venerdì 22 marzo 2013

Viva Lion! - The Green Dot EP

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Un esordio destinato sicuramente a non passare in sordina quello a nome Viva Lion!, monicker dietro al quale si cela Daniele Cardinale, indie rocker di “nascita” ma che in questo frangente troviamo impegnato a destreggiarsi con scarne ed acustiche trame folk. Un Ep, The Green Dot, che può a tutti gli effetti essere considerato un vero e proprio concept, di natura autobiografica, basandosi infatti sulla relazione a distanza tra il nostro e la propria fidanzata americana. Sulla tratta “telematica” Roma-Los Angeles hanno visto la luce le canzoni qui contenute, composte e poi suonate, alla propria amata, via skype, cercando in tal modo di mantenere vivo un rapporto facilitato sì dalle nuove tecnologie ma al contempo complicato dall’ingombrante, e divisoria, presenza di un Oceano. Canzoni nelle quali ad essere in primo piano sono la voce e la chitarra acustica dello stesso Viva Lion!, affiancate dalla presenza, a seconda dei diversi episodi, di svariati ospiti. Proprio i contributi di quest’ultimi arricchiscono ulteriormente un songwriting, quello del musicista romano, che predilige toni sommessi e malinconici, a cominciare dall’intimismo minimale di Even If, sognante incipit, tra il carezzevole pizzicare di chitarre e banjo e la voce del cantautore Gipsy Rufina ad aggiungersi a quella del titolare del progetto. Ancor più intensa è Goodmorning/Goodnight, dove viene evidenziata la distanza tra i due innamorati, la quale non è solo più fisica, ma anche, vista la presenza del fuso orario, temporale, dato che quando per lui è mattina per lei è notte. Il tutto viene ulteriormente enfatizzato da una prima parte vocale appannaggio di Viva Lion!, mentre la seconda voce, che apparterrebbe idealmente a “lei”, viene affidata a Megan Pfefferkorn, la cui deliziosa vocalità colora di tinte pastello un’agreste melodia folkie. Unico brano senza ospiti è The Thrill, in cui si manifesta lo scoramento del protagonista, il quale si riflette anche sull’impianto musicale, con l’acusticità iniziale che viene squarciata da laceranti deflagrazioni elettriche, su di un tappeto percussivo che trova la propria forza ritmica tanto nell’hand-clapping quanto nello percuotere gli oggetti più disparati, trovati in studio di registrazione. Sconforto che lascia tuttavia spazio alla speranza nella leggerezza melodica di Some Investments Are Recession Proof, prima del tripudio finale con l’unico brano non autografo, una personalissima rivisitazione di Footloose, dalla colonna sonora dell’omonimo lungometraggio, dove a dar man forte troviamo i Velvet al gran completo. Una piccola ma affascinante opera prima, The Green Dot, capace di racchiudere, in sole cinque canzoni, l’intero universo sonoro di un’artista, Viva Lion!, tutto da scoprire.

mercoledì 20 marzo 2013

Nick and the Ovorols - Telegraph Taboo

(Pubblicato su Rootshighway)


Il passaggio da semplice gregario a band leader, e la storia musicale ne è maestra, non è mai facile, può essere infatti tanto il preambolo di una luminosa carriera quanto di una rovinosa e dolorosa caduta. A compiere il fatidico passo è in quest'occasione Nick Peraino, chitarrista e cantante nativo del New England, ma da tempo stabilitosi in quel di Chicago. Qui il nostro ha visto nascere la propria passione per il blues, musica quest'ultima che non ha mai smesso di risuonare tra le vie della Windy City. Dopo una prima militanza tra le fila della roots rock band a nome Nick Peraino and Blue Moon Risin, ed alcune collaborazioni come sideman per artisti quali Joanna Connor e Sugar Blue, nel 2011 il chitarrista da vita al progetto Nick and The Ovorols, del quale detiene saldamente la leadership. Primo risultato di questa nuova avventura è Telegraph Taboo, debutto discografico nel quale confluiscono deep soul, mordaci sventagliate chitarristiche e piccole digressioni bluesy, a rievocare i fantasmi dell'heavy rock settantiano. Un album muscolare quindi, dove ampio spazio viene lasciato alla sei corde dello stesso Peraino, tra debordanti assoli e duetti con quella del sodale Carlos Showers, a creare un drive chitarristico che è un po' il leit motiv dell'intero lavoro. E se sulle qualità tecniche dei due succitati musicisti non vi è nulla da eccepire, degna di menzione è senza dubbio la voce dello stesso Peraino capace di passare da una rochezza quasi robinsoniana, alla "corvo nero" per intenderci, nei brani trasudanti elettricità, a tonalità più calde ed avvolgenti quando le atmosfere si rarefanno, ricordando a tratti un Paul Rodgers d'antan (dei bei tempi andati di Free e Bad Company, non quello della recente e becera collaborazione con la "Regina"). Sembra proprio estrapolato da un vecchio vinile dei Free l'opener Take The V Train, sincopato rock blues targato Seventies, a ribadire come i nostri guardino a sonorità del passato, portando avanti al contempo un'attualizzazione delle stesse. Operazione questa, che porta alla stesura di brani come Chitown Via Greyhound, tra distorta ruvidezza rock e screziature bluesy, o l'irrequieta Honey Please, ben sostenuta dalla batteria di Lance Lewis e dal basso di Vic Jackson. L'anima nera di Peraino ha invece modo di emergere tanto nel ciondolare soul di Hey, Mr. President, quanto nel r'n'b, dall'ossatura funk, Half Of Two, dove ad aggiungere ulteriori colori sonori troviamo un hammond dal retrogusto vintage e degli incantevoli cori femminili. Si affievoliscono in parte le adrenaliniche scariche elettriche nell'ispirata ed evocativa ballata Try Me, ben doppiata da una Day To Day appannaggio del solo titolare, dalla quale emerge la buona padronanza sia delle proprie corde vocali che di quelle del proprio strumento. Con un debutto solido e ben suonato Peraino si scrolla definitivamente di dosso l'ombra del proprio passato da sideman, dimostrando al contempo di trovarsi a proprio agio nell'inedito ruolo di leader.

lunedì 18 marzo 2013

Giardini di Mirò @ La Claque - Genova

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Vedi a volte gli scherzi del caso; in una Genova che ospita, in questi mesi, una rassegna del pittore spagnolo Joan Mirò, parte Alone Together, tour “acustico” dei nostrani Giardini di Mirò. Una data “zero” che pare aver richiamato gran parte degli indie lovers della città della Lanterna, affollanti questa sera La Claque, piccola sala del Teatro della Tosse. Una location, dalla più che buona acustica, che ricorda uno dei tanti clubs che costellano i sobborghi delle grandi città d’Oltreoceano. Un palco più che consono quindi per il live show “sperimentale” approntato dagli emiliani, che si presentano per l’occasione in quartetto, dove ad affiancare gli storici Corrado Nuccini, Jukka ed Emanuele Reverberi troviamo Laura Loriga, già loro compagna on stage nella presentazione del recente Good Luck. E proprio durante la precedente tournèe è nata l’idea di uno spettacolo più raccolto, tra “suoni acustici, vibrazioni elettroniche, lenti delay e voci sussurate”. Un quartetto, pur nella sua essenzialità, tuttavia versatile, con Nuccini ed Jukka ad alternarsi brillantemente tra microfoni, chitarre, basso e un minimale set percussivo (composto dai soli timpano e rullante) ed un Emanuele Reverberi, vero e proprio jolly, nel suo padroneggiare con gusto violino, tromba e percussioni, ai quali si aggiunge l’incantevole apporto vocale della Loriga, oltre al muoversi sinuoso delle sue dita, sui tasti di un piano elettrico. Proprio a quest’ultima spetta inoltre il compito di aprire la serata con un mini-set, presentando i brani del proprio progetto solista Mimes Of Wine, con il quale incanta gli astanti grazie ad una soavità vocale che ricorda a tratti quella di una Regina Spektor meno “freak”, ed un lirico pianismo, tra rimandi classici e affreschi jazzy. L’attesa è tuttavia per il set degli emiliani, che non sarà, per nostra fortuna, avido di sorprese, anzi. Gran parte della scaletta è inevitabilmente incentrata sull’ultimo album in studio, il poc’anzi menzionato Good Luck, riproposto nella sua quasi interezza, a cominciare dal fascino tetro di una Rome che, orfana della nervosa spinta propulsiva di basso e batteria, pare tuttavia guadagnare in forza evocativa, grazie anche all’ottimo interplay tra le chitarre di Jukka e Nuccini, con la voce di quest’ultimo che pare trovare un’ideale contrappunto in quella della Loriga. Un’intrecciarsi di voci, maschile e femminile, capace di dar vita ad autentiche vibrazioni sensoriali, come nella ballata notturna Spurious Love, la cui progressione emozionale è impreziosita dai ricami del violino, o nell’immaginifica There Is A Place, quasi un sussurro, di straordinaria poesia, passando per una scarnificata Embers, fino ad una sulfurea e mantrica Bar Nasha, dal songbook dei Six Organs Of Admittance. Sono tuttavia gli encore a sintetizzare al meglio i propositi da cui è nato questo nuovo tour; prima una toccante e sentita Bufera, composta sulla note della amodeiana Per i morti di Reggio Emilia, in cui psichedelici riverberi vocali sono il viatico verso un climax sonoro che lascia ammutolita l’intera platea, per giungere alla conclusiva Wayfaring Stranger, vecchio spiritual con il quale i quattro si addentrano in inesplorati territori folk statunitensi, e dove il duetto vocale tra la Lorica e Nuccini sembra quasi voler rievocare quelli tra Isobel Campbell e Mark Lanegan. Una magnifica serata “diversamente noise”, nella quale abbiamo potuto esplorare una parte dei Giardini di Mirò fino ad oggi rimasta celata, nascosta dietro inestricabili siepi irte di spinosi feedback; un’oasi di sognante tranquillità nella quale rifugiarsi per rigenerare anima e mente.

venerdì 15 marzo 2013

Dawn McCarthy & Bonnie "Prince" Billy - What the Brothers sang

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Ognuno di noi, ripensando alla propria infanzia, vede spesso riemergere i più disparati ricordi, associati molte volte ad uno dei cinque sensi in particolare. Tra le rimembranze sensoriali più comuni vi sono senza dubbio quelle uditive, siano esse un semplice suono, captato quasi per caso, o vere e proprie forme musicali compiute. Suoni e musiche che hanno caratterizzato anche l’infanzia del buon Will Oldham, il quale oggi pare ritornare, mentalmente, proprio a quegli spensierati giorni di gioco e scoperte, nei quali dal giradischi paterno fuoriusciva una musica, quella degli Everly Brothers, destinata a diventare il suo primo vero amore sonoro. Formato dai fratelli kentuckiani Phil e Don, il duo ha saputo d’altronde - con un corpus musicale di eccezionale valore, in cui folk, country e primigenio rock’n’roll venivano miscelati in egual misura, con le due voci a creare sopraffine armonie - influenzare, direttamente e non, generazioni di musicisti a venire. Intrecci vocali che, ovviamente, ritroviamo in What The Brothers Sang, sentito omaggio del “Principe” di Louisville ai propri conterranei. E proprio per ricreare quest’ultimi il nostro ha voluto al proprio fianco Dawn McCarthy, con la quale aveva già incrociato in passato il proprio cammino, prima in un EP cointestato (Wai Notes, targato 2007), fino ad un più recente 7” contenente due brani (Christmas Eve Can Kill You e Lovey Kravetiz), guarda caso estrapolati proprio dal repertorio everlyiano. Attorniati oggi da un nutrito gruppo di musicisti; tra i quali meritano una menzione il fido Emmett Kelly alle chitarre (già nelle fila della Cairo Gang) e la sezione ritmica nashvilliana formata dal basso di Dave Roe e dalla batteria di Kenny Malone; i due assemblano un vero e proprio “sunto affettivo” del songbook a nome Everly Brothers, prediligendo il lato country oriented dello stesso, ed andando a ripescare sia brani autografi che di altrui composizione, ma reinterpretati dai due nel corso della loro carriera. Punto focale dell’intero lavoro sono, come accennato poc’anzi e ribadito anche dalla stessa copertina, i duetti tra la delicata vocalità della McCarthy e quella “principesca” di Oldham, in un lirico rincorrersi, per poi unirsi in impasti vocali che lasciano a dir poco estasiati. Come nel fascino arcaico di Empty Boxes, tra il picking gentile di chitarre e mandolino, ed un flauto dal quale fluiscono arie folk di discendenza albionica; o in una It’s All Over, leggera come lo stormire delle foglie alla prima brezza autunnale; raggiungendo infine vette d’incommensurabile pathos nell’onirico country valzer What Am I Living For. Esulano in parte dal mood generale dell’album tanto Milk Train, che corre veloce, su sferraglianti binari country’n’roll, deviando nel finale, sulle note di un accordion, verso speziati territori zydeco; quanto il robusto uptempo Somebody Help Me. Si torna tuttavia verso fluttuanti e indolenti sonorità con i barocchismi orchestrali di Devoted To You, o la lucentezza melodica di Poems, Prayers And Promises, fresca e pura come l’acqua di sorgente, fino all’elegiaca Kentucky, omaggio nell’omaggio al proprio stato natio. Musica senza tempo quella racchiusa tra i solchi di questo splendido atto d’amore in musica, ennesima testimonianza tanto della bellezza dell’opera sonora dei fratelli Everly, quanto della caratura artistica superiore di un “personaggio”, Bonnie “Prince” Billy, con davvero pochi eguali nell’odierno panorama musicale.



giovedì 7 marzo 2013

Nadia and the Rabbits - Noblesse oblique

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Una vera e propria “cantautrice senza frontiere” Nadia von Jacobi, la cui musica nasce da una globalità sonora volta ad abbattere barriere fisiche, musicali nonché idiomatiche. Nel suo cammino, che dalla natia Monaco di Baviera l’ha portata in Italia, dove tutt’oggi risiede, Nadia ha infatti saputo far propri suoni ed idiomi tra i più differenti, riuscendo a trarre da ognuno di essi le proprie peculiarità nascoste, sintetizzandole infine in un personale, quanto intrigante, melting pot. Ed è proprio dall’esperienza maturata “on the road”, e sui palchi in particolare, che vede la luce Song Fairy Tales, prima, ed autoprodotta, testimonianza su nastro, registrata on stage tra Londra e Milano. Strada lungo la quale avverrà anche l’incontro con un gruppo di strani “conigli”, che diverranno presto i suoi fedeli compagni d’avventure musicali, fino ad arrivare alla stesura di quello che è il suo primo, vero, album in studio. Realizzato sotto la supervisione di LeLe Battista e registrato tra Italia, Germania, Austria, Regno Unito e Usa, Noblesse Oblique allarga ulteriormente il discorso intrapreso con il poc’anzi menzionato disco dal vivo, all’insegna di un poliglottismo, tra inglese, tedesco e italiano, e di un folk cosmopolita nel quale convergono le diverse esperienze individuali del nutrito gruppo di musicisti coinvolti, provenienti da ogni parte del globo. Ogni singolo contributo strumentale, è qui finalizzato a sostenere e valorizzare la chitarra acustica, ma soprattutto la voce della stessa Nadia, che pare rimembrare, per bellezza espressiva, quella di una Ani DiFranco meno combattiva e più folk oriented. Dalla songwriter di Buffalo sembrano infatti prendere spunto brani come la palpitante Paths Gone, tra il soffiare jazzy del sax e della tromba, ed un ukulele a colorare di tinte pastello il tutto; o l’incedere quasi marziale di When It’s Raining, che la fisarmonica e il violoncello avvolgono di soavi atmosfere latine; fino al riuscito bilanciamento tra folk e pop dell’ariosa She’s Like The Wind. Un folk “obliquo” quindi, nel quale vi è spazio anche per piccole sperimentazioni sonore, come nell’iniziale Treasures Away o in Obliqua è La Mia Nobiltà, dando vita, in un connubio tra l’originaria matrice acustica e frammenti elettronici, a suggestioni quasi trip hop. Se con l’inglese e l’italiano la cantautrice pare trovarsi a proprio agio, nell’introversa fascinazione di Moongirl fa la sua comparsa anche il tedesco, che ben si integra, con la sua “marcata” musicalità, nell’economia sonora del brano. Notevole infine il lavoro compositivo e di arrangiamento alla base di Last Home, dove si avverte, in particolar modo, l’apporto “collettivo”, in un crescente arricchimento strumentale; così come pregevole dal punto di vista lirico è l’evocativa ballata pianistica Let Us Be Free, con LeLe Battista ai tasti bianchi e neri; a mio avviso il momento più ispirato dell’intero lavoro. Un album Noblesse Oblique che mostra, fin dal primo ascolto, tutta la propria purezza e genuinità, caratteristiche quest’ultime indissolubilmente legate all’estro artistico della stessa Nadia.

