frutti sonici sono state alcune delle più interessanti release in ambito “world”, pur essendo quest'ultima una castrante e non esaustiva definizione, di questi ultimi anni. Una moderna spedizione etnomusicologica che raggiunge oggi, dopo aver esplorato a lungo il deserto del Mali, anche la vicina Mauritania, terra natia di Noura Mint Seymali. Figlia d'arte, con il padre Seymali Ould Ahmed Vall rinomato musicista, nonché tra i primi fautori di un sistema di annotazione delle melodie arabe, e la matrigna, Dimi Mint Abba, apprezzata cantante, Noura ha iniziato la propria carriera musicale prestando la sua voce, durante i concerti, proprio a quest'ultima, prima di dedicarsi ad una personale “modernizzazione” della musica tradizionale del suo paese natio, attraverso un'ardimentosa commistione con sonorità occidentali, mantenendo tuttavia intatta l'arcaica potenza narrativa dei leggendari griot. Dopo alcune pubblicazioni a livello locale, oggi, con il patrocinio della Glitterbeat, Seymali esordisce, a livello internazionale, con Tzenni, album nel quale, con l'aiuto del marito, ed eccellente chitarrista Jeiche Ould Chighaly, infonde, per l'appunto, nuova vita alle antiche sonorità mauritane. Melodie pentatoniche, caratterizzanti quest'ultime, aventi molto in comune con il blues, in una sorta d'ideale “ponte sonoro” tra i due continenti, africano e americano, ulteriormente enfatizzato dall'apporto percussivo d'una sezione ritmica, composta dalla batteria di Matthew Tinari e dal basso di Ousmane Tourè, dalle palpabili sincopi funk. A tracciare l'abbacinante linea melodica è, altresì, la sei corde elettrica di Chighaly, impegnato anche al tidinite, tra fraseggi arabi e libere digressioni d'acidità bluesy, in un continuo rincorrersi con il risuonare delle corde dell'ardine della stessa Seymali. É tuttavia la voce di quest'ultima, capace d'una straordinaria estensione glottidale, l'autentico fulcro “narrativo”, nel suo mantrico esplicare, in un continuo cambio di registri e tonalità, liriche pregne di tematiche d'antica fascinazione, legate indissolubilmente alle vicende politiche e religiose dello stato sub-sahariano che le ha dato i natali. Lo stesso titolo dell'album, Tzenni, rimanda ad una danza atavica, così come alla rotazione costante della Terra intorno al Sole, all'avvicendarsi del giorno e della notte, in un'ancestrale, catartico, riallacciarsi tribale con i solenni ritmi della terra. Una musica atemporale quella della Seymali, indissolubilmente legata alle sonorità desertiche, ma filtrata e riproposta secondo un'ottica “modernista”, in modo da essere, universalmente, compresa. Musica che abbisogna di un incondizionato abbandono, di un lasciarsi irretire, senza preconcetti, dalle sue avviluppanti trame, per ritrovarsi, una volta terminato l'ascolto, emotivamente e culturalmente arricchiti.