giovedì 29 maggio 2014

Little Angel and the Bonecrashers - Jab

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Fin dalla loro nascita, nell'ormai lontano 2000, i Little Angel and the Bonecrashers hanno portato avanti un personale percorso musicale in grado d'unire le provinciali strade del varesotto con le periferiche “strade blu” d'Oltreoceano. É infatti l'Americana, con le sue molteplici deviazioni e contaminazioni, la materia sonora dalla quale il quintetto lombardo ha saputo trarre ispirazione, rielaborandone stilemi e dettami, in un amalgama fresco e corroborante, dove la vischiosità swamp rock dei Creedence Clearwater Revival, gli urbani sentori latini dei Los Lobos e il fervore del Johnny Cash dei primigeni anni targati Sun Records, incontrano gli spettri elettrici dei mai dimenticati Uncle Tupelo. Dopo un omonimo esordio, diviso tra inediti pruriti compositivi e rivisitazioni del songbook altrui, rendendo omaggio, tra gli altri, proprio al gruppo di Tweedy e Farrar rileggendone la splendida Watch Me Fall, oggi il combo varesino mostra con J.A.B., sua seconda prova in studio, d'aver affinato ulteriormente le proprie capacità autoriali, in dieci composizioni autografe pregne dei più diversi umori sonori. Si passa infatti dal logoro rock'n'roll dell'iniziale Harry's Wife, al flavour southern di Regrets (Sweet Revenge Song) impreziosita tanto da un preciso lavorio sulle corde acustiche, quanto da impeccabili incroci vocali, passando per una scura My Last Ride, d'afflitto pulsare country, con ospite alla chitarra e alla voce l'amico di lunga data Davide Buffoli. E se in Johnny Lee Blues i nostri rallentano lo scalpitante boom-chicka-boom, sempiterna eredità musicale lasciataci dal fu grande Johnny Cash, screziandolo con liquidi assolo in odore di Allman Brothers Band, in 1000 Miles Amelia è ancora il rock'n'roll a fare da ideale commento sonoro alla storia dell'omonima Amelia, “dispensatrice di piacere” per più d'una generazione varesotta. Splendida è Cowboy's Prayer, tra un epos narrativo degno del miglior outlaw country e un polveroso danzare norteno, condotto dall'accordion dell'ospite Gianmarco Banzi, mentre con il maestoso svolgersi della conclusiva Troubles Everyday, al contrario, ci si addentra in territori di più scorticata elettricità, con il Neil Young di Zuma a perdersi nello “sporco Sud” dei Drive by Truckers. La sferragliante title track è, dal canto suo, una sorta di manifesto del vivere in musica del quintetto, autodefinitosi “solo un'altra band della provincia” (Jab è per l'appunto l'acronimo di Just Another Band). Un'etichettatura tuttavia, perlomeno a parer di scrive, non veritiera, specie alla luce di un cammino musicale sin qui irreprensibile per passione e costanza, come peraltro ribadito oggi da un lavoro, J.A.B., d'ottima fattura, in grado di confermare i Little Angel and the Bonecrashers quali una delle realtà più interessanti dell'Americana “made in Italy”.

martedì 27 maggio 2014

Devenia - L'ultima stagione

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Si affacciano per la prima volta nel, sempre più affollato, mercato discografico i romani Devenia, e lo fanno con un piccolo Ep, ahiloro, non pienamente a fuoco. Un pugno di composizioni, quello approntato per l'occasione, fin troppo sfaccettato nel suo voler mostrare le diverse anime componenti l'estetica sonora dei nostri. Anime, tuttavia, non sempre in grado di convivere pacificamente, tra loro, anzi spesso cozzanti l'una contro l'altra, penalizzate dalla mancanza di un fil rouge in grado di garantirne la linearità di svolgimento. A taglienti rasoiate chitarristiche, al limite del più tonitruante e ottudente alternative rock (Spleen, John Locke) fanno infatti da contraltare episodi nei quali l'ardore metallico viene in parte stemperato (la title track) da una più marcata diluizione melodica. E se in Pornomusa sembra di trovarsi di fronte, complice un mantrico declamare vocale, a dei CCCP anfetaminizzati, è nei repentini cambi di tempo e registro di Medea che i Devenia riescono a mostrare finalmente le potenzialità, sin qui celate, del loro songwriting, dando modo all'enfatico cantare di Michele Ucciferri d'emergere al di sopra delle muraglie di suono erette dai propri compagni; il tutto in un riuscito connubio tra ferocia distorta e afflato melodico, sul quale il combo romano, a mio avviso, dovrebbe porre le basi per il loro futuro prossimo. Speriamo infatti che questa non sia per i nostri “l'ultima stagione”, ma solo un primo, tentennante, passo, nell'attesa dell'arrivo della propria “primavera” musicale, magari sbocciante tra i solchi d'un lavoro di maggior compiutezza.

