domenica 21 dicembre 2014

Melissa Ruth and the Likely Stories - Riding Mercury

(Pubblicato su Rootshighway)


Diciassette microfoni posti davanti alla batteria, due diversi bassisti, il proprio marito alla sei corde elettrica, una bottiglia di whiskey e l'amata Guild Guitar del 1958 al suo fianco; tanto è servito a Melissa Ruth per "catturare" su nastro l'essenza primigenia dei brani andati infine a comporre Riding Mercury, sua terza prova in studio. Un lavoro che ricalca quanto di buono mostrato dal precedente Ain't No Whiskey, deciso scarto di lato stilistico rispetto al debutto Underwater And Other Places, ben più ancorato ad acustiche trame country folk. Per il suo nuovo parto artistico la Ruth opta, infatti, come già avvenuto nella precedente release per sonorità ancor più pregne d'elettricità, tra cupa tribolazione blues e notturna confessionalità jazz. Accompagnata anche in questo frangente dalle "Storie Piacevoli" ovvero un combo a conduzione "familiare" nel quale figurano il già citato marito, Johnny Leal, alla chitarra, e il di lui fratello Jimmy alla batteria, ai quali si aggiungono in questo frangente, alternandosi al basso, Rick DeVol e Scoop McGuire, la Ruth, oltre a dedicarsi a un, più che notevole, lavorio di songwriting, e a padroneggiare chitarra elettrica, banjo e tastiere, si fa qui carico anche del ruolo di produttrice, in partnership con Don Ross. Registrati in analogico, con tutti i musicisti chiusi in un'unica stanza, i brani qui acclusi mantengono, in tal modo, intatta la propria forza lirica, ulteriormente accentuata dalla tormentata voce della Ruth, intrisa della rabbia e della disperazione di un periodo della propria vita non facile, segnato da perdite familiari e da profondi dolori privati. Una vocalità, la sua, accostabile tanto a quella, meno roca, di una giovane Lucinda Williams, quanto ad una Ani DiFranco più introspettiva e meno barricadera, in grado di emergere, in tutta la propria, calda espressività, in brani dalla maggior dilatazione armonica, come nel pervasivo slow blues Summer Nights In New Orleans, nel respiro soul di Your Love, impreziosita dai limpidi fraseggi della chitarra di Leal, o nel crucciarsi amoroso di una stentorea, supplichevole Who's Your Lover?. Non mancano tuttavia episodi di più marcata dinamicità, come la sfuriata bluesy dell'opener What I Got, che non avrebbe sfigurato sull'ultimo, stupendo, disco della stessa Williams, o il puntato shuffle A Letter, fino alla ritmata sarabanda, con la comparsa del trombone di Talon Nansel, di High Brow Blues, dove più evidenti sono, a livello vocale, le assonanze con la DiFranco. Il rallentato, drammatico svolgersi della lunga title track, posta in chiusura, è invece l'occasione, per la Ruth, di profondersi in un'ultima, straziante prova vocale. Giunta al tanto ambito, quanto rischioso, terzo album, Melissa Ruth mostra un'invidiabile maturità stilistica ed interpretativa, tale da permetterle di fuoriuscire dal "popolato" gruppo delle "promesse" ed entrare a far parte del, all'incontrario, ristretto novero delle più solide, nuove realtà del songwriting americano.




