giovedì 26 dicembre 2013

Wild Bones - The road to Memphis

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Formatisi nel 2009, i ragusani Wild Bones hanno letteralmente bruciato le tappe di un percorso geografico-musicale che, dalla nativa Trinacria, li ha visti sbarcare nientemeno che negli Stati Uniti. Una terra, quest’ultima, sognata dalla quasi totalità di coloro che, nati al di fuori del territorio a stelle e strisce, decidono d’imbracciare uno strumento musicale; ed ancor più agognata se il genere al quale si è deciso di dedicare la propria “missione” è il blues. Appartengono a questa “parrocchia” gli stessi siciliani, influenzati tanto dal lamentoso stridore deltaico, quanto da ben più muscolari sonorità elettriche, figlie bastarde di quel blues, al quale il Lone Star State ha dato i natali. Un amalgama, quello approntato dal quartetto, che li ha portati a primeggiare alle selezioni italiane dell’International Blues Challenge, tanto da guadagnarsi l’onore di rappresentare gli italici colori alle finali della medesima competizione, tenutesi proprio in territorio statunitense, in quel di Memphis. E quasi fosse un esorcizzante rituale scaramantico, il quartetto, poco prima di imbarcarsi per l’inaspettato viaggio oltreoceano, decide di dare alle stampe il proprio album d’esordio, l’autoprodotto ed emblematicamente intitolato The Road to Memphis. Un lavoro nel quale la cifra stilistica del combo viene esposta nelle sue più diverse sfaccettature, siano esse rocciose digressioni chitarristiche, in odore di Texas blues, quanto clangori metallici d’arcaica discendenza. Un connubio intrigante, perlomeno sulla carta, visto che la perizia tecnica, sia dei singoli, che del combo nel suo insieme, messa in luce dallo stesso album, non trova qui sbocco in brani d’autografa composizione, ma si limita ad una, spesso pedissequa, imitazione dei propri “padri putativi”. Ne è esempio l’iniziale, “zztopiano”, trittico, dove tra il boogie al testosterone di Tush e La Grange, e una torrida She’s Just Killing Me, i nostri si muovono fin troppo fedelmente sulla via tracciata dal barbuto trio di Houston. Reminescenze deltaiche affiorano, dal canto loro, tanto in Walkin’ Blues, a “scomodare” un fantasma, quello di Robert Johnson, che pare non riuscir davvero a godere del proprio, eterno, riposo; quanto nello sferragliare country blues, dell’ennesima riproposizione di Rollin’ and Tumblin’. Decisamente più apprezzabile è l’inclusione di Good Time Charlie, umorale pulsare in bilico tra funky e soul, opera della penna di Bobby Blue Bland, nonchè sintomatica di un seppur minimo tentativo di ampliare il proprio ventaglio sonoro, ulteriormente rimarcato da una breve, strumentale, quanto riuscita ripresa della bonamassiana The River, lancinante esercizio per il bottleneck di Davide Sittinieri. Nel loro cammino verso Memphis, i Wild Bones hanno, senza ombra di dubbio, affinato una notevole solidità e compattezza sonora, ben avvertibili tra solchi di questa loro opera prima, dove è, tuttavia, altrettanto evidente la mancanza di una ben formata personalità.

venerdì 20 dicembre 2013

Edaq - Dalla parte del cervo

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Un progetto dalla notevole valenza artistica, quello a nome Edaq, tra rarefazioni moderniste e rispetto per la tradizione musicale della propria terra d'origine, nel quale vengono fatti confluire l'estro e il talento di alcuni tra i maggiori musicisti, folk e non, del Piemonte, qui finalmente liberi tanto di dar sfogo alle proprie voglie sperimentali, quanto di portare avanti un'ammirevole ricerca etnomusicologica. Risultato di questo pittoresco incrocio di strumenti, sia d'arcaica provenienza che di più moderna ed elettronica fattura, è un esordio, Dalla Parte Del Cervo, capace, sin dalle prime note, d'avvolgere l'ascoltatore, con la proprie digressioni strumentali in perenne divenire, accompagnandolo ad esplorare, tra nebbie d'evanescenza sonica e timidi sprazzi di luce solare, le valli occitane e franco-provenzali. Dodici i brani qui contenuti, a comporre una policromia timbrica sintetizzata, dagli Edaq medesimi, con la suggestiva denominazione di “folktronica dall'arco alpino”. Un fascinoso susseguirsi di sonorità senza tempo, elettronici scampoli rumoristici e field recordings, tra arie tradizionali, divagazioni progressive, meditazioni jazzistiche e algide oasi elettroniche. Un continuum di strumentale enfasi narrativo-musicale, ricco di saliscendi melodici e improvvisi “colpi di scena” armonici, frutto tanto d'una freschezza di fraseggio, quanto d'un incontenibile fervore esecutivo. Un esordio a dir poco pregevole, Dalla Parte Del Cervo, dove modernità e tradizione sono indissolubilmente legate in un flessuoso, lieve, danzare d'atemporale bellezza.

sabato 14 dicembre 2013

Powerdove - Do you burn?