giovedì 22 maggio 2014

Chuck E. Weiss - Red beans and Weiss

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Compagno di gozzovigli, alcolici e non, di Tom Waits e Rickie Lee Jones, negli anni dissennati del Tropicana Motel, bislacco deejay radiofonico, socio paritario di Johnny Depp nell'edificazione del Viper Room, ma sopratutto songwriter d'allucinata irrazionalità; a leggere il “curriculum” di Chuck E. Weiss vi è di che rimaner esterrefatti, specie di fronte alla bizzarria di un personaggio al di fuori di ogni schema e catalogazione. Un autentico beautiful freak, il nostro, un “exile on the backstreet” al quale, fortunatamente per noi, il grande successo non ha mai arriso, abbandonandolo anzi ai margini, in quel fetido limbo underground pullulante della più diversa, disadattata “fauna”, divenuta presto protagonista del suo scrivere in musica. Ha inciso tuttavia poco Weiss, d'altra parte egli stesso si definisce un inguaribile procrastinatore, ma nei suoi sparuti lavori discografici ha saputo convogliare i “souvenir sonici” raccolti, qua e là, nel suo inquieto bazzicare i bassifondi di una Los Angeles nel cui tessuto urbano ha trovato l'habitat ad esso più consono. Vetusti e scalcinati blues, torbido rock'n'roll, languide atmosfere jazzate in odore di dixieland e cantilenanti filastrocche apparentemente senza capo né coda; questo è quanto contenuto nel variegato e variopinto mondo musicale weissiano, un immaginario sonoro di strabordante follia, oggi idealmente rappresentata dalla copertina del nuovo Red Beans And Weiss, quasi una versione freak dell'artwork del “Sergente Pepe” di beatlesiana memoria. Un album dato alle stampe a sette anni di distanza dal precedente 23rd & Shout, con il nostro quasi “costretto” ad entrare nuovamente in studio di registrazione dagli amici Waits e Depp, per l'occasione accollatisi anche l'onere della produzione. Non sembra tuttavia aver lasciato strascichi, sul nostro, il lento trascorrere del tempo, certo qualche ruga e qualche acciacco hanno fatto nel frattempo la propria comparsa, ma a livello musicale nulla pare essere cambiato, in un continuo ed ostinato rifuggire ogni logica commerciale o qualsivoglia compromesso. Sarà l'egida discreta ed accomodante della benemerita Anti, ma Weiss sembra aver avuto, ancor una volta, totale carta bianca, nonché il beneplacito di barcamenarsi, come egli magistralmente sa fare, tra i più astrusi ed improbabili pentagrammi. Una fiducia ampiamente ripagata con tredici brani, tutti inediti fuorchè un “tributo”, d'eccezione, al songbook altrui, sintomatici di come la vena autoriale del songwriter originario di Denver, abbia ritrovato la propria fertilità, tanto che si può tranquillamente considerare Red Beans and Weiss quale sua opera più ispirata e riuscita. Complice la voce scura e catramosa del titolare, e una band, i G-Damn Liars, dalle movenze precise e senza pecche, come quelle d'un ingranaggio ben oliato, si rimane come stregati dal magnetismo sonoro permeante i solchi di un album equiparabile ad un introspettivo viaggio all'interno dell'universo weissiano. Un mondo strambo, dove si incontrano strani “abitanti”, come Tupelo Joe, presentatoci sulle note di un rock'n'roll sporco e stradaiolo, che ne porta il nome, oppure la gatta Shushie, alla quale è dedicato l'omonimo, fumoso talkin' dalle notturne tinte jazzy. L'ossessivo incedere di Boston Blackie, sfociante in uno spiritato declamare al limite del nonsense, così come una sferragliante Bomb The Tracks, sono altresì esplicative della deviata estetica musico-narrativa del nostro. La giovanile infatuazione per il blues non si è, dal canto suo, per nulla affievolita, tutt'altro, manifestandosi in questo frangente tanto nel tribalismo percussivo d'una dopata Kokamo (Boy Bruce), quanto in una Dead Man's Shoes dove un istrionismo vocale alla “Capitano Cuoredimanzo” incontra il boogie della Motor City d'ascedenza hookeriana. Nella travolgente Hey Pendejo si respira invece l'aria del border messicano, in quella che pare un'ubriaca divagazione su d'una melodia della tradizione nortena, ad opera di Ry Cooder e dei suoi Corridos Famosos, in preda ai fumi dell'alcol, in qualche sperduta bettola nei dintorni di Tijuana. Splendido è l'omaggio all'opera stonesiana di Exile on the Main Street Blues, dal gracchiante incipit, per sola voce e piano, ricordante le incisioni viniliche di Memphis Slim per la Blue Bird Records, prima che l'ingresso della band al gran completo lo tramuti in un incontenibile blues urbano. E se in Oo Poo Pa Do In The Rebop sembra di ascoltare un biascicante Randy Newman, strafatto di quaalude, mirabilmente assecondato dalla Preservation Hall Jazz Band, il folle pastrocchio di Willy's In The Pee Pee House, assurdo quanto riuscito ragtime pianistico con lo sbilenco accompagnamento ritmico di una simil banda dell'Esercito della Salvezza, sul quale si accavalla un coacervo di urla e grida, chiude con un ultimo, fulminante lampo di follia un album di delirante bellezza. Mi sento pertanto di avvalorare il consiglio di Johnny Depp, riportato sulla copertina del disco medesimo, «Chuck E. Weiss is a rare treasure. If you buy one record this year, make it this one. It's insane!», e mi permetto d'aggiungere....bentornata vecchia volpe d'un Weiss!

