giovedì 30 agosto 2012

El Matador Alegre - S/T

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Un progetto, El Matador Alegre, fondato sulla più pura e libera ricerca sonora, all’interno della quale far confluire in egual misura lievità alternative folk e sperimentazione ritmica scalfita da un’indietronica composita e minimale, alle quali si aggiungono barlumi grunge che paiono provenire dalla Seattle dei primi anni ’90, riveduti e corretti grazie ad un trattamento a base di loop e campionamenti. Dodici gli episodi sonori che compongono l’omonimo debutto del compositore e produttore, attraverso i quali, partendo da un substrato ritmico votato al minimalismo, si dipana un songwriting in bilico tra eteree melodie e complicate trame effettistiche, in quest’occasione non semplice corollario armonico ma bensì elemento essenziale nella creazione del mood sonoro dell’intero album. A questo va ad aggiungersi un profondo lavoro svolto sulla voce, o sarebbe meglio dire sulle parti vocali, vista la numerosa presenza di quest’ultime, tutte ad opera dello stesso autore, trattate con i più disparati filtri ed effetti, ma capaci di mantenere al contempo intatto il proprio lirismo. L’anima alternative folk del progetto emerge in brani come l’introspettiva Same Day Last Year, che si sviluppa grazie ad un riff chitarristico perpetuato costantemente per quasi sei minuti, con la voce che pare quasi un sussurro sullo sfondo; o nell’incedere di una Moths nella quale ad essere padrona della scena è la chitarra acustica, attorniata da ottimi intrecci vocali. Chitarra acustica che torna a fare bella mostra di sé anche in New Year, su di un impianto ritmico-melodico rallentato ed ipnotico, che deve molto a certo slowcore d’oltreoceano. Se Sunny Attic è un esercizio sonico in puro stile synth pop, in Back a colpire è una riuscita commistione tra noise ed beat hip hop. Ultima menzione per la divertente e sbilenca marcetta di Peanut Butter, vero e proprio divertissment, nonché piccola digressione verso nuovi ed affascinanti territori sonori. Un debutto forse strano, sicuramente non immediato, che necessita senza ombra di dubbio di un ascolto attento, in modo da poter gustare appieno le sue variegate sfumature melodiche e ritmiche.

giovedì 16 agosto 2012

Bruce Gerrish and the Shinolas - Quirkophony

(Pubblicato su Rootshighway)

"Meglio tardi che mai", è più che lecito pensare durante l'ascolto di Quirkophony, debutto discografico a nome Bruce Gerrish. Il canadese d'adozione, ma americano di nascita, non è infatti un novellino, avendo sulle spalle una carriera più che trentennale, ma arriva solamente ora al tanto ambito traguardo dell'opera prima. Musicista eclettico, il nostro, alterna alla propria attività di songwriter e perfomer, quella di testimonial per l'azienda di prodotti musicali Mackie and Digitech, per conto della quale ha tenuto svariate clinic anche qui nel vecchio Continente. Quello che ci interessa maggiormente della sua personalità musicale è ovviamente il primo aspetto, quel songwriting sbocciato in tenera età e affinato con il trascorrere del tempo, complice anche una vita passata in larga parte sulla strada. Anni intensi, con la fedele chitarra come unica compagna di viaggio, nel corso dei quali tante facce e tante storie sono sfilate di fronte al cantautore, originario del Minnesota. Storie che Gerrish ha interiorizzato per poi trasporle su pentagramma, dando vita a una manciata di composizioni andate infine a comporre l'ossatura di Quirkophony. Il risultato di questo lungo lavoro di scrittura sono tredici brani che attingono in egual misura al country, al roots rock e al Texas Swing, a testimoniare come le radici musicali del nostro siano ben salde nella tradizione del proprio paese d'origine. Già nell'opener I wanna new life, con lap steel e mandolino subito in bella mostra e dal più che contagioso refrain, o nella galoppante ed elettrica Man down, emerge la sua predilezione per sonorità country roots, ricordando in più di un frangente quel Robert Earl Keen, con il quale Gerrish sembra avere ben più di un'affinità. Definite maybe e You don't know shit from Shinola, virano invece verso il Texas Swing: nella prima sono il piano e la lap steel a dettare il tempo, mentre nella seconda ampio spazio viene lasciato a una sezione fiati in grande spolvero. Fiati che ritroviamo, questa volta tuttavia d'impronta mariachi, anche in I said I do but che, con tanto di fisarmonica, pare scritta per essere suonata in qualche dimenticato bar di Tjiuana. Il lato cantautorale di Gerrish emerge invece quando i tempi si rallentano, come nella buffettiana e solare, fin dal titolo, A sunny place for shady people, o nella ballata notturna, per sola chitarra acustica e piano, Tonight, che rimanda al Lyle Lovett più intimista. Le influenze musicali di un lungo soggiorno in quel di New Orleans si avvertono nel folle esperimento sonoro di Jumbo shrimp, nella quale le gioiose atmosfere della "Big Easy" si fondono con stilemi country, un po' come se Willie Nelson e la sua Family Band si unissero, durante i festeggiamenti del Mardi Grass, in una scatenata jam ai fiati della Dirty Dozen Brass Band. Al termine di quest'ultima, quasi in sordina, compare un'inaspettata ghost track, un piccolo reprise acustico di A sunny place for shady people, capace di superare di gran lunga in bellezza ed intensità quella presente nella tracklist "ufficiale" dell'album. Un disco onesto e sincero Quirkophony, che si avvale del contributo di un nugolo di validi strumentisti, riuniti sotto il nome di The Shinolas, sapientemente diretti dall'esperto produttore Bill Buckingham. Un nome da appuntarsi per il futuro, quello di Bruce Gerrish, nella speranza di non dover aspettare altri trent'anni prima di poter ascoltare una sua nuova produzione.