Dirtmusic @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«Tante persone, tante lingue; una musica, una strada», spiega Hugo Race dal palco del Raindogs, e migliori parole non avrebbe potuto trovare il songwriter australiano per descrivere l'idea alla base del progetto Dirtmusic. Una ‘sporca’, cosmopolita entità musicale quest'ultima, fautrice d'una nuova, modernista concezione di world music, figlia d'un approccio democratico e partecipato, in un dialogo aperto tra elettroniche trame occidentali e l'arcaica fascinazione dei ritmi e delle melodie dell'Africa subsahariana. Una strada sulla quale il nostro, in compagnia dell'amico Chris Eckman, si è, in passato, incamminato con destinazione finale Bamako, capitale di un Mali allora, come oggi, squassato da un'intestina guerra civile, dove, grazie all'incontro con un nutrito gruppo di musicisti locali, hanno visto la luce una serie di sorprendenti album, in un, riuscito, intento di creare una “musica globale”, in grado, grazie ad un universale linguaggio sonico, di travalicare ottundenti barriere mentali e fisiche. Musica quale unico mezzo per avvicinare ed unire culture e storie molto diverse tra loro quindi, come d'altronde ha scritto Samba Touré, uno dei musicisti coinvolti nel progetto, nelle liner notes di Troubles, «La musica è molto, molto importante. Oggi è praticamente tutto quello che abbiamo». Musica, quella a nome Dirtmusic, divenuta quindi ideale canale comunicativo attraverso il quale far conoscere al mondo il dolore e la frustrazione del popolo maliano, così come del continente africano tutto, in un rabbioso grido di dolore, a denti stretti, a denunciare le oppressioni perpetuate dalla cieca efferatezza dei fondamentalismi religiosi, ma anche portatrice di un'utopica speranza in un futuro di più radiosa pace. Un messaggio che Eckman e Race hanno deciso di portare sui palchi di mezza Europa, impegnandosi in una serrata serie di impegni live, tra i quali spiccava, è proprio il caso di dirlo, un'unica data italiana, in quel di Savona. Un'occasione tanto rara quanto imperdibile quindi per poter assistere, dal vivo, ad un incontro tra due mentalità, musicali e non, tanto diverse quanto altrettanto simili tra loro. Accompagnati per l'occasione dal fenomenale polistrumentista Baba Sissoko e dall'altrettanto versatile Moussa Coulibaly, Eckman e Race si sono così palesati sul palco del Raindogs per dispensare ad una nutrita platea, una ben studiata “panoramica” della produzione discografica a marchio Dirtmusic. Un quartetto capace non solo d'incantare i presenti con una performance d'ipnotica trascendenza, quanto di non far avvertire la ben che minima mancanza del folto organico di strumentisti presenti tra i solchi degli album in studio. Non solo Race ha saputo ovviare in parte al “problema” di ridimensionamento della line-up, attraverso una sapiente gestione dei loop, della quale hanno tratto particolare giovamento, ma non solo, i brani contenuti nel recente, sintetico Lion City, ma gli stessi Sissoko e Coulibaly si sono fatti carico, egregiamente, della “componente” africana, regalando momenti di pura astrazione mistica. Guidati dalle sei corde di Race e di Eckman, quest'ultimo quanto mai ineccepibile nel creare un continuo, elettrico flusso cosmico, pregno di distorsioni ed effetti, i quattro hanno dato vita ad un collettivo, cinematico profluvio di suoni, rumori e battiti, con il pubblico coinvolto, come rapito, in una sciamanica danza. Un'empatia quella instaurata tra palco e platea, ideale amplificazione di quella tra i quattro musicisti, più d'una volta lasciatisi andare a grida, tanto d'incitamento quanto d'approvazione per i rispettivi interventi strumentali, fino ad autentiche risate d'incontenibile gioia, testimonianza di quanto essi, per primi, si stessero divertendo. Non vi sono frontman sul palco, ognuno riveste un ruolo fondamentale, ed ognuno ha a disposizione il medesimo spazio strumentale e vocale. Proprio l'alternarsi e l'intrecciarsi delle quattro voci è stato uno dei tratti peculiari dell'intero concerto, con le vocalità scure e magnetiche di Race ed Eckman a fondersi con l'enfatico salmodiare di quelle di Sissoko e Coulibaly, a rievocare l'opera dei leggendari cantori africani, i griots. Il tutto su di un substrato sonoro ricco e variegato, grazie anche al risuonare delle corde del ngoni di Sissoko, del quale è un autentico virtuoso, ideale contrappunto armonico alle due “canoniche” chitarre; ed al caleidoscopico percuotere tribale del balafon di Coulibaly. Un vibrante excursus sonoro che ha saputo toccare la quasi totalità degli album sin qui pubblicati, a cominciare da BKO, dal quale vengono riesumate una dilatata Smokin' Bowl ed una Black Gravity, dalla distorcente ruvidità, dove il balafon sopperisce egregiamente alla mancanza della spinta propulsiva dell'originaria sezione ritmica maliana. Da Troubles arrivano invece l'incedere ossessivo della title track, declamatorio african blues, affidato all'ugola di Eckman, nel quale aleggia lo spirito di Ali Farka Touré; un'algida Fitzcarraldo, quantomai sintomatica della, riuscita, unione tra antico e moderno, tra Africa ed Europa, ed una tesa e nervosa Take It On The Chin, con Sissoko a sedersi dietro un minimale drum set. Dall'ultimo parto artistico, Lion City, proviene invece la conclusiva, plumbea Clouds Are Cover, dove su di poliritmici incastri percussivi, tra il rimbombare sintetico dei loop e l'ancestrale battito dello djembèe di Coulibaly e del tamani di Sissoko, si insinua l'evocativo talking di Race. Richiamati a gran voce, i quattro non si fanno pregare, e tornano sul palco per “riportare tutto a casa” con la desertica, ammaliante ballata Bring It Home, lungo quella, succitata, sabbiosa strada grazie alla quale l'Africa e il Mali non sono mai stati così vicini come questa sera.