lunedì 12 maggio 2014

Emilia Martensson - Ana

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Svedese di nascita, ma da tempo stabilitasi in quel di Londra, Emilia Martensson pare aver trovato nella nebbiosa capitale britannica, il luogo ideale per dar libero sfogo al proprio estro artistico. Con all'attivo una fruttuosa collaborazione con il Kairos 4Tet, ed un esordio, So It Goes, in coppia con il pianista Barry Green, accolto ottimamente dalla critica inglese, e non, la cantante torna oggi a far sentire la propria voce con il suo nuovo, vero, parto solista. Dedicato, sin dal titolo, alla propria nonna di origini slovene, in Ana la Martensson mostra, ancor più che nella precedente release, un animo musicale inquieto e sfaccettato, nel quale convivono, in armonia, la gelida tradizione musicale della propria terra natia, solari melodie di stampo californiano, e un quieto sussultare armonico d'ascendenza jazzy. Atmosfere sinuose e dilatate, opera di ben calibrate trame improvvisative, con l'ammaliante vocalità della Martensson, tra riflessivo storytelling ed intimistiche confessioni notturne, a volteggiare dolcemente sui giochi contrappuntistici del pianoforte del “vecchio” sodale Barry Green. Una partnership, quella tra i due, capace anche in questo frangente di regalare incantevoli acquarelli musicali, permeati da un sottile swing, nel loro trattenuto divagare verso pacificate oasi cantautorali, puntellati dal preciso lavorio ritmico del contrabbasso di Sam Lasserson e delle percussioni di Adriano Adewale, alle quali si aggiungono i contributi cameristici del Fables String Quartet. Se l'opera di immortali cantanti jazz quali Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Anita O'Day, ascoltate ossessivamente durante la propria infanzia, rappresentano tuttora un elemento portante del background della Martensson, più marcata si è fatta oggi l'influenza dell'arcaico folklore nordico. Ne sono esempi, più che lampanti, la ripresa di un antico brano appartenente alla tradizione musicale svedese, Nar som jag var pàt mitt adertonde ar, qui riproposto in uno scarno, algido arrangiamento invernale; così come l'autografa, conclusiva, Vackra Manniska, cantata a cappella facendo ricorso all'idioma del suo paese d'origine. Un sentito omaggio ad un altro dei propri giovanili, amori in musica, Joni Mitchell, è invece la rilettura di Everything Put Together Falls Apart, appartenente sì al songbook di Paul Simon, ma con la voce della cantante svedese a ricordare per misticheggiante grazia esecutiva quella della Signora del Laurel Canyon, come, peraltro, avviene nella distesa Tomorrow Can Wait, tra dissonanze jazz e sontuose suggestioni cantautorali tinteggiate di “blu”. Un'introspettiva Black Narcisuss, composta dal saxofonista Joe Henderson, rifulge di nuova luce sonica grazie alle inedite liriche approntate per l'occasione dalla stessa Martensson, ad ulteriore conferma tanto di una notevole maturità compositiva, quanto della propria seducente raffinatezza interpretativa. Un album rasentante l'incanto, Ana, da assaporare lentamente, magari al crepuscolo, quando l'ultimo barlume di luce solare scema all'orizzonte, lasciandosi cullare, verso l'appropinquarsi delle tenebre, dall'umbratile, vellutata voce di una delle più talentuose chanteuse odierne.