martedì 7 agosto 2012

Giant Giant Sand - Tucson

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


L’afa insopportabile che attanaglia da giorni anche il solitamente ventilato paesino collinare dal quale il sottoscritto scrive, pare porre le giuste condizioni ambientali per immergersi nell’ascolto di Tucson, ultima opera discografica a nome Giant Sand, o per meglio dire Giant Giant Sand. Il desertico combo capitanato dall’eclettico Howe Gelb infatti non solo torna sulle scene raddoppiando la propria ragione sociale, ma al contempo da alle stampe quella che, dalle stesse note di copertina, viene definita come una “country rock opera”. Un progetto in cantiere da parecchio tempo ma che per essere portato a compimento necessitava dell’apporto di una nutrita schiera di ospiti, andati ad affiancare per l’occasione l’originario nucleo giantsandiano. Accanto al manipolo di musicisti danesi, che da qualche tempo accompagnano Gelb, troviamo infatti Lonna Kelley (in passato comunque già collaboratrice della band), la pedal steel di Maggie Bjorklund, i mariachi Brian Lopez, Gabriel Sullivan e Jon Villa, e ultimo ma non meno importante un nuovo innesto danese, una sezione d’archi proveniente da Aarhus. Innesti quest’ultimi quanto mai azzeccati, visto che quest’ancor più gigante “Gigante di sabbia”, è riuscito nel non facile intento di trasporre su pentagramma la storia sulla quale poggia l’intero lavoro. Tucson narra infatti le vicende di un uomo che, stanco di una vita senza prospettive, decide di lasciare i propri affetti e i propri beni terreni per intraprendere un viaggio alla ricerca di sé stesso tra Arizona e Messico, tra saloon, bordelli e prigioni. Una storia avvincente, che Gelb musica al meglio mettendo sul piatto quelle sonorità per le quali è universalmente riconosciuto. Proprio per questo “Tucson” può essere considerato una sorta di summa del suono giantsandiano, esplorato in questo frangente fin nei suoi più oscuri e nascosti meandri. Un lavoro che incanta fin dalla traccia d’apertura, Wind Blow Waltz, un sabbioso ed avvolgente valzer suonato in punta di dita. Se Forever And A Day, con il grido liberatorio “Good luck suckers, I’m on my way”, rappresenta per il protagonista della storia un taglio netto con il proprio passato, con la successiva Detained ci si addentra sempre più in sonorità di stampo mariachi, permeanti la quasi totalità dell’opera. Il country desertico di Lost Love è invece un acquerello elettroacustico di stupefacente bellezza, mentre in Plane Of Existence ad emergere è l’espressività dell’ugola gelbiana, ben contrappuntata da pedal steel, fiati e sezione d’archi. Undiscovered Country, così come Slag Heap, paiono strizzare l’occhio all’opera dei due ex pards Joey Burns e John Convertino, anche se in questo frangente a far nuovamente la differenza è la verve interpretativa di Gelb. Se invece vi siete mai chiesti cosa avrebbe suonato Johnny Cash dopo un soggiorno in territorio messicano, la risposta è Thing Like That, sentire per credere. Il contributo degli ospiti si fa poi ancor più tangibile prima in Love Comes Over You e poi in The Sun Belongs To You. La prima è un’onirica ballata, parto della mente di Brian Lopez impegnato anche al canto, mentre la seconda, tra reminescenze tex mex e sentori irish, è opera di Gilbert Sullivan. Si ritorna in terra messicana con la ritmata Carinito, prima di passare a quella che può essere considerata una piccola, quanto inattesa, gemma. Out Of The Blue faceva infatti parte della suite composta da Robbie Robertson per il seminale The Last Waltz. Forse è un brano poco conosciuto tra i tanti capolavori sfornati dalla leggendaria The Band, ma conserva tuttora la sua purezza sonora, qui ulteriormente accentuata dalla strepitosa rilettura a più voci fatta da Gelb e soci. Diciannove sono gli episodi sonori che compongono l’opera, ed ognuno di essi meriterebbe di essere menzionato, anche solo per il ruolo svolto nel creare un continuum narrativo sonoro, solido e al contempo intrigante. Un album praticamente perfetto Tucson, del quale si potrebbe dissertare per ore senza riuscire comunque a descriverne appieno la magnificenza. Se tuttavia fossi costretto a riassumere il tutto in poche e semplici parole, ne basterebbero solamente tre; Disco dell’anno!