domenica 14 dicembre 2014

Ben Miller Band - Anyway, shape or form

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


È un'autentica dichiarazione d'intenti, fin dal titolo, il secondo album della Ben Miller Band, a rimarcare, perentoriamente, una naturale predisposizione a ricorrere a qualsiasi mezzo necessario pur di creare e trasmettere la propria musica. Una “filosofia sonica” che, fin dal loro esordio Heavy Load, ha visto il trio del Missouri rivolgere la sua attenzione alle radici musicali del proprio paese, estirpandole per poi ripiantarle in un più moderno, personale, humus sonoro, come ben si evince, fin dal primo ascolto, in questo loro nuovo parto discografico. Edito dalla prestigiosa New West e registrato in quel di Nashville, sotto l'egida del produttore Vance Powell(già al lavoro, tra gli altri, con Jack White e Wanda Jackson), Anyway, Shape Or Form, infatti, vede ulteriormente accentuarsi l'irriverente verve del trio, riuscendo, nel non facile intento, di suonare al contempo antico e moderno. D'altra parte la persona miscela approntata dai nostri, e battezzata, orgogliosamente, con il nome di Ozark Stomp, nasce da un continuo mescolarsi di suoni, stili e generi, in un salto musico-temporale, dove il folk appalachiano, proveniente proprio dalle succitate Ozark Mountains, viene sporcato con il fango del Delta del Mississippi, per poi essere diluito con l'afflitta indolenza del country, il tutto grazie ad un approccio dalla materia tradizionale caratterizzato da una lucida follia interpretativa. Un'atemporalità sonora riscontrabile anche nell'armamentario strumentale al quale i tre fanno ricorso, con vetusti strumenti provenienti proprio dalla tradizionale musicale afroamericana, ma dai nostri rivisitati, personalizzati nonché elettrificati. Alle classiche sei corde, acustiche ed elettriche, affidate alle sapienti mani di Ben Miller, il quale si diletta a martoriare con foga, e a più riprese. anche una cigar box ed un banjo, si affiancano il costante pulsare del washtub bass (basso ad una corda ottenuto infilando un bastone dentro ad una vecchia tinozza per bucato) di Scott Leeper e la washboard e i cucchiai di Doug Dicharry. Un nutrito “arsenale” attraverso il quale dar sfogo alle proprie “inquietudini” musicali, quindi, in una delirante digressione in arcaici territori di matrice bianca e nera. D'ascendenza bianca sono, senza dubbio, l'opener The Outsider, così come Ghosts, figlie illegittime della old time music echeggiante ancor oggi dalle Ozark Mountains, con il picking furibondo, sul banjo, di Miller ben sostenuto dagli sgangherati battiti percussivi dei suoi due compagni. Si respira, al contrario, l'aria delle colline del Mississippi in Hurry Up And Wait, in un rutilante vortice hill country blues dove l'ossessività ipnotica di RL Burnside, incontra la debordante schizofrenia, al limite del punk, degli Hillstomp; per arrivare, infine, a lambire il torrido Texas, patria di un altro trio, ben più barbuto dei nostri, gli ZZ Top di Billy Gibbons, con il sanguigno boogie You Don't Know. Di tutt'altro tenore è, invece, I Feel For You, d'agrodolce afflato country, arricchita dai dilatati fraseggi di una pedal steel. Country che ritroviamo imbastardito dal verace soffiare bluesy di un'armonica, anche in Life On Wheels, frenetica proprio come una “vita sulle ruote”, a macinare chilometri su chilometri, di città in città, lungo sterminate highway. Notevoli, pur nella loro atipicità, sono la vivace 23 Skidoo, a metà strada tra il western swing degli Asleep At The Wheel e un'euforica sarabanda in puro stile dixieland, ed il corale, ubriaco, valzer, in salsa mariachi, di Prettiest Girl. E se i nostri attingono direttamente alla summenzionata materia tradizionale, con una personale rivisitazione della ballata The Cuckoo, fagocitata e qui risputata sotto forma di un contorto salmodiare folk d'apocalittica elettricità, la chiusura dell'album è appannaggio, invece, del solo Miller e della sua sei corde acustica, con una King Kong di dimessa mestizia folkie. Nella sua multiforme varietà stilistica, Anyway, Shape Or Form, non solo rappresenta un'ideale summa della veemente estetica sonora del trio del Missouri, ma è allo stesso tempo una delle più genuine uscite, in ambito rootsy, di quest'anno.