The Palominos - Come on in

(Pubblicato su Rootshighway)


Se tra i ranghi della Randm Records, etichetta presso la quale si sono recentemente accasati, figurano già i "figli bastardi" di Johnny Cash, The Palominos possono essere considerati, a tutti gli effetti, i "nipotini illegittimi" di Buck Owens. A differenza dei succitati "figli d'arte" cashiani, con all'attivo una discografia fattasi ancor più corposa con la pubblicazione del recente New Old Story, il quartetto, di stanza a San Diego, giunge solo oggi al proprio debutto discografico. Un esordio, Come On In, seppur nella sua breve durata (in realtà trattasi di un ep), a dir poco pregevole, quanto capace, nel ristretto spazio pentagrammatico di sette composizioni, di mettere in luce il diligente approccio musicale dei countrymen californiani. È ovviamente al verbo del proprio "progenitore musicale" che il quartetto, capitanato dai fratelli Thomas e James Zurek, guarda con dedizione e rispetto, facendo proprie le solari trame di quel Baskerfield sound del quale Owens fu tra i pionieri. Puro West Coast country, quello impresso su nastro dai nostri, a rievocare quanto partorito dalla fervida scena musicale nata e sviluppatasi, verso la fine degli anni Cinquanta, nella cittadina della San Joaquin Valley, in contrapposizione alla stucchevolezza zuccherina tracimante dalle produzioni nashvilliane del tempo. Musica verace e genuina, ove alle armonizzazioni vocali e agli evocativi fraseggi della pedal steel, venivano uniti il twang elettrico della Telecaster, e il sobbalzare percussivo del primigenio rock'n'roll. Una baldanza che rivive oggi immutata attraverso l'opera dei Palominos, fedeli osservanti dei precetti originari, tanto che non avrebbero sfigurato, ai tempi, sui palchi degli innumerevoli honky tonk bar affollanti le vie di Baskerfield, contendendo anzi la scena, alla pari, ad autentiche star di prima grandezza quali, tra gli altri, il già ampiamente menzionato Buck Owens, Tommy Collins e Merle Haggard. Basti ascoltare, a riprova di ciò, il genuino trasporto messo in mostra nella title track, e ribadito nella conclusiva You Provide The Heartbreak (I'll Provide The Wine), dove sembra di trovarsi di fronte ai redivivi Buckaroos, per non parlare dei pruriti rock'n'rollistici d'un altrettanto movimentata It Could Happen To Anyone, con il sincopato tambureggiare di Craig Packham ben in evidenza. È tuttavia l'armonizzarsi tra le voci di Thomas Zurek e Lance Hawkins, così come l'intreccio elettroacustico tra le loro rispettive sei corde, a rappresentare l'anello di congiunzione tra passato e presente, come si evince nella spigliata No You Don't, o in una Macon, Georgia, irrobustita proprio dal twanging riverberato della chitarra elettrica. Un esordio di corroborante freschezza, Come On In, nel suo riproporre, senza derivatismi di sorta, sonorità ancor oggi fresche e frizzanti. D'altra parte gli stessi Palominos si definiscono "Not contemporary in style, but certainly timeless in sound" e, alla luce di quanto ascoltato, come gli si può dar torto?

mercoledì 7 maggio 2014

Deserto Rosso - Progresso

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo l'esordio Mi fanno male i capelli, targato 2011, e un successivo Ep, Oasis Elèctronique, i Deserto Rosso, per gettare le basi del proprio futuro sonoro, volgono, oggi, il loro sguardo indietro nel tempo, al passato remoto della musica rock italiana. Progresso rappresenta, infatti, un tributo alle band italiche degli anni '60 e '70, figlie d'una stagione musicale magica ed irripetibile per il nostro Bel Paese. Un itinerario, tra riscoperta e sperimentazione, attraverso il quale la band romana ha saputo appropriarsi, riportandole a nuova vita, tanto di celebri composizioni di ensemble di prima grandezza, quanto di brani partoriti da altrettanto valide compagini, purtroppo scomparse tra le nebbie del tempo. Erika Savastani e Danilo Pao, fondatori e, de facto, titolari della ragione sociale in esame, si avvalgono, per questa loro digressione musico-temporale, del prezioso contributo della chitarra di Fernando Pantini, dei tamburi di Andrea Ruta e dei tasti del piano elettrico di Adriano Pennino. Inciso con un approccio “vintage”, facendo ricorso ad una strumentazione e ad effetti dell'epoca presa in esame, l'album mantiene intatta una veridicità esecutiva derivata proprio dalla registrazione in presa diretta. Un impianto strumentale orchestrato con cura dallo stesso Pao, atto a sostenere e valorizzare, ulteriormente, la duttile voce della Savastani, libera qui di mostrare tutte le proprie colorazioni timbriche, come nello splendida rilettura di Non Mi Rompete, del Banco del Mutuo Soccorso, posta in apertura, tra estatiche ondate melodiche, ad infrangersi su di un insofferente soliloquio vocale, ed accelerazioni ritmiche in crescendo. Dal repertorio dell'Equipe 84 viene invece estratta Casa Mia, “svecchiata” grazie ad un radioso incedere reggae, seppur sporcato da sussultanti infiltrazioni elettriche. Un rinnovamento caratterizzante anche Sera de Le Orme, in un riuscito connubio tra sontuosa raffinatezza pop e spigolose derive rockiste. E se Guai A Voi, degli sconosciuti Lydia e gli Hellua Xenium, colpisce per la sua corrosiva acidità lisergica, con la voce della Savastani a ricordare, nella sua graffiante interpretazione quella della miglior Angela Baraldi, al contrario la ballata Messico Lontano, degli Albero Motore, si dipana gentile verso assolati territori di acustico raccoglimento. La conclusiva Cosa Pensiamo Dell'Amore, arroventata da infuocate vampate hard rock settantiano, guarda invece, più che alla Genova dei suoi autori, i New Trolls, all'Hertfordshire del “Profondo Porpora”, tra evoluzioni chitarristiche blackmoriane e i liquidi assolo di un organo. Un progresso, quello idealizzato dai Deserto Rosso, debitore della nostra storia musicale passata, ma al contempo attualizzato attraverso il proprio personale ed odierno sentire. Un deciso cambio di direzione sonora, rispetto al succitato debutto che lascia ben sperare in vista dell'ormai prossima pubblicazione del loro secondo full lenght.