domenica 26 febbraio 2012

Gang - Gang e i suoi fratelli

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Ci sono giorni che lasciano un profondo vuoto dentro ognuno di noi; giorni bui nei quali forte è la sensazione di impotenza di fronte alla scomparsa di una persona a noi cara. Ci sono però anche giorni nei quali si cerca di esorcizzare questa sensazione d’impotenza su di un palco, in compagnia di amici vecchi e nuovi, suonando e cantando con tutto il fiato che si ha in corpo. A questi giorni appartiene il 23 ottobre 2010, nel quale i Gang, come ogni anno, ricordano Paolo Mozzicafreddo, caro amico scomparso, nonché batterista storico della band. In un vecchio capannone in quel di Villa Potenza di Macerata, i fratelli Severini assurgono a veri e propri maestri di cerimonie, per una serata che li vedrà alternarsi sul palco ad una serie di amici, intenti ad esplorare in lungo e in largo il canzoniere del gruppo marchigiano. Concerto che oggi viene impresso su disco, permettendoci in questo modo di assaporare il clima trasudante di elettricità, passione e sudore che si respirava quella sera.
Aprono le danze gli stessi padroni di casa con la sempre stupenda Quando Gli Angeli Cantano, che colpisce una volta di più per intensità emotiva. E’ tuttavia quando il testimone passa alle altre band coinvolte che il concerto si trasforma in un caleidoscopico viaggio musicale tra i più diversi stili e generi. Si passa così da un’arrembante Chicco il Dinosauro, ad opera degli Hombre all’ombra, che si rifà alla lezione impartita dai Pogues, fino all’irruenza rock dei Fev, che fanno loro Socialdemocrazia. Trasuda elettricità anche il trattamento riservato dai Guacamaya a Fermiamoli, scalfita da rasoiate hardcore punk, mentre profuma di brit pop Il Tempo In Cui Ci Si Innamora, riletta dagli Elymania. La canzone d’autore trova invece un valido rappresentante in Marco Sonaglia con una versione elettroacustica di Paz, mentre i Malavida si divertono a riproporre una combattiva Oltre. Pur ricoprendo la musica un ruolo preponderante, c’è spazio anche per la poesia, con Io So di Pier Paolo Pasolini, recitata da Daniele Biacchessi con l’accompagnamento musicale degli stessi Gang, e con Ugo Capezzali che declama l’autografa Il Faro. Si torna alle canzoni con La Macina che ammanta di folk A Maria, mentre i Ned Ludd ci riportano nuovamente nell’Irlanda di Shane McGowan, prima con Rumble Beat e poi, insieme ad una parte dei Modena City Ramblers, sotto il monicker di Ned City Ramblers, con Kowalsky tra echi irish e atmosfere deandreiane.
Finale in crescendo con i Gang nuovamente sul palco, prima in solitario con una struggente Duecento Giorni a Palermo, e poi per due versioni corali delle sempiterne I Fought The Law e Bella Ciao, brani che rivestono un ruolo fondamentale nell’universo sonoro dei fratelli Severini.
Un album vivo e pulsante, degna testimonianza di una serata tesa a riaffermare, nel ricordo di un caro amico, che Più forte della morte è l’amore.

sabato 18 febbraio 2012

Ani DiFranco - Which side are you on?

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

”Are you part of the solution or are you part of the con? Tell me, which side are you on now? Which side are you on?”; bastano questi pochi versi per capire l’importanza socio-musicale del nuovo album della cantautrice di Buffalo. Un lavoro nel quale l’introspezione intimista di stampo cantautorale, si lega indissolubilmente all’attivismo politico che fin dagli esordi contraddistingue l’opera musicale della DiFranco, con in questo frangente, uno sguardo rivolto al passato, ad artisti come Woody Guthrie e Pete Seeger. Proprio di quest’ultimo, infatti, viene ripresa la versione del traditional che da il titolo all’intera raccolta, quella Which Side Are You On?, diventata nel corso degli anni una tra le protest songs più amate e coverizzate. La DiFranco ne riscrive per l’occasione le liriche, riadattandole alla moderna situazione politico-sociale, irrobustendone al contempo l’impianto musicale, tra chitarre affilate come rasoi, e con basso, batteria e percussioni impegnate a destreggiarsi su di ritmi tribali, ai quali si aggiunge una sezione fiati di stampo neworleansiano. Splendida l’interpretazione vocale della nostra, che urla tutta la propria insofferenza e la propria rabbia, così come è commovente l’incipit del pezzo affidato al solo banjo dello stesso Pete Seeger. Album che inizia tuttavia quasi in sordina con la lirica ed evocativa Life Boat, dove a condurre le danze è la chitarra acustica della stessa DiFranco, in coppia con l’organo di Todd Sickafoose, sui quali si infrangono le scariche elettriche delle chitarre di Adam Levy e di CC Adcock. Più complessa dal punto di vista ritmico è Unworry, grazie anche a un bel lavoro di basso e batteria, con la voce della nostra che si libra in pindariche evoluzioni. Si respira un’aria caraibica in Splinter, merito anche delle percussioni di Mike Dillon e della pedal steel di Michael Juan Nunez. Le introspettive Albacore e Hearse ci riportano invece verso atmosfere più soffuse, esplorando la sfera più intima dell’artista, così come avviene nella delicata Mariachi. A far da contraltare a quest’ultima troviamo la nervosa Amendment e la bluesata If Yr Not, nelle quali a riemergere è l’anima politicizzata della DiFranco. Chiude il disco Zoo, breve acquerello acustico per chitarra e organo. A livello testuale, tuttavia, i punti più alti dell’intero lavoro rimangono, oltre alla già citata title-track, Promiscuity e J. Nella prima la DiFranco espone le proprie idee in fatto di sessualità e legami affettivi, mentre la seconda è una dura disamina, dall’incedere quasi reggae, della triste situazione sociale degli Stati Uniti. Molti gli ospiti illustri, a cominciare dai già menzionati Adam Levy e Juan Nunez, ad Anais Mitchell, fino ai Neville Brothers, ai quali si aggiunge una nutrita schiera di musicisti provenienti da New Orleans. E proprio nella città della Louisiana il disco è stato in parte registrato, per essere poi ultimato a New York, impregnandosi così degli umori musicali della “Big Easy”. Un lavoro coraggioso Which Side Are You On?, nonché testimonianza di come la voglia di lottare della cantautrice si sia ulteriormente acuita e di come la sua voce possieda ancora forza e veemenza, per quella che è sicuramente una delle pagine più affascinanti della sua ormai corposa discografia. Un album da ascoltare e riascoltare, per aprire finalmente gli occhi e scegliere una volta per tutte da che parte stare. D’altronde la domanda oggi, come in passato, rimane la stessa: “Which side are you on?”

giovedì 16 febbraio 2012

Wino & Conny Ochs - Heavy kingdom

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Scott Weinrich, universalmente conosciuto come Wino, era e rimane tuttora uno dei nomi di punta della scena doom, avendo fatto parte e continuando a militare in band seminali come The Obsessed, Spirit Caravan e Saint Vitus. Con cotanto curriculum in ambito heavy, l’uscita due anni fa del suo secondo album da solista, Adrift, era stata una, seppur gradita, sorpresa. Abbandonando le sonorità che ne avevano fino a quel momento contraddistinto l’opera, il nostro aveva infatti optato per un clamoroso taglio con il passato, in favore dell’esplorazione di lidi più acustici. Un folk dalle connotazioni hard, tra vaghe reminescenze metalliche e atmosfere più soffuse, per quello che sembrava essere un affascinante divertissement, o quantomeno un episodio isolato. A quanto pare si trattava invece di un album di transizione, visto che il nostro dà ora alle stampe questo Heavy Kingdom, ampliando ulteriormente il percorso intrapreso con il precedente. Per meglio comprendere la trasformazione sonora avvenuta, basta comparare le cover presenti nel precedente Adrift con quella contenuta nel nuovo lavoro. Nel primo avevano lasciato il nostro alle prese con la motorheadiana Iron Horse/ Born To Lose, nonché con Shot In The Head, dal repertorio dei Savoy Brown, mentre in Heavy Kingdom troviamo un’inaspettata quanto riuscita reinterpretazione del classico di Townes Van Zandt, Highway Kind. Il passaggio dalla rivisitazione di due brani di matrice prettamente hard rock a quella di un brano simbolo del cantautorato made in Texas, è netto, denotando una notevole apertura mentale da parte di Wino, che dimostra di sapersi destreggiare sapientemente con la materia sonora in questione. Si affianca al nostro, in quest’occasione, Conny Ochs, tra l’altro cointestatario del lavoro, il quale svolge un ruolo quasi fondamentale sia in fase di scrittura che in fase di esecuzione. I due approntano undici brani, capaci di conquistare grazie alla loro scarna musicalità tra atmosfere rarefatte e a tratti cupe, rese ancora più affascinanti dall’espressiva vocalità di Wino. Atmosfere plumbee che pervadono l’iniziale Somewhere Nowhere, così come la title track, e il suo quasi omonimo strumentale Heavy Kingdom Jam, le quali mantengono al contempo ben piantate le proprie radici musicali in terreni acustici. Si può comunque osservare come la penna dei due sia in quest’occasione alquanto ispirata, come testimoniato peraltro dalla suadente Traces Of Blood, dagli ottimi intrecci vocali di Dark Ravine e dalla lirica Dust, a parere di chi scrive tra le migliori del lotto. Riuscito anche il connubio tra l’essenzialità della chitarra acustica di Wino e le derive elettriche della sei corde di Ochs, ben evidente in brani come Vultures By The Vines e Here Comes The Siren. Alla pulsante e in odore di rock’n’roll Labour Of Love spetta invece il compito di chiudere degnamente il tutto.Vero punto focale dell’album rimane tuttavia la sofferta interpretazione della vanzandtiana Highway Kind, che mette in luce le capacità d’interprete di Wino, in un genere forse poco “visitato” durante la propria carriera, ma che visti i risultati parrebbe far parte del suo background sonoro da sempre. Heavy Kingdom ha il pregio di essere fruibile quanto accattivante, aprendo una nuova fase della vita musicale di Wino che merita senza dubbio di essere esplorata.

lunedì 13 febbraio 2012

Gordon Bonham - Soon in the morning

(Pubblicato su Rootshighway)

Nome di spicco della scena blues di Indianapolis, Gordon Bonham vanta un curriculum musicale di tutto rispetto, avendo in passato collaborato con veri e propri giganti della musica nera come Pinetop Perkins, Bo Diddley, Billy Boy Arnold, Robert Lockwood Jr e Yank Rachell. A questo va aggiunta un'intensa attività concertistica che ha visto il nostro calcare in più di un'occasione anche i palchi del Vecchio Continente. Qualità musicali che vengono ulteriormente confermate dall'ascolto di Soon in the Morning, terza autografa fatica discografica. Un lavoro quest'ultimo che ha il pregio di rileggere una materia sonora difficile come il blues, in tutte le sue più varie sfaccettature, con la chitarra di Bonham come minimo comune denominatore. Accompagna il nostro una ormai rodata e compatta backing band, che attinge dalla crème de la crème del circuito blues dell'Indiana. Lo shuffle Outta Sight apre il disco come meglio non si potrebbe, con ottimi botta e risposta tra la chitarra e il piano di Kevin Anker, ben supportati da una precisa sezione ritmica. Il citato Anker passa all'organo nella successiva All I Need is a Little Time, dalle atmosfere soulful, con il leader che si destreggia egregiamente anche nel cantato. Atmosfere rarefatte che ritroviamo anche nella rallentata Looking for my Baby, così come nella pianistica Used to be Lovers, trasudanti passione da ogni singola nota. La sincopata Everything but You, rimanda invece a sonorità care a maestri come Albert Collins, con il basso di David Murray e la batteria di Jeff Chapin in grande spolvero. La title track dal canto suo è un'avvolgente slow blues, che ci dimostra come il nostro protagonista si trovi a proprio agio anche nei tempi lenti, come peraltro ribadito dalla conclusiva e splendida Don't Let the Man Get Your Money. Ritmi che tornano invece a farsi nuovamente incalzanti in brani quali lo strumentale Carmel Woman e in Local Honey, quest'ultima con la presenza dell'armonica di Tom Harold, che tinge ulteriormente di blues il tutto. Riuscita parentesi acustica è Get Back, Jezebel con Bonham che si diletta alla dobro, suonata rigorosamente slide, ben sostenuto dal liquido organo di Anker, e da una sezione ritmica tanto essenziale quanto efficace. Vero punto focale del disco è tuttavia l'omaggio a Yank Rachell di The Mule Song (Yank's blues), trascinante blues song, con la chitarra di Bonham libera di muoversi fluida tra i solchi, per quello che si guadagna il titolo di miglior brano della raccolta. In sintesi Gordon Bonham possiede tutto quello che un bluesman di razza può desiderare; un'ottima tecnica strumentale, un'espressiva voce, eccellenti doti compositive e una band che lo asseconda in tutto e per tutto; e tutte queste peculiarità concorrono senza ombra di dubbio alla buona riuscita del disco in questione. Un album questo Soon in the Morning che sono sicuro stazionerà per parecchio tempo nei vostri stereo, diventando anche fedele compagno nei lunghi viaggi in automobile.

sabato 4 febbraio 2012

Sassparilla - The darndest thing

(Pubblicato su Rootshighway)

Creatura multiforme ed in costante evoluzione i Sassparilla. Un work in progress sonoro quello del quintetto di Portland, che li ha portati, dal loro debutto nel 2007 ad oggi, ad attraversare trasversalmente i generi più disparati, reinterpretandoli e fondendoli tra loro alla ricerca dell'amalgama musicale perfetto. Se l'esordio Debilitated Constitution, ci presentava una jug band, intenta a rivisitare a proprio piacimento country-blues e ragtime, già il successivo Rumpus, dell'anno seguente, vedeva un deciso irrobustimento del suono attraverso deliranti dosi di elettricità, in una sorta di punk-roots, alla base anche del loro terzo lavoro, Ramshackle, uscito nel 2010. E' tuttavia con l'odierno The Darndest Thing, che la svolta sonora del quintetto si fa ancor più marcata. Un album scritto e registrato in un momento particolare per la band, caratterizzato dall'improvvisa scomparsa di un caro amico, le cui conseguenze emotive pervadono i solchi di questa loro ultima opera in studio. Ciò che colpisce, da un punto di vista prettamente musicale, è una sorta di smussamento delle spigolosità sonore del passato, in favore di una maggiore attenzione in fase di scrittura ed arrangiamento dei brani. A tal proposito, si è rivelata senza dubbio sensata la scelta di affidarsi ad un produttore esterno, Chet Lyster (già nella band di Lucinda Williams e ora nelle fila degli Eels), il quale ha saputo egregiamente indirizzare l'estro creativo di Kevin "Gus" Blackwell, cantante, chitarrista e principale songwriter della band. Il risultato sono otto piccole storie di ordinaria vita quotidiana, in grado di affascinare grazie alla loro disarmante semplicità, a cominciare dall'opener New Love, coinvolgente up-tempo in bilico tra folk e pop. Non sfigurerebbe, nel repertorio delle innumerevoli marching band che affollano New Orleans, la successiva Same Old Blues, con il banjo a dettare il tempo, ben coadiuvato da una solida sezione ritmica, ad impreziosire il tutto gli splendidi interventi di tromba dal retrogusto jazz. Tempi rallentati per la suggestiva Bone Colored Moon, screziata da violino, armonica e accordion, con la suadente voce di Blackwell, che trova nell'altrettanto espressiva vocalità di Naima, un degno contraltare. Suoni elettroacustici sono alla base di Overcoat, capace di unire elementi rootsy a là Old Crow Medicine Show, con atmosfere care al Tom Waits più jazzy. Il banjo torna protagonista nella cadenzata Confession, dall'inizio quasi in sordina, per poi crescere poco a poco, tanto da guadagnarsi la palma di miglior brano del lotto. La notturna Fumes prende spunto da una chiacchierata, avvenuta in un bar, tra un ragazzo e Blackwell, con quest'ultimo che prova ad immaginare, attraverso la stessa canzone, un'ipotetica vita del primo, tra ritmi percussivi, stridii del violino e delicati abbellimenti melodici ad opera dell'accordion. Rimandi al passato recente dei nostri si possono in parte ritrovare in My First Lover, in cui alle malie sonore attuali si alternano gli sconclusionati cambi ritmici degli esordi. La conclusiva e rarefatta You've Got it Bad, al contrario, vede la band intenta a centellinare note, con la voce di Blackwell ridotta in alcuni frangenti quasi ad un sussurro. Non è lecito sapere a quali ulteriori stravolgimenti sonori i Sassparilla sottoporranno in futuro la propria musica, tuttavia nell'attesa, non possiamo far altro che lasciarci ammaliare dalla bellezza e dalla purezza di The Darndest Thing.

giovedì 2 febbraio 2012

Circo Fantasma - Playing with the ghost

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Titolo quanto mai profetico per il nuovo lavoro dei milanesi Circo Fantasma. Dopo il tributo al compianto Jeffrey Lee Pierce, I Knew Jeffrey Lee del 2006, i nostri tornano nuovamente ad esorcizzare i propri fantasmi musicali in questo Playing With The Ghost. Il tutto attraverso un lavoro, che ha il pregio di riportare alla luce sonorità indie rock di stampo ottantiano, venate di country, blues e folk, in una sorta di seduta spiritico-musicale. Musica che trae la propria linfa vitale tra le desolate e polverose lande americane, attraversando poi l’oceano, per perdersi tra le nebbie di Berlino, nella liricità di gruppi come Einsturzende Neubauten e concludendo il proprio viaggio nella terra dei canguri tra le spettrali e deliranti atmosfere dei Birthday Party. Tredici brani divisi tra reinterpretazioni ed originali, dove fa la sua comparsa un vero fantasma, l’ex Swell Maps, Nikki Sudden, ormai presenza incorporea per davvero, il cui contributo in questo frangente ha un peso specifico notevole. Sudden non è però il solo ospite di rilievo, in quanto tra i solchi del disco fanno capolino oscuri personaggi come Jeremy Gluck, già voce del combo garage-power-pop Barracudas; Phil Shoenfelt, autore del romanzo culto Junkie Love e il leader degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat. Alla cupa The Garden, dal repertorio degli Einsturzende Neubauten, il compito di aprire la raccolta, con la chitarra di Nicola Cereda, il quale si destreggia anche nella creazione di distorti loop, e il piano di Carlo Cereda ad ammantare il tutto di sonorità alternative country. Ottima anche la riproposizione di Nick The Stripper dei Birthday Party, più sensuale ed avvolgente rispetto alla delirante versione originale, con la profonda ed espressiva voce di Nicola, che non sfigura davanti a quella di un Nick Cave d’antan, ulteriormente valorizzata dagli interventi del sax di Alberto Buzzi. Contributi vocali di grande spessore anche quelli di Phil Shoenfelt, nella propria ed incalzante The Devil’s Hole, puro Americana sound, o nella debordante furia rockista di When The Rivers End, dal songbook dei Jacobites, nelle cui fila militava proprio Nikki Sudden. Ed è quest’ultimo ad assurgere a vero co-protagonista, contribuendo alla stesura di alcune delle tracce più riuscite della raccolta, prestando inoltre la propria voce, come nella malinconia pianistica di When The Pope Goes Back To Avignon o nell’onirico reading Port Of Farewell. I Circo Fantasma gli rendono poi ulteriore omaggio, prima riprendendone, aiutati dalla voce di Jeremy Gluck e dall’organo di Amaury Cambuzat, The Road Of Broken Dreams, sorta di manifesto per tutti i beautiful losers, per poi fare proprie Kiss At Dawn, screziata dall’ukulele e dalla fisarmonica, e la quasi soffusa When I Cross The Line. Non poteva mancare anche in quest’occasione un rimando al proprio eroe musicale, Jeffrey Lee Pierce, del quale viene riproposta una maestosa Carry Home. Ad essere senza dubbio ispirata è anche la penna del combo milanese, come ben si evince dalla dylaniana Shooting Star, con il liquido organo di Carlo che trova un ideale contrappunto nel piano di Massimo Turati; o dalla conclusiva The Ghost In Me, in bilico tra country ed sonorità jazzate. Con Playing With The Ghost i Circo Fantasma sono riusciti nella non facile impresa di confrontarsi in modo del tutto spontaneo con i propri eroi musicali, dimostrando al contempo come la loro musica sia ormai matura per essere esportata anche oltre confine.