Hardin Burns - Down the deep well

(Pubblicato su Rootshighway)


Il crowdfunding pare essere diventato, in questi giorni di recessione economica, una delle pratiche più diffuse, in ambito musicale e non, perlomeno a giudicare dal proliferare delle "piattaforme" atte ad ospitare progetti culturali tra i più diversi. E' tuttavia alquanto avvilente vedere sempre più artisti costretti a chiedere un "finanziamento dal basso" per poter dare alle stampe i loro sforzi creativi, anche se tale sistema di sovvenzionamento sembra essere in alcuni casi l'unica risorsa, visti i sempre più ridotti investimenti dell'industria discografica. Non si è voluto esimere da questa collaudata pratica, anche la sigla "a due" formata da Andrew Hardin e Jeannie Burns, i quali, per poter fisicamente realizzare il seguito di Lounge, buon debutto di coppia pubblicato nel 2012, hanno deciso di ricorrere ad Indiegogo. Fissato il classico "traguardo" da raggiungere, si sono pertanto affidati al buon cuore della rete, e tale fiducia sembra essere stata ben riposta visto che in poco tempo la somma preventivata è stata raccolta, e l'album ha così potuto vedere la luce. Registrato in quel di Austin, Down The Deep Well beneficia senza dubbio della libertà espressiva donatagli da una realizzazione "autartica", attestandosi al contempo sulle medesime coordinate stilistiche del suo predecessore, ovvero un colorato patchwork Americana, dalle dense colorazioni blues. A primeggiare, per pulizia di tocco ed abilità di fraseggio sono le sei corde, elettriche ed acustiche, dello stesso Hardin, attorniato da uno ristretto novero di abili strumentisti, ovvero David Carroll al contrabbasso, Dony Wynn alla batteria e Gabriel Rhodes intento, oltre a produrre il tutto, a disimpegnarsi tra accordion, tastiere e chitarra elettrica. Un impasto elettroacustico sul quale spicca la melanconica vocalità della Burns, in grado di spaziare su più registri, passando dal talking country della funerea The Call al flebile sussurrare della soave Gentle Rain. Dal canto suo Hardin, avvicendandosi davanti al microfono, ottiene rimarchevoli risultati, specie nella title track, sussultante swamp blues, venato di gospel, rilasciando al contempo un assolo degno del più ispirato Tony Joe White. E' tuttavia quando le voci dei due titolari si alternano e si armonizzano che ci troviamo di fronte ai momenti migliori dell'album, quali la speranzosa Blooming, il fremente rock'n'blues Run, o l'elettrico trascinarsi bluesy dell'enfatica Ache. In Back Porch, la chitarra di Hardin pare invece ricordarsi dei propri trascorsi al fianco di Tom Russell, con lo spazzolare della batteria e l'accordion di Rhodes a profumare il tutto con gli aromi del border messicano. Vi è spazio anche per una nuova rivisitazione del songbook altrui (su Lounge era presente la harrisoniana Beware Of Darkness) ovvero Walkin On A Wire, tra gli apici compositivi di Richard Thompson, e qui riletta, dal duo americano, con l'apporto vocale di Terry Burns, in un più scarno, ma non meno emozionante, arrangiamento. Composizioni ben scritte, ed interpretate, quelle contenute in Down The Deep Well, una meritata, ricompensa per coloro che hanno creduto nel talento autoriale della coppia, contribuendo attivamente alla sua nascita, ma che saprà solleticare altresì le orecchie degli appassionati dell'Americana nelle sue più varie ramificazioni.




