domenica 25 novembre 2012

Scott Cook - Moonlit rambles

(Pubblicato su Rootshighway)

Nativo di Edmonton, nello stato dell'Alberta, Scott Cook ha tuttavia trascorso la sua recente esistenza, artistica e non, a bordo del proprio furgone, prima lungo gli sperduti sentieri del verde Canada, valicandone poi i confini per affrontare la vastità dei territori statunitensi. D'altra parte si sa, i viaggi sono da sempre una tappa fondamentale, oltre che un'inesauribile fonte ispiratrice alla quale abbeverarsi, per ogni songwriter che si voglia definire tale. Fin dall'emblematico titolo di questa sua terza fatica discografica, si intuisce infatti come ad essere al centro dell'impianto musico-narrativo sia appunto il viaggiare, e conseguentemente le storie, i luoghi e le persone ad esso legati indissolubilmente. Se le architetture sonore di chiara derivazione folk, attraverso le quali si dipana la proposta musicale cookiana, hanno la loro peculiarità in una tanto disarmante quando suggestiva semplicità melodica, a risaltare sono senza dubbio le liriche, le quali danno vita a piccole istantanee dalle tinte seppiate. Basti prendere l'opener Song for the Slow Dancers, una neanche tanto velata dissertazione sull'autenticità della musica odierna, traente ispirazione dalle parole di colui con il quale prima o poi ogni songwriter "vagabondo" deve confrontarsi, Woody Guthrie. Senza parlare di una Going Up to the Country, che miscela in egual misura country e folk, e dove cominciano a mettersi in luce gli apporti strumentali dei Long Weekends, ormai consolidata backing band del nostro. Let Your Horses Run è una ballata dai toni sommessi, che si regge su di un bel lavoro di fingerpicking, ulteriormente abbellito dall'armonizzazioni vocali di Shawna Donovan e da un banjo suonato in punta di dita. The Lord Given (and the Landlord Taketh Away) sconfina in territori bluegrass e, facendo sua l'affermazione di William K. Black secondo la quale "Il miglior modo di rapinare una banca è fondarne una", può essere ascritta di diritto nel novero delle moderne protest song. Il songwriting cookiano raggiunge poi il proprio apice nel malinconico incedere di High and Lonesome Again, i cui afflati country vengono ulteriormente dilatati dai languidi intarsi melodici della pedal steel. Sembra preferire i tempi rallentati Cook, sia che si tratti dell'introspezione in chiave folk di All My Moonlit Rambles, dell'acquerello acustico per sola voce e chitarra di Time with you o della toccante dedica al nonno di Go on, Ray, nelle quali a risaltare è la sua voce tanto flebile quanto a tratti avvolgente. Una voglia di viaggiare quella insita nel canadese, che pare non essersi sopita, come si intuisce nella conclusiva Song for a Pilgrim,ennesimo esempio di una proposta sonora che trova la propria forza nel sottrarre invece che nell'aggiungere. E se i risultati dei futuri pellegrinaggi sonori si assesteranno sul medesimo livello di queste "passeggiate al chiaro di luna", non possiamo che augurare a Scott Cook un buon viaggio.