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Dopo un primo EP in solitario, Live From The Maybeck House, ed un esordio sulla lunga distanza, Be Mine, registrato in trio, Annie Lewandowski giunge, oggi, al terzo capitolo della propria storia musicale, a nome Powerdove. Composto e impresso su nastro tra l'Inghilterra e gli Stati Uniti, Do You Burn?, vede il prezioso apporto del deerhoofiano John Dieterich, e del francese Thomas Bonvalet, riproponendo una formazione a tre, pressochè perfetta, nella sua essenzialità strumentale, per dar vita ai deliri onirici della “cantautrice” del Minnesota. Un ipnagogico comporre concretizzatosi in tredici tracce di scheletrica liricità, tra arcaici intarsi acustici e visionarie divagazioni avant folk. Un'estetica lo-fi capace di generare piccole gemme d'evanescente scarnificazione quali Fellow, narcolettica nenia dove anche i più acuti stridori paiono avere un ruolo fondamentale nella sparuta economia sonica della stessa; e il pianismo dissonante di Under Awnings, su di un ritmico pestare di mani e piedi. Come un piccolo raggio d'iridescente luce, a squarciare le oppiacee nebbie addensatesi fin qui, giunge, quasi inaspettata, Love Walked In, tra riverberi elettrici e solari arie caraibiche. E se nello sghembo declamare di California pare di trovarsi di fronte ad una Laura Veirs in pieno trip lisergico, tanto il lento pizzicare del banjo di Red Can Of Paint, quanto la laconica ballata All Along The Eaves, ci riportano verso uno spartano folk dai toni seppiati. Sintomatiche delle velleità improvvisative dei tre sono invece le oscillazioni melodico-ritmiche di Out On The Water, prima di tornare ad immergersi in plumbee atmosfere, in Out Of The Rain, dove ad incantare, sui soli “rintocchi” delle corde del contrabbasso di Dieterich, è la voce della Lewandowski, quasi un sussurro d'eterea malia. Un album, Do You Burn?, pur nella sua minimalistica intelaiatura, necessitante d'un ascolto attento e partecipe, magari nell'intimità avvolgente delle cuffie, per essere capito ed assaporato appieno. Armatevi pertanto di una buona dose di “coraggio sonico” e prestate un orecchio all'operato di Annie Lewandowski, ne sarete, più che piacevolmente, sorpresi.

venerdì 13 dicembre 2013

Barranco - Ruvidi, vivi e macellati

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Nell'odierno mercato discografico, italico e non, per un combo, al suo esordio, è sempre più difficile riuscire ad emergere nel mare, spesso incontrollato ed incontrollabile, di quotidiane nuove uscite. Un rischio che, perlomeno ad ascoltare quanto contenuto nei suoi solchi, non correrà Ruvidi, Vivi e Macellati, primo vagito dei padovani Barranco. Un lavoro concepito in modo quasi certosino, sia a livello visivo, e tattile, con un artwork in legno, forgiato a mano in una serie limitata di 300 copie, quanto sonoro, complice una personale visione della materia folk. Filo conduttore dell'intero lavoro è una matrice prevalentemente acustica, con protagonisti i più diversi strumenti a corde, ai quali viene affiancato il canonico battere d'una moderna sezione ritmica. Tra raffinate trame melodiche d'altri tempi e odierna irrequietezza percussiva, i nostri danno vita a dieci composizioni di difficile collocazione musico-temporale, nel loro continuo sfuggire a univoche catalogazioni sonore. Se fin da un primo ascolto spicca l'ottimo lavorio delle dita sulle corde, dalla chitarra acustica, all'ukulele, passando per il mandolino, il vero tratto distintivo della proposta sonora barranchiana rimane tuttavia la voce di Alessandro Magro, quasi un moderno cantastorie, nella sua affabulatoria declamazione di liriche quantomai ricercate. Ne sono esempio gli echi folk, d'albionica provenienza, di Le Porte Di Orlova, in un sublime intrecciarsi di corde acustiche, così come le antiche arie barocche pervadenti la trattenuta ballata Da Questa Parte, libera solo nel finale di dispiegarsi verso più assolati lidi, precedentemente battuti dalla Bandabardò. La ben più robusta Astenia sembra invece, nei suoi intermezzi strumentali d'ampio respiro, riprendere la lezione dei Modena City Ramblers irish oriented di Raccolti, mentre una più decisa sterzata sonora avviene sulle agguerrite note gipsy folk di Milite. E se nella scura, marziale, Un Inverno, si avverte maggiormente il contributo strumentale di basso e batteria, Un Giorno In Più Non Farà Male è un ribollente tourbillon sonico con l'estro creativo dei cinque padovani libero di mostrarsi, senza più inibizione alcuna. Nel loro muoversi, con disinvoltura, tra passato e presente, i Barranco sono riusciti a confezionare un esordio, di convincente quanto stuzzicante atemporalità, al quale non dedicare, più di, un ascolto sarebbe un vero peccato.