The Devil Makes Three - I'm a stranger here

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«C'è sempre una strada che si allontana da ogni città, tutto quello che dovete fare è percorrerla», spiega Pete Bernhard, chitarra, voce nonché mente dietro al progetto The Devil Makes Three. Una di queste strade si trova, certamente, anche alla periferia di Brattleboro, piccola, sperduta cittadina nel Vermont che ha dato i natali al trio, ed è proprio quest'ultima che i nostri hanno deciso di percorrere, imbarcandosi in un personale, itinerante medicine show d'altri tempi, fino a giungere nella "terra promessa" steinbeckiana, l'assolata California. Sembrano proprio tre moderni ‘hobo’, erranti girovaghi nella più profonda America rurale, tra treni merci, dissestate ‘rural route’ e i più disparati, anacronistici personaggi. Un vagabondare musicale dal quale hanno tratto senza dubbio ispirazione, apprendendo fatti, storie e leggende oltre alle arcane sonorità folk ancor bene radicate nelle sterminate campagne statunitensi. Garage-y time, punkfied blues; queste le definizioni date dallo stesso trio per descrivere il loro energico, stringato ed essenziale amalgama elettroacustico, la cui incontenibile vitalità risiede nel rustico vibrare delle corde più varie, siano esse quelle della chitarra del già menzionato Bernhard, del banjo di Cooper McBean, o di quelle ben più corpose del contrabbasso di Lucia Torino, così come in un delirante intrecciarsi di voci, profumante d'antico. Fuoriusciti dal medesimo, fervido "filone revivalistico" di altri sciamannati quali Old Crow Medicine Show, Hackensaw Boys e Pokey LaFarge, i The Devil Makes Three hanno saputo ritagliarsi, nel tempo, un proprio, sicuro pertugio in una, sempre più, brulicante scena Americana, arrivando non solo al ragguardevole traguardo del quarto disco, ma debuttando, con l'odierno I'm A Stranger Here, per la prestigiosa etichetta New West Records. Impresso su nastro in quel di Nashville, presso il celeberrimo Easy Eye Studio di proprietà di Dan Auerbach, questo nuovo lavoro mostra una combo ben conscio delle proprie potenzialità, affinate tra la polvere dei molti chilometri percorsi in quest'ultimi anni, ed oggi capace di dare alle stampe la sua opera più matura e ragionata, priva di cadute di stile o tono, in un febbrile barcamenarsi tra i più diversi dettami della tradizione musicale americana. E se l'intera ossatura strumentale è frutto del lavorio delle dita dei tre titolari, non mancano tuttavia fondamentali contributi esterni, quali la batteria di Marco Giovino e il violino di Casey Dreissen. Proprio l'archetto di quest'ultimo è assoluto protagonista, con guizzanti fraseggi, in una Dead Body Moving d'arrembante irruenza grassy, così come nell'accorata A Moment's Rest, valzer old timey, dove evidenti sono le assonanze con i "colleghi" Old Crow Medicine Show. Marco Giovino, dal canto suo, porta in dote un marcato, sbuffante rollio ritmico ad innervare una, ben più elettrica, Hand Back Down, libera interpretazione del paludoso ‘swampy sound’ marchiato Creedence Clearwater Revival. E' senza dubbio al folk d'ascendenza bianca che il terzetto sembra guardare con maggior attenzione, accostando ad una contagiosa "gioiosità" melodica, liriche d'amaro livore, come nella torbida Stranger, autobiografica narrazione della sradicata vita del musicista, sempre in viaggio di città in città, di concerto in concerto, privo di un luogo da poter chiamare "casa"; o nella rilucente gemma dixieland Forty Days, con tanto di soffiare jazzy dei fiati della Preservation Hall di New Orleans, tristemente ispirata proprio dalla devastazione subita dalla cittadina della Louisiana in seguito al passaggio dell'uragano Katrina, così come dal drammatico straripamento del corso d'acqua attraversante la natia Brattleboro. Si rifà invece alla lezione impartita dal leggendario Hank Williams, Spinning Like A Top, spavaldo honky tonk, venato di swing, con i nostri ad improvvisarsi novelli Drifting Cowboys, per poi provare ad analizzare il traumatico passaggio dall'infanzia all'età adulta in una spigliata Worse Or Better. E se l'indiavolato country gospel di Hallelu, dal sublime, fervente vociare devozionale, guarda da vicino quanto fatto di recente da Pokey LaFarge, Goodbye Old Friend, posta in chiusura, mostra invece il lato più riflessivo del trio, in una, quasi, impalpabile slow country ballad, ‘sporcata’ da elettriche aperture cosmiche. Che altro aggiungere? Ah si, produce, e partecipa attivamente con la propria chitarra, Buddy Miller, come dire: un nome, una garanzia. Un impeccabile compendio, in chiave modernista, di quella ‘vecchia sporca America’ descritta da Greil Marcus, I'm A Stranger Here, da, seguendo le istruzioni stampigliate sulla copertina, «play on all talking machine», meglio ancora se su un vecchio grammofono.



venerdì 5 dicembre 2014

Eric Sardinas & Big Motors @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Aveva lasciato un ricordo, è proprio il caso di dirlo, incendiario, Eric Sardinas, nella sua precedente sortita savonese, con la sua chitarra resofonica letteralmente data alle fiamme davanti ad un pubblico allibito di fronte ad una così veemente furia performativa. Un infuocato espediente scenico, quest'ultimo, a rendere ancor più bollente un live act dove la protagonista indiscussa rimane , per l'appunto, la sua sei corde, seviziata e tormentata senza remora alcuna, con o senza slide, in un torrido, grezzo rifferama bluesy, figlio bastardo di quello del fu grande Elmore James. Non stupisce quindi, questa sera, di trovare un Raindogs, nonostante l'allerta meteo incombente su Savona, alquanto affollato, tra reduci del passato concerto ligure del nostro, e nuovi avventori, incuriositi dagli entusiastici racconti dei primi, pronti ad accogliere il ritorno del chitarrista americano, in tour per presentare Boomerang, suo ultimo lavoro in studio. Ad aprire la serata sono i liguri Snake Oil Limited, saldamente guidati dal carismatico cantante Dario Gaggero, il quale, per movenze e timbro vocale, ricorda tanto la folle visionarietà di Captain Beefheart quanto l'imponente ululare di Howlin Wolf. Paragoni scelti non a caso, visto che Gaggero, ben accompagnato da un compatto terzetto elettrico, saccheggerà a più riprese proprio il repertorio del Lupo Ululante, prima con una demoniaca Evil, frequentata in passato anche dallo stesso Capitano Cuore di Manzo, e poi con una cavernosa Who's Been Talking?, in bilico tra i ritmi tribali del voodoo e sulfuree aperture jazzy. Notevoli anche le riprese diddleiane di una The Greatest Lover In The World, che il cantante interpreta come avrebbe potuto fare un giovane Elvis Presley in preda ad un attacco epilettico, ed una You Can't Judge A Book, tramutata dai quattro in uno sferzante, sporco rockabilly, passando per il Texas blues di Lightning Hopkins, con una sostenuta Mojo Hand. Un set senza dubbio azzeccato quello approntato per l'occasione dai genovesi, ottimo preambolo di quello che, ahinoi, si sarebbe poi rivelato essere il disastroso "main event". Accompagnato dai fidi Big Motors, ovvero il corpulento, barbuto bassista Levell Price, e l'assatanato batterista Bryan Keeling, poco dopo le 23 il chitarrista di Fort Lauderdale, cappellaccio ben calcato in testa, giubbotto di pelle rigorosamente nera, pantaloni a zampa e stivalacci d'ordinanza, fa la propria comparsa on stage. Una prima avvisaglia delle sue, non perfette, condizioni fisiche, avremmo potuto invero averla proprio nel vedere il nostro, ancora vistosamente provato da una brutta frattura ad una gamba non del tutto ristabilitasi, farsi aiutare a salire sul palco. Lo stesso Sardinas, quasi come a voler mettere le classiche "mani avanti", spiega, inoltre, come quello di stasera sia l'ultimo concerto di un lungo ed estenuante tour, e quanto lui e i suoi due compagni siano provati dal serrato ruolino di marcia dello stesso, pur promettendoci al contempo che ciò non intaccherà la consueta grinta ed intensità del loro live act. Una promessa che purtroppo per noi non verrà, perlomeno non del tutto, mantenuta, alla