mercoledì 6 marzo 2013

Tre Allegri Ragazzi Morti @ Teatro dell'Archivolto - Genova

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Il teatro genovese dell’Archivolto è diventato in pochi mesi, grazie all’illuminata programmazione a cura di Habanero, il nuovo ritrovo “indie” del capoluogo ligure. Questa sera in scena, ed è proprio il caso di dirlo vista la location, vi sono i Tre Allegri Ragazzi Morti di Davide Toffolo, storica ed inossidabile indie rock band nostrana, fresca della pubblicazione della loro nuova fatica discografica, Nel giardino dei fantasmi. E proprio su quest’ultima è incentrata gran parte del live show odierno, a cominciare dall’aspetto visivo, con le splendide scenografie, opera dello stesso Toffolo, a richiamare l’artwork dell’album, ed una setlist nella quale trovano ampio spazio le nuove composizioni. Brani che dimostrano come la recente infatuazione per il reggae e per il dub da parte del gruppo di Pordenone non sia stata effimera ma permanga all’interno dei loro pentagrammi, nei quali fanno la loro comparsa anche inedite architetture folk futuriste, a forgiare un sound che arriva a lambire le desertiche terre maliane. Sonorità che irradiano la prima tranche del concerto, a cominciare dai ritmi in levare di Alle anime perse, passando per il blues desertico di La fine del giorno, fino alla scura Il Nuovo Ordine, dove il dub incontra torride sonorità tuareg. E se il basso di Enrico Molteni e la batteria di Luca Masseroni si muovono con disinvoltura in questo calembour ritmico, la chitarra del “pettirosso” Andrea Maglia aggiunge con gusto colori e suoni alla sei corde di Toffolo. Quest’ultimo, dal canto suo, si conferma grande affabulatore scenico, rievocando con maestria le piccole storie di vita vissuta dalle quali, fin dagli albori, le composizioni dei TARM traggono linfa vitale. Storie nelle quali ognuno di noi può riconoscersi, come testimoniato dai tanti “allegri ragazzi morti”, con tanto di maschera d’ordinanza, convenuti in quel di Genova, ed attestatisi fin dall’inizio sotto il proscenio in un sing-a-long senza fine; a cominciare dal respiro pop di una scintillante Di che cosa parla veramente una canzone, il cui contagioso refrain miete più di una “vittima”. Il trio, pardon quartetto, di Pordenone, non si è comunque dimenticato del proprio passato, tanto che una volta tornati sul palco ad essere sciorinati con generosità sono i brani “storici”, diventati veri e propri inni generazionali. In un ripercorrere in lungo e in largo della loro vita discografica scorrono così l’irresistibile Mio fratellino ha scoperto il rock’n’roll, trasposizione in italiano di My Little Brother degli Art Brut, la scanzonata Signorina Prima Volta, lo sfrenato punk’n’roll di Ogni adolescenza, fino ad una Il mondo prima accolta da una vera e propria ovazione. Sono molto amati i nostri, forse per non aver mai tradito una propria idea di rock manifatturiero, mai sceso a compromessi, e proprio per questo capace di resistere al lento trascorrere del tempo, come testimoniano brani quali la sempre splendida Occhi bassi, una Quindici anni già riesumata dalla mitologica opera prima, Piccolo intervento a vivo, fino a quello che può senza dubbio essere considerato il loro manifesto musicale, Mai come voi. E i nostri paiono voler ricambiare l’affetto mostratogli dal pubblico genovese tornando per ben due encore, concludendo, tra gli applausi, con una delirante quanto fulminea Batteri, e i toni smorzati di Quasi adatti. Avrà quasi vent’anni ma “il grande spettacolo della vita e della muerte” toffoliano pare non aver perso un grammo della propria dirompente carica live, evolvendosi anzi in quello che è, a tutt’oggi, un affascinante viaggio tra i più disparati ritmi e suoni del mondo.