lunedì 9 dicembre 2013

Gto - Little Italy

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Attivi da più di vent’anni, i GTO giungono, con un percorso musicale condotto, a passo deciso, su di una strada lastricata di solidi mattoni folk’n’roll, al traguardo, ragguardevole, del quinto album. Una musica, quella dell’ensemble umbro, capace di far riflettere ballando, strappando allo stesso tempo un sorriso, senza cadere nella mera scopiazzatura degli stilemi d’italico folk, combattente e non, in questi anni depredati invece, con risultati spesso alterni, da più d'una compagine. Pur essendo presenti tracce dei saltelli elettroacustici a marchio Bandabardò, così come le digressioni percussive terzomondiste dei Ramblers emiliani, i nostri dimostrano ancor una volta la propria, inflessibile, devozione al verbo del folk’n’roll, variegando, tuttavia, i propri pentagrammi con richiami alla tradizione cantautorale autoctona, e luccicanti melodie, dal flavour pop. Su quest'improbabile patchwork stilistico sembra essere costruita l’opener Barabba, forse, a tratti, fin troppo ridondante nel suo assiepare ardire ritmico in levare, inserti fiatistici e sprazzi recitativi. Di ben altra pasta è la successiva Il Rude, dove pare di ascoltare una tetra rilettura, di un brano deandreiano, ad opera di Marino Severini, accompagnato alla chitarra acustica da Martin Gore, in libera uscita modiana. Una voce, quella di Stefano Bucci, frontman degli umbri, che presenta più d’una somiglianza proprio con quella del summenzionato Severini, come, ulteriormente, messo in luce nella conclusiva Festa Popolare, ruspante “caciara” folk’n’roll che non sfigurerebbe nel repertorio degli stessi Gang. La voglia dei nostri di “sporcare” il proprio primigenio tessuto sonoro si manifesta tanto nella conturbante title track, analisi socio-musicale del nostro “piccolo paese”, quanto nello sconfinamento balcanico di Lumea Mea Este, dove, con più cura, vengono calibrati, i vari apporti strumentali. Sono le atmosfere del border americano, invece, ad avvolgere una Granelli Di Sabbia di desertico, calexichiano, lignaggio. La fisarmonica di Luigi Bastianoni, tanto con il suo mantico ansare latino in Montedoro, quanto con il contrapporsi lieve all’elettricità della sei corde, nella mossa bellezza della pianistica Cielodivento, spicca senza dubbio per importanza all’interno dell’economia sonora del combo, diventandone anzi vero e proprio elemento peculiare. Un album sicuramente piacevole all’ascolto, Little Italy, con alcuni guizzi di penna, nonchè strumentali, più che pregevoli, ma inficiato, in parte, da una produzione a tratti un po’, troppo, “laccata”.

lunedì 2 dicembre 2013

Antun Opic - No offense

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Dopo aver girato mezza Europa tra le fila del collettivo cabaret punk Storm & Wasser, fautore di folli perfomance in bilico tra musica e teatro, Antun Opic esordisce oggi, discograficamente, a proprio nome, con No Offense, album in cui la teatralità interpretativa, affinata proprio con la precedente esperienza artistica, pare essere uno degli elementi peculiari. Teatralità, ulteriormente acuita dalla duttile ugola del nostro, tramite la quale si viene condotti in un intricato dedalo d’influenze, andanti a comporre una personale, quanto variegata, cifra stilistica. Accompagnato dal proprio, vecchio, maestro di chitarra, Tobias Kavelar, e dal basso di Horst Fritscher, Opic tuttavia opta per un organico “aperto”ai più disparati contributi strumentali. Dal jazz manouche, discendente diretto di Django Reinhardt, alla lucida follia del Tom Waits più stralunato, fino ai toni crepuscolari dei primigeni Felice Brothers; questo l’ampio spettro sonoro entro cui si aggira a piè spinto il cantautore tedesco, ideale commento musicale alle peripezie degli strampalati personaggi popolanti l’immaginifico mondo opichiano. Reminescenze gipsy jazz innervano così l’opener Hospital, eccentrica rivisitazione dell’opera reinhardtiana, prima di addentrarsi, tra il pizzicare delle corde di un banjo e i sommessi battiti percussivi di Bulletproof Vest, in territori di bucolica quiete folk. Di stampo cantautorale sono invece tanto la struggente introspezione della title track, con un minimale accompagnamento, affidato alle sole corde acustiche delle chitarre e al pulsare discreto del basso, ad enfatizzarne oltremodo la liricità testuale; quanto una Moses d’onirica ascendenza vernoniana. Da autunnali paesaggi Americana provengono invece la livida We Don’t Give A Damn, così come la leggiadra melodia, a passo di valzer, di Troubled Waltz, entrambe più vicine alle Catskills Mountain dei Felice Brothers che all’Europa gitana di Django Reinhardt. Incantevole, tanto per costruzione melodica, quanto per caratura interpretativa, è Warm, sorta di talkin’ folk arricchito dal soffiare jazzy d’un sassofono. Ballonzolanti movenze swing caratterizzano invece la gigionesca The Informer, con l’ugola di Opic a dir poco graffiante, nel suo cavernoso declamare waitisiano; bissando poi il tutto nella piccante esuberanza di Juanita Guerolita. Una personalità musicale policroma e debordante quella di Antun Opic, capace di dar vita ad uno sfaccettato, convincente, esordio.

Cesare Carugi - Pontchartrain

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

La strada, sia essa una polverosa ‘rural route’ americana o un’altrettanto sperduta mulattiera nostrana, rimane pur sempre una lunga, ed irta d’ostacoli, striscia di terra, da percorrere inseguendo, a volte arrancando altre correndo a perdifiato, un sogno, da qualche parte laggiù dietro l’orizzonte. E sulla medesima strada ha avuto inizio, tre anni fa, il cammino musicale del cecinese Cesare Carugi con un esordio, Here’s To The Road, di più che pregevole fattura. E di strada il buon Carugi ne ha percorsa davvero parecchia da allora, macinando insieme alla sua fida chitarra acustica, chilometri su chilometri, in un incessante viaggiare, con un occhio rivolto aldilà dell’Oceano, a quegli Stati Uniti, da sempre parte fondamentale nella sua crescita umana e musicale. L’influenza di una terra, quella statunitense, permeante oggi anche la sua seconda fatica discografica, fin dal titolo, Pontchartrain, ovvero il lago situato nei pressi di New Orleans. Ed al ribollire di suoni e ritmi della città della Louisiana sembra attingere il songwriter toscano, arricchendo, in tal modo, la sua già variopinta tavolozza sonora, con inedite, scure, tonalità bluesy, forgiando un suggestivo patchwork, nel quale coesistono in egual misura folk, rock e per l’appunto blues. Un mood cupo, dal crepuscolare fascino, quello che pervade i solchi di Pontchartrain, le cui liriche trasudano dolore, perdita e sconfitta, pur recando al contempo un flebile messaggio di speranza. Un album incentrato sulle debolezze umane e su di una natura, troppo spesso violentata, la cui feroce vendetta si manifesta attraverso autentici disastri ambientali, quali il devastante uragano Katrina, abbattutosi proprio su New Orleans, o l’altrettanto drammatico terremoto che ha colpito, e ferito nel profondo, l’Emilia Romagna; dolorosi avvenimenti, quest’ultimi, alla base della genesi dello stesso Pontchartrain. E se il nostro nel trasporre su disco la propria urgenza espressiva viene affiancato da un piccolo, compatto combo, guidato dal “vecchio compagno di strada” Leonardo Ceccanti, come già per l’esordio, anche in questo frangente, troviamo la presenza di un nutrito gruppo di ospiti, i cui singoli apporti strumentali arricchiscono ulteriormente il già ispirato frutto della penna del cecinese. Un tourbillon di suoni, volti e strumenti quindi, a cominciare dall’opener Troubled Waters, ispirata proprio alle torbide acque del lago che titola l’opera, robusta digressione in bilico tra rock e blues, complice anche il tagliente bottleneck di Paolo Bonfanti; passando per il parco intreccio elettro-acustico, tra chitarra, mandolino e piano, dell’elegiaca Carry The Torch, dedicata al compianto Carlo Carlini; per far ritorno, infine, in territori di chiara matrice nera, nella scalpitante Pontchartrain Shuffle, con la resofonica di Francesco Piu a spargere dolenti note bluesy. Disegna invece onirici arabeschi melodici il violino di Chiara Giacobbe nella splendida ballata, in odore d’Americana, Drive The Crows Away, con la voce di Sabina Manetti a doppiare quella dello stesso Carugi. Dalla profonda provincia americana si passa a girovagare, con il blues “delle ore piccole” di My Drunken Valentine, tra i fumosi bassifondi di una tentacolare metropoli, dove l’autocostruita sei corde di Marcello Milanese si muove suadente come una ballerina di lap dance. Sontuosa è senza dubbio l’accoppiata pianoforte-sax della struggente When The Silence Breaks Through, prima del commiato affidato ad, una quasi farrariana We’ll Meet Again Someday, tenue anelito di speranza, scritta e arrangiata insieme agli amici Mojo Filter. Un songwriting evocativo quanto di spessore ed una voce d’indubbia versatilità interpretativa, il tutto unito ad un solido background musicale, affondante le proprie radici nel fertile humus statunitense; queste le peculiarità di un songwriter al quale i, castranti, confini italici cominciano a stare davvero stretti.