luce di come si è concluso il suo, infelice, ritorno in terra savonese. Il biascicare insicuro di fronte al microfono è un ulteriore indizio della sua salute alquanto precaria, minata più che dai dolori alla gamba, da problemi di ben altra, alcolica natura. La sua condizione psico-fisica, indubbiamente, alterata non sembra tuttavia, perlomeno inizialmente, pregiudicare l'andamento di un set caratterizzato da un continuo, insistito profluvio di torrido rock blues, reso ancor più tagliente dagli stridori metallici del bottleneck, e dopato ritmicamente dal devastante martellare percussivo dei tamburi di Keeling e dal roccioso vibrare delle corde del basso di Price. A subire cotanto muscolare trattamento sono brani quali una torrenziale Flames Of Love, estrapolata dall'album Black Pearls, e rigettata sugli astanti in un'annichilente, distorta tempesta elettrica, o lo shuffle alcolico Get Down To Whiskey, il cui "velato" invito viene forse preso, fin troppo, alla lettera dallo stesso Sardinas. Il chitarrista appare infatti alquanto alticcio e sempre meno in grado di articolare un discorso coerente, tanto che sembrano accorgersene, rassegnati, anche i suoi due compagni di "sventura", i quali cercano come possono di assecondarlo in alcune delle sue ebbre digressioni chitarristiche, con esiti spesso al limite dell'aberrante. E se una Can't Be Satisfied orribilmente deturpata avrà fatto rigirare nella tomba McKinley Morganfield, ancor peggiori sono i risultati quando i tre improvvisano un'improbabile omaggio strumentale a Malcom Young, encomiabile dal punto di vista umano, ma quantomeno discutibile da quello strumentale. Non bastano una selvaggia How Many More Years, a firma Chester Burnett, né una monolitica e declamatoria Trouble, presa dal songbook presleyiano, ed entrambe contenute nel succitato Boomerang, per riportare in carreggiata un concerto ormai avviatosi verso una, non certo dignitosa, conclusione. Il chitarrista, vuoi per la gamba ancora dolorante o per le massicce dosi di whiskey ingerite, appare sempre più instabile, barcollante, tanto da rovinare prima sulla batteria, facendo seriamente temere per la sua incolumità fisica, per poi abbattersi, durante una stentata esecuzione di Run Devil Run, sull'amplificatore e sulla testata, ponendo, di fatto, fine ad un concerto nato sotto i più nefasti auspici. Si scusa più d'una volta, Sardinas, conscio anch'egli, pur nella sua flebile lucidità, della non proprio "esaltante", ad essere generosi, prova di questa sera, ma davvero, fisicamente e mentalmente, non sembra più in grado di poter continuare, tanto da essere costretto ad abbandonare il palco sorretto a forza. Quella che rimane, una volta riaccese le luci in sala, è una cocente delusione, non tanto per la durata esigua della "performance" (un'oretta scarsa), quanto per essersi trovati di fronte un musicista che è parso la sfocata ombra dell'incontenibile animale da palco abituale. Nulla da eccepire, invece, sul funzionamento dei due "Grandi Motori" Price e Keeling, i cui granitici pistoni hanno cercato in tutti i modi di pompare energia e forza nella macchina sonora sardinasiana, purtroppo condotta ad arrancare, troppo spesso, fuori strada da un "guidatore" in evidente stato d'ebbrezza.