sabato 24 novembre 2012

Rossopiceno - Come cambia il vento

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

In un’Italia allo sfascio, guidata da un malnato governo tecnico, strozzata da un’aberrante crisi socio-economica e dove il futuro è ormai solo più un vago tempo verbale, opere musicali del calibro di Come Cambia Il Vento dei Rossopiceno sono quanto mai preziose. Il gruppo marchigiano dopo l’esordio dello scorso anno, con Storie In Un Bicchiere, torna ora con un secondo album intriso di rabbia e speranza, scritto e suonato da ventenni in cerca del proprio posto in un paese che sembra non sapere che farsene dei suoi giovani. Ed è proprio questo il maggior pregio di Come Cambia Il Vento, il riuscire a veicolare un comune malessere giovanile, ma non solo, attraverso una manciata di pregevoli composizioni di matrice (combat) folk, dando così voce a sogni disillusi, problemi e ansie esistenziali, sottovalutati, se non sbeffeggiati, da una società vecchia non solo anagraficamente. Una maturità quella dei Rossopiceno, che non si manifesta solo a livello testuale, ma anche musicalmente, attraverso un impasto sonoro ben calibrato e dalle molteplici sfumature. Molte anche in quest’occasione le collaborazioni eccellenti, a cominciare da Francesco Moneti, qui non solo seduto in cabina di regia, ma impegnato a far correre veloce l’archetto sul suo violino, oltre che a pizzicare vari altri strumenti a corda. Le affinità con i Modena City Ramblers, tra le fila dei quali quest’ultimo milita, sono più che evidenti, ma non di semplice emulazione si tratta quanto della personalizzazione di sonorità che i Rossopiceno sentono quanto mai loro. La precisa e “colorata” sezione ritmica composta dalle percussioni di Massimo Pasqualetti e dalla batteria di Stefano Nespeca, svolge egregiamente il proprio lavoro, creando un tappeto percussivo che ben si adatta sia a battaglieri assalti combat folk che a ballate di più ampio respiro. Minimo comune denominatore di entrambe le tipologie sonore poc’anzi descritte è tuttavia la fisarmonica dell’ottimo Vanni Casagrande che, insieme alla voce di Emidio Rossi, rimane uno degli elementi fondanti del suono dei Rossopiceno. Esempi di cotanta bravura strumentale si possono rintracciare nell’anthemica Fermoimmagine, nella rarefazione di Prima Della Pioggia, così come nel lento dischiudersi di Freddo. Se l’incipit di Come Cambia Il Vento vede Marino Severini prestare la propria voce, nel finale della dura analisi della situazione lavorativa nel nostro paese di Camici e Tute, spazio viene lasciato all’ironico monologo di Ascanio Celestini. Echi dei Ramblers modenesi riaffiorano, nel prosieguo dell’ascolto, sia in Sol, che pare un estratto da Terra e libertà, che in C’era, combat song sulle gesta dei partigiani, già apparsa nella tracklist di Battaglione Alleato, album corale supervisionato proprio da Moneti e soci. Posta in chiusura Soltanto Un Po’, tra sentori irish, barlumi folk e un finale di stampo bandistico, è un’ulteriore esempio della qualità della proposta del combo marchigiano. Come il vino della loro terra, al quale si sono ispirati per la scelta del nome, anche il sapore della musica dei Rossopiceno, con l’andar del tempo sembra essersi fatto più persistente e ricco d’aromi, capace di stuzzicare tanto le papille gustative quanto l’apparato uditivo.

lunedì 19 novembre 2012

Calexico @ Alcatraz - MIlano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Novembre porta in quel di Milano il primo grigiore autunnale, rendendo ancor più malinconica la città meneghina. E se fuori il freddo comincia a farsi a tratti pungente, a riscaldare cuori e anime dei propri accoliti, accorsi a stipare l’Alcatraz, ci pensano i Calexico. Il combo di Tucson torna infatti a calcare i palchi italiani per presentare il loro ultimo parto discografico, Algiers. Una data, quella di questa sera, cerchiata da tempo in rosso sul calendario, in quanto le sortite ‘calexichiane’ sono da sempre foriere di grandi emozioni, e anche in quest’occasione i nostri non hanno deluso le aspettative. Un delizioso antipasto è stato senza dubbio quello offerto dai Blind Pilot, indie folk band di Portland, che in un set breve ma emozionante hanno saputo mostrare la bontà della propria musica, strappando larghi consensi ad un pubblico più che partecipe. Guidati dalla lirica voce di Israel Nebeker, il quartetto ha proposto estratti dai loro due album, incantando i presenti con pregevoli armonie vocali, grazie anche all’apporto delle ugole del contrabbassista Luke Ydstie e di Karin Claborn, impegnata, tanto al banjo quanto al dulcimer, ad intessere al contempo eterei arpeggi. I quattro lasciano il palco sulle note di We Are The Tide (title track del loro ultimo disco) sulla quale fa la sua comparsa anche la tromba di Jacob Valenzuela. Giusto il tempo di un veloce cambio palco ed ecco entrare in scena il combo statunitense. Denominazione quest’ultima che appare tuttavia riduttiva nel descrivere l’organico dei Calexico, in quanto ci troviamo di fronte ad un collettivo, avente radici tanto negli Stati Uniti quanto in America Latina ed in Europa, che ha sempre fatto della propria multi etnicità uno dei suoi punti di forza. Sette i musicisti sul palco, e se il fulcro sonoro è come sempre la coppia Joey Burns - John Convertino, i cinque compagni al loro seguito non sono semplici comprimari ma elementi fondamentali nella creazione del “Calexico sound”.
Come era ovvio aspettarsi, quella di stasera sarà una scaletta incentrata prevalentemente su “Algiers”, dal quale Burns e soci andranno ad attingere a piene mani, mostrando come la bellezza delle composizioni in esso contenute, venga ulteriormente amplificata dalla dimensione live. Non mancherà tuttavia qualche ‘gustosa’ sorpresa, in quella che sarà una festa musicale multicolore, tra atmosfere ‘tex mex’, divagazioni desertiche, piccanti ritmi latini ed introspezioni soniche.
Se l’apertura affidata all’oscura Epic, opening track anche dell’ultimo Algiers, mostra il lato più riflessivo dei nostri, con Across The Wire ci ritroviamo in territorio messicano, con i fiati di Jacob Valenzuela e Martin Wenk a soffiare arie mariachi, accompagnati dalle note della steel guitar di Jairo Zavala. La suadente Roka, profuma invece di Sudamerica, impreziosita dall’apporto vocale di Valenzuela, che riesce nel non facile compito di non fa rimpiangere la mancanza della sensuale voce di Amparo Sanchez. Quest’ultimo passa poi dietro al vibrafono e insieme al piano di Sergio Mendoza, che per come è vestito sembra uscito da una festa in quel di Tijuana, colorano di tinte scure la lenta Dead Moon. La prima vera e propria ovazione i nostri la ricevono tuttavia non appena affiorano le note della strumentale Minas De Cobre, dal loro capolavoro The Black Light, capace di racchiudere al suo interno, come pochi altri brani, l’intero universo sonico calexichiano. Joey Burns pare davvero in stato di grazia; sorride, scherza, dialoga con il pubblico, oltre a dirigere i propri compari con rara maestria, confermandosi una volta di più un leader a dir poco carismatico. Leadership che tuttavia divide a pari merito con John Convertino, quasi un serial killer da b-movies nella sua tenuta in camicia a quadri e occhiali da nerd, il cui muoversi dietro ai tamburi è però pura poesia ritmica, sia che si tratti del percuotere con veemenza le pelli, che di lasciar strisciare con delicatezza le proprie spazzole. E il pubblico gli tributa il giusto riconoscimento acclamandolo a più riprese, tanto da istigare Burns alla battuta, che con un “Anche noi lo chiamiamo così per svegliarlo al mattino”, provoca l’ilarità di tutti i presenti. Sunken Waltz è un altro tesoro che riaffiora dal passato e con la recente Fortune Teller è forse il momento emotivamente più alto dell’intero concerto, bissato poco più avanti da una Alone Again Or, a marchio Love, da manuale. Seconda ovazione della serata accoglie una vibrante Crystal Frontier, con la quale i nostri ci salutano. Ovviamente non è finita qui, i sette rientrano in scena ed, accompagnati dai Blind Pilot, ripropongono una divertente For Your Love, dal songbook degli Yardbirds, tutta stacchi e ripartenze. Sinner In The Sea, assorta già a piccolo classico, ci porta invece dalle parti di Cuba, mentre la corale Guero Canelo, con all’interno una citazione della Desaparecido di Manu Chao, conclude la prima tranche di encore.
Si, perché i nostri richiamati a gran voce tornano on stage per regalarci una fluttuante The Vanishing Mind, che ci accompagna, cullandoci, verso la fine di quello che è stato un nuovo, immaginifico ed indimenticabile viaggio lungo le polverose strade del border.

venerdì 9 novembre 2012

Cuori in Barrique - Il gatto vegetariano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Genialità oppure follia?! Questo il dilemma che mi sono trovato ad affrontare una volta inserito nello stereo Il Gatto Vegetariano, terzo album dei Cuori in Barrique. Continuando nell’ascolto si intuisce come il quesito precedente in realtà non si pone, essendo entrambe le affermazioni precedenti veritiere, in quanto ci troviamo di fronte alla più folle genialità. Nati essenzialmente come duo, composto da Rossano Lannutti, al sax, piano e voce, e dal chitarrista Luca Russo, i Cuori in Barrique vedono tuttavia, in quest’occasione, il proprio organico dilatarsi grazie alla presenza di ben 19 tra musicisti e cantanti. Una creatura dalle molte voci e dalle molteplici gambe e braccia quindi, capace di fagocitare al proprio interno le precedenti esperienze sonore dei due titolari; funk, jazz, reggae e musica latina, dando vita a un cantautorato forse atipico ma non per questo privo di fascino. Curioso è anche il concept sul quale si basa, fin dal titolo, l’intera opera, ovvero un gatto che, stufatosi di inseguire inutilmente i topi, diventa vegetariano, ritrovandosi ad essere a sua volta oggetto della caccia, da parte delle sue ex prede. Una sorta di velata metafora dell’amore, con quel “insegui e fuggi” che contraddistingue molto spesso le vicissitudini sentimentali. A predominare, dal punto di vista musicale, è ovviamente la patchanka di suoni poc’anzi menzionata, in un vorticoso alternarsi di voci e strumenti, come nell’opener Per Tornare, che dal saltellante ska iniziale si apre verso escursioni jazzistiche, prima degli interventi finali di una fisarmonica tangheira. Influenze latine che ritroviamo peraltro alla base tanto dell’invasato mambo di Lubimaya quanto della suadente samba di La Cuoca. La title track è l’ennesima sarabanda sonica, con i fiati a soffiare ska a pieni polmoni e nuove screziature swingate, alla Fred Buscaglione, a variegare il tutto. Jazz nascosto tra i solchi quindi, ma sempre tuttavia presente, sia nella sua accezione più pura che nelle sue varie contaminazioni, specie con la musica latina, come in Seta Virile o nel fumoso tango di Nausicaa, dove pare di sentire il Vinicio Capossela di Camera a sud. Santo Bevitore dal canto suo allarga ulteriormente lo spettro sonoro, unendo gli stilemi classici della canzone d’autore con la solarità del reggae, e vede la partecipazione vocale di Bunna, deux ex machina degli Africa Unite ed autentica istituzione della musica “in levare” italica. La conclusiva Cuorinbarrique è l’ennesima testimonianza della bontà della formula sonora dei nostri, nonché della compiutezza di un album che si lascia ascoltare tutto d’un fiato.


martedì 6 novembre 2012

Jon Cleary - Occapella!

(Pubblicato su Rootshighway)

Ah, la "Big Easy"; neppure l'immane forza distruttrice dell'uragano Katrina è riuscita a piegarne l'ammaliante flusso sonoro; uno speziato gumbo di note, suoni e lingue, tra le più disparate, al quale in passato ha attinto una nutrita schiera di musicisti. Molti infatti, il mai troppo compianto Willy DeVille su tutti, hanno trovato in essa una rinascita artistica, mentre altri ne sono rimasti talmente stregati da non riuscire più ad abbandonare quei luoghi. Uno di questi è Jon Cleary, pianista e cantante, inglese d'origine, ma da anni residente proprio a New Orleans. Qui oltre ad assorbire gli umori sonori della città, ha stretto amicizie importanti, come quella con Mac Rebennack aka Dr John, autentica icona vivente dello spirito musicale neworleansiano. Sul medesimo piano del "Dottore" si pone senza dubbio la figura di Allen Toussaint, eccelso pianista, oltre che uno dei più prolifici autori partoriti dal bayou musicale della Louisiana. Ed è alla musica di quest'ultimo che Jon Cleary tributa un sentito omaggio con Occapella!. Se sin dagli esordi il nostro si era cimentato nell'esplorazione dell'universo sonoro neworleansiano, con questa sua nuova fatica la sua attenzione si focalizza infatti sulla sola produzione toussaintiana, andando a riscoprire anche brani meno noti, composti dallo stesso sotto lo pseudonimo di Naomi Neville. Strumento guida dell'intero lavoro, e non poteva essere altrimenti, è il piano dello stesso Jon Cleary, il quale si destreggia magistralmente tra i tasti bianchi e neri, abbinando ad una tecnica strumentale invidiabile, un'autentica devozione nei confronti dell'opera musicale presa in esame. E questo traspare da ogni nota qui contenuta, sin dall'inebriante incedere dell'iniziale Let's Get Low Down, nella quale troviamo proprio l'amico Dr John, in quest'occasione anche alla chitarra, che presta la sua consueta gigionesca voce, dando vita, insieme a quelle del titolare e di Bonnie Raitt, ad un fascinoso intreccio vocale; il tutto in un brano che pare arrivare dalla produzione di un Rebennack d'antan, quello di Gumbo per intenderci. Altro gradito ospite è il trio degli Absolute Monster Gentlemen, le cui ugole impreziosiscono il bel esercizio doo-woop di Wrong Number, la divertente Popcorn Pop Pop, per poi sublimarsi in una splendida rilettura acappella, con tanto di beatbox e handclapping, di quel gioiellino che è la title track. Se la mordace Everything I do Gonh be Funky vede al microfono Walter "Wolfman" Washington, Cleary dimostra tuttavia di cavarsela anche in solitaria, come nella soave ed evocativa Southern Nights, nel funk futurista di Viva la Money o nella scalcinata bellezza di I'm gone. Allo strumentale Fortune Teller, con le dita di Cleary che corrono sicure e veloci sui tasti, spetta il compito di chiudere un album che non è solo un omaggio ad un singolo artista ma al frenetico, e mai domo, spirito musicale di un'intera città.

 


giovedì 1 novembre 2012

Will Kaufman - Woody Guthrie, American Radical

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

"Un intero libro dedicato al Guthrie radicale doveva essere scritto; un libro su di un risveglio politico e sulle sue conseguenze; un libro che svelasse e recuperasse il pensatore ossessivo e lo stratega irregolare praticamente sepolto dalle celebrazioni romantiche del trovatore della Dust Bowl". Quali, se non le parole dello stesso autore, riescono a spiegare l’importanza del saggio in questione? Perché è proprio questo l’obiettivo postosi da Will Kaufman, nella stesura del suo libro Woody Guthrie. American Radical (con traduzione a cura di Seba Pezzani), ed esplicato a chiare lettere fin dal titolo.
Nel folto numero delle pubblicazioni, cartacee ma soprattutto sonore di stampo guthriano, che hanno caratterizzato il 2012, centenario della nascita del folksinger di Okemah, il libro di Kaufman spicca come la classica “mosca bianca”. Professore di letteratura americana all’università inglese del Lancashire, Kaufman si dedica, infatti, ad esplorare un lato di Guthrie sconosciuto ai più, troppo spesso oscurato dall’aura mitologica creata intorno alla sua figura nel corso degli anni. Ad essere al centro di una narrazione fluida ed avvincente, è infatti l’essere umano Woody Guthrie, nelle sue molteplici sfumature, tra pregi e difetti, capace tuttavia al contempo di rileggere con straordinaria lucidità e semplicità, attraverso la propria opera musicale, la società americana a lui contemporanea, nelle sue innumerevoli contraddizioni. E proprio qui risiede il maggior merito di Kaufman, ovvero l’averne raccontato, in modo esauriente, l’attivismo politico, al quale Guthrie dedicò gran parte della sua esistenza, prima di arrendersi ad una tremenda e debilitante malattia. Non ci troviamo quindi di fronte alla romantica figura dell’Hobo d’America, nella sua versione edulcorata presentataci da Hal Ashby nel film Bound For Glory, né tantomeno a quel restyling che la sua opera pare aver ricevuto da parte dell’America conservatrice (basti solamente osservare la banalizzazione, al limite del più becero populismo, alla quale è stata sottoposta a più riprese This Land Is Your Land). Ad essere al centro della narrazione è infatti la presa di coscienza politica di Guthrie, sfociata prima nell’adesione al socialismo e poi al comunismo; una “militanza” che ha in parte inizio con la nascita della rubrica “Woody Sez”, tenuta dal nostro sul “People’s World”, e in seguito rafforzatasi ulteriormente con l’arrivo a New York. Ed è a questo punto che il lavoro di Kaufman si fa prezioso, andando a ripescare, negli stessi archivi della Woody Guthrie Foundation, scritti, poesie, testi e disegni, unendo ad essi le testimonianze di coloro che vissero insieme a Guthrie quel periodo di fervida lotta politica. Assistiamo pertanto all’evoluzione del “pensiero politico guthriano”, tra punti fermi e contraddizioni; dalla partecipazione al progetto governativo per la celebrazione della Grand Coulee Dam, passando per una feroce critica al New Deal rooseveltiano, fino alle aspre lotte sindacali; sia con gli Almanac Singers, in compagnia dell’allievo e amico Pete Seeger, che in solitario. Dal pacifismo tramutatosi in un fervido interventismo all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, fino ad arrivare agli anni della Guerra Fredda, delle nascenti battaglie per i diritti civili e dell’oppressione maccartista, l’attivismo politico e culturale di Woody Guthrie pare essersi sempre più rafforzato.
Ad essere presente, come una sottile “linea rossa”, lungo tutto il dipanarsi della narrazione, è proprio questa sua perenne voglia di lottare per un mondo migliore e più giusto, protrattasi mai doma anche nel periodo in cui la feroce Corea di Huntington ne aveva minato mente e corpo. Ed è questo inedito lato della figura di Woody Guthrie ad emergere una volta conclusa la lettura di questo illuminante saggio; l’inossidabile lottatore, capace come pochi altri di trasporre in musica le ingiustizie e le brutture di una società, quella americana, ancor oggi purtroppo funestata dalle cupe e losche figure che la infestavano allora. Proprio per questo l’irruente radicalismo, tradotto su pentagramma, sembra non essere stato minimamente scalfito dal lento trascorrere del tempo, tutt’altro, tanto che la sua opera appare oggi più viva ed attuale che mai.