sabato 30 novembre 2013

Emily Herring - Your mistake

(Pubblicato su Rootshighway)

Texana di nascita ma trasferitasi per più di dieci anni in quel di Portland, Emily Herring, nel 2010, fa alfine ritorno al proprio suolo natio, stabilendosi in quel di San Marcos, cittadina a pochi chilometri da Austin. La fervente scena alternative folk oregoniana non sembra tuttavia aver lasciato traccia alcuna nel pentagramma di una songwriter fin dagli esordi orientata verso un personale intreccio tra western swing, tejano music, country tradizionale e arcaici sentori deltaici. Distante anni luce dalle pailettes e dai lustrini di quella enorme "catena di montaggio del country" chiamata Nashville, la Herring possiede tanto una fervida vena autoriale, che ben si traduce in liriche d'evocativa forza poetica, quanto una voce pressoché perfetta, nella sua indolente inflessione, per interpretare quanto prodotto dalla propria penna. Camicia, cappello da cowgirl e un paio di vistosi occhiali la avvicinano, perlomeno visivamente, ad una Mary Gauthier trapiantata nel Lone Star State, provvista tuttavia di una vocalità capace tanto di evocare lo spettro di Patsy Cline, quanto, in più di un frangente, di ricalcare la rochezza di Lucinda Williams. Sintomatiche, dell'affinità vocale con quest'ultima, sono sia le derive alternative country di Turquoise Earrings, che il vivido splendore di One Sip Of Water, complice il fluire armonico della dobro di Benjamin Dewey. A far da contraltare alla chitarra della Herring, sia nei tempi sostenuti di una vibrante Wanna Holler, che nell'afflizione pervadente Terlingua, troviamo altresì la sei corde elettrica di Brian Kelley, protagonista anche nello scalpitare di Stifling Its Sound, dove si avvertono le reminescenze di un passato da rockabilly singer. Profuma invece di western swing l'opener Austin (Ain't Got No) City Limits, sorta d'ipotetica session con gli Asleep At The Wheel assoldati quale backing band per Patsy Cline, mentre la title track, dal canto suo, ha tutte le carte in regola per diventare una classica ballroom song, movimentando le notti, a venire, nei locali di Austin e dintorni. La fluttuante ariosità di Praire Lea mostra invece il lato più introspettivo della nostra, la quale incanta, per intensità interpretativa, in una Don't Waste Time, trasudante country da ogni singola nota. Il finale, affidato agli stridori blues di One Steals The Load, ci porta invece dalle parti del Delta, a rimarcare un'influenza, quella della primigenia musica afroamericana, alquanto marcata già nelle precedenti prove in studio. Emily Herring rappresenta il più fresco, genuino nonché vitale esempio di come si possa, oggi, suonare autentica country music, fregandosene bellamente degli stereotipi di "genere" imposti dal mercato discografico. E se il risultato di tale presa di posizione artistica è un lavoro della bontà di questo Your Mistake, non ci rimane che augurarle di continuare, imperterrita, il proprio cammino lungo questa parte "scura" della strada musicale.

giovedì 28 novembre 2013

Radical Face - The Family Tree: The Branches

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Scrittore, per nostra fortuna, mancato, a causa d’un irreparabile guasto del proprio hard disk (nel quale erano contenuti ben due romanzi quasi completi), Ben Cooper decide tuttavia d’irridere la malasorte e incanalare il proprio fervore creativo in ambito musicale, creandosi così in poco tempo, sotto lo pseudonimo Radical Face, una prolifica carriera cantautorale. Una vena narrativa mai affievolitasi quindi, con il trascorrere del tempo, anzi capace di dar vita alla storia, fittizia, di una famiglia del diciannovesimo secolo, i Northcotes. Una vera e propria saga, cristallizzatasi, inizialmente, in un primo capitolo discografico, emblematicamente chiamato The Roots (Le radici), pubblicato nel 2011, e registrato nel capanno degli attrezzi della casa materna, a Jacksonville, utilizzando strumenti musicali presenti all’epoca delle vicende narrate. Un modus operandi quest’ultimo, caratterizzante anche la stesura di The Branches (I rami), secondo capitolo della medesima storia familiare, trasposto su nastro mediante una strumentazione, nella sua quasi totalità, presente tra il 1860 e il 1910, con giusto qualche piccola concessione “modernista”. Un tessuto musicale di spartana essenzialità, leggermente increspato da minimali scintille sperimentali e mai invadenti rumori ambientali; questa la linfa vitale dei nodosi “rami” cooperiani. Rami sui quali sono spuntati germogli di verde fascinazione folkie; quali il palpitare uggioso di Holy Branches, o una The Mute di sgangherata grazia, sospesa tra il Justin Vernon più riflessivo e le sghembe sincopi ritmiche dei Lumineers. Un arcolaio sonico, quest’ultimo, attraverso il quale viene tessuta anche Summer Skeletons, sontuoso intreccio tra il picking gentile di una sei corde acustica, le raffinatezze barocche del pianoforte e svolazzanti intarsi violinistici. E se Chains colpisce per la sua costruzione melodica in divenire, passando dal clangore iniziale di ferree catene a brumose suggestioni avant folk, in The Gilded Hand maggior spazio viene lasciato all’ardire compositivo cooperiano, tra rumori di fondo, tonfi percussivi ed insinuanti pulviscoli armonici. E’ tuttavia con la conclusiva We All Go The Same che il songwriting del Nostro raggiunge vette di pura eccellenza, in una magnifica ballata pianistica, pervasa da incantevoli arie irish. Un tenue barlume di bellezza sonica, The Branches, a rischiarare la grigia tetraggine di un piovoso autunno, ottimamente composto ed orchestrato da un cantautore a dir poco magistrale nel dosare con perizia sperimentazione e arcaicità.

The Waterboys @ Auditorium - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)    

La musica è, da sempre, uno dei modi migliori per viaggiare, nei più sperduti angoli del globo, senza, in realtà, muoversi dalla propria poltrona. Una materia viva, aperta alle più differenti contaminazioni, nonché ideale “veicolo” con il quale macinare chilometri, su di un’immaginifica cartina topografica. Proprio un suggestivo viaggio spazio-temporale hanno avuto la fortuna di compiere i convenuti questa sera, all’Auditorium di Milano, per assistere al ritorno sull’italico suolo dei Waterboys. Non appena entrati nella piccola sala, infatti, gettando una rapida occhiata verso il palco, ci si ritrova catapultati indietro di più di venticinque anni, di fronte alla Spiddal House, al tempo agreste rifugio irlandese degli stessi Waterboys, che proprio tra quelle mura concepirono e, in parte, registrarono il loro indiscusso capolavoro, Fisherman’s Blues, del quale quest’anno ricorre, per l’appunto, il venticinquennale della pubblicazione. Una genesi sonora, da dividersi, geograficamente, in egual modo tra la verde Irlanda e la solare San Francisco, caratterizzata da una bulimia compositiva capace, al tempo, di apporre su pentagramma, ben più dei brani contenuti nei castranti solchi dell’LP dato alle stampe, come peraltro ben evidenziato dal lussureggiante cofanetto Fisherman’s Box, pubblicato pochi mesi fa, e contenente i brani all’epoca inspiegabilmente accantonati. Proprio il “compleanno” dell’album medesimo è stato anche il pretesto per il riavvicinamento di coloro che ne furono i fautori, ovvero Steve Wickham e Anthony Thistlethwaite, nuovamente sul palco insieme a Mike Scott, perpetuatore unico, in questi anni, del verbo dei “ragazzi acquatici”. Un’occasione quindi, più unica che rara, quella concessaci dai nostri, con questo Fisherman’s Blues Revisited Tour, visto, oltremodo, che non si sarebbero limitati a suonare pedissequamente l’album in questione, ma avrebbero, con la selvaggia libertà espressiva di quei giorni lontani, ripercorso in lungo e in largo la loro discografia. L’inizio è affidato tuttavia a Strange Boat, estrapolata proprio da Fisherman’s Blues, con il solo Scott a guadagnare dapprima il proscenio, raggiunto poco dopo dal violino di Wickham e dal mandolino di Thistlethwaite, prima di un finale alla cui coralità strumentale partecipano attivamente anche il basso di Trevor Hutchinson e la batteria di Ralph Salmins. Cuore pulsante dell’intera performance sarà tuttavia proprio Mike Scott, la cui voce sembra non aver perso, con il trascorrere del tempo, la propria graffiante, evocativa, poeticità. Quasi un folletto, nel suo destreggiarsi tanto con la chitarra acustica quanto con il piano elettrico, grazie al quale viene riproposta una vigorosa A Girl Called Johnny, proveniente nientemeno che dal loro eponimo esordio, datato 1983. Se tra le perle dimenticate, e fortunatamente riportate alla luce con il recente box, facevano bella mostra di sé alcune rivisitazioni del songbook dylaniano, questa sera l’omaggio, a colui che può essere considerato quale vero e proprio maestro per lo stesso Scott, viene tributato con una Girl From The North Country capace d’unire, tra afflato d’americano folklore e sentori irlandesi, le due sponde dell’Oceano Atlantico. Dal medesimo box provengono anche una Stranger To Me, eseguita dai cinque come se facessero parte d’un vetusto gruppo country; così come il blues pianistico Tenderfootin’, alla sua “prima”, on stage. E’ tuttavia il folk, rinvigorito nella scheletrica ossatura da un midollo di stampo rock, la materia sonora prediletta dalla compagine scozzese, come peraltro ribadito, poco dopo, dal passo deciso di una When Ye Go Away, che il lavorio al bottleneck di Thistlethwaite vira verso lidi country; o da una sempre magnifica When Will We Be Married?, con il piano e violino a tracciarne, in una simbiosi pressoché perfetta, la limpida linea melodica. Le pause dalle sedute di registrazione americane di Fisherman’s Blues furono, inoltre, un più che buon pretesto per autentici vagabondaggi attraverso la Mill Valley, con tappa ultima il Village Records, dove fare incetta di vecchi vinili di gospel, blues e country. Proprio grazie a questi acquisti americani avvenne la scoperta di Come Live With Me, accorata ballata amorosa, resa celebre da Ray Charles, e questa sera riproposta, con le mani di Scott quasi ad emulare, sui tasti, quelle charlesiane. Un piccolo problema all’amplificazione del suo violino non scoraggia Wickham che, dopo aver allietato i presenti con un puntato reel, eseguito davanti al microfono della voce, una volta ovviato al problema, guida le danze nella forsennata rivisitazione del tradizionale Raggle Taggle Gipsy, testimonianza di come le radici musicali del gruppo siano ancora saldamente ancorate nella natia Scozia. We Will Not Be Lovers, con Scott ad imbracciare la sei corde elettrica, è una nervosa valvola di sfogo della propria veemenza rockista, prima che il tutto venga stemperato, con un nuovo ritorno in terra americana, nelle lamentevoli note country di una I’m So Lonesome I Could Cry, in memoria del leggendario Hank Williams, a dir poco da brividi. Atmosfere da fumoso pub newyorkese si respirano in Blues For Your Baby, terreno ideale per le evoluzioni solistiche del sax di Thistlethwaite, che si ripete poco dopo in un’intensa, scarnificata, Don’t Bang The Drum, eseguita in trio. Dal recente An Appointment With Mr. Yeats proviene invece Mad As The Mist And Snow, la cui grazia melodica si libra leggera sulle ali di un reel, per soli chitarra acustica e violino, prima del conclusivo rinforzo ritmico di organo, basso e batteria. Se con la bucolica liricità di Sweet Thing, inframmezzata come di consueto dal reprise beatlesiano di Blackbird, ci addentriamo fra le “settimane astrali” morrisoniane, un autentico boato accoglie le prime note d’una attesa, meravigliosa Fisherman’s Blues, con la quale i cinque salutano, tra gli applausi a scena aperta. E’ tuttavia solo un attimo, giusto il tempo di invocarne a gran voce il nome, ed eccoli tornare on stage, dove l’archetto di Wickham, assurge a vero protagonista, sprigionando arie irish sulle note della giga Dunford’s Dancy, accompagnato dal battito di mani di tutti gli astanti, prima di una conclusiva, pianistica, The Whole Of The Moon. Il pubblico pare ancora affamato di musica, a ragion veduta vista la qualità di quella proposta finora, tanto da convincere Scott e compagni a ritornare una seconda volta sul palco. E se il fervore congregazionale del gospel On My Way To Heaven spinge la platea ad abbandonare i propri posti a sedere per assieparsi sotto il palco, a danzare, le note di Saints And Angels rappresentano il vellutato commiato da un magico viaggio che, dalla plumbea tristezza autunnale di una Milano novembrina, ci ha portato a visitare i luoghi dove un album imprescindibile, quale Fisherman’s Blues, è stato composto e registrato, da una compagine capace di farci rivivere, oggi, la malia creativa di quei giorni, per una sera, non poi così lontani.

SETLIST:

Strange Boat
Higher bound
A Girl Called Johnny
Girl From The North Country
Stranger To Me
When Ye Go Away
Tenderfootin’
When Will We Be Married?
Come Live With Me
Raggle Tagglle Gipsy
We Will Not Be Lovers
I’m So Lonesome I Could Cry
Blues For Your Baby
Don’t Bang The Drum
Mad As The Mist And Snow
Sweet Thing
Fisherman’s Blues

ENCORE
Dunford’s Dancy
The Whole Of The Moon

ENCORE 2
On My Way To Heaven
Saints And Angels

martedì 26 novembre 2013

John P. Hammond @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Una vera e propria forza della natura. John suona come un enorme treno in corsa”; ecco, basterebbero queste parole, pronunciate da Tom Waits, mica uno qualsiasi, per descrivere appieno quanto visto questa sera sul palco del Raindogs. Ed è davvero una forza della natura John Paul Hammond, 71 anni suonati, ma con ancora la grinta e la voglia di suonare di un ragazzino, appena ventenne. Niente ammennicoli, o effetti speciali sul palco, semplicemente una sedia, due microfoni, uno per la voce, ed un altro ad amplificare tanto una sei corde acustica quanto una resofonica, due armoniche, alternate spesso sull’apposito supporto, ed una voce che sembra provenire direttamente dagli anfratti più profondi dell’anima, la cui negritudine tradisce i reali natali del musicista americano. Figlio del quasi omonimo John Henry Hammond, uno che si “dilettava” a scoprire giovani talenti quali, tra gli altri, Billie Holiday e Bob Dylan, John Hammond Jr, è infatti un bianco, nato in quel di New York, ma presto folgorato dalle nere sonorità provenienti dal Sud degli Stati Uniti. Con un carriera cominciata nel primi anni Sessanta e decine di album pubblicati a proprio nome, Hammond possiede un bagaglio storico-musicale a dir poco invidiabile, tanto per una capillare conoscenza della musica afroamericana, quanto, soprattutto, per gli incontri e le esperienze maturate in una vita passata, in larga parte, on stage. Affabile e ciarliero il chitarrista non pecca mai in spocchia o tracotanza, anzi, la sua concezione musicale si basa essenzialmente sulla condivisione, sull’arricchimento reciproco. E così, quasi con nonchalance, racconta i suoi inizi di carriera, dei tanti bluesmen conosciuti sopra le assi di un palco, o di quando gli amici Brian Jones e Bill Wyman si unirono a lui in un’estenuante jam session. Il pubblico sembra capire questa sua “filosofia”, ascoltando in religioso silenzio il tagliente sferragliare del bottleneck sulle corde della resofonica, per poi lasciarsi andare ad urla di approvazione nei momenti di picking più forsennato. Hammond dal canto suo non si risparmia riproponendo tanto brani autografi (  You Know That’s Cold, e una cadenzata Come To Find Out) quasi ci trovassimo in uno dei tanti locali che affollavano il Greenwich Village, teatro dei suoi esordi dal vivo; quanto rileggendo con rara maestria classici del blues, di deltaica ascendenza e non. Una voce, quella del nostro, di magnetico fascino, capace di graffiare con cavernose urla alla Chester Burnett, quanto di emozionare con uno straziante lamentio di stampo johnsoniano. E se l’affinità vocale con il “Lupo Ululante” trova riscontro in una My Mind Is Rambling, già passata proprio attraverso l’ugola cartavetrata di quest’ultimo, a Robert Johnson guarda una vibrante rivisitazione di Come On In My Kitchen, uno dei brani simbolo, nonché tra i più sessualmente espliciti, del chitarrista di Hazlehurst. Sono tempi duri quelli odierni, non tanto lontani da quelli cantati da Skip James in Hard Time Killing Floor, riproposta in un’afflitta interpretazione, instaurando una sofferta empatia con il pubblico presente. C’è spazio anche per alcuni brani tratti da Wicked Grin, pluripremiato lavoro in studio, basato sulla rilettura del repertorio di quel Tom Waits, menzionato poco sopra, suo vecchio compagno di bevute. Vengono così riproposte una Get Behind The Mule, che lascia attoniti per debordante furia interpretativa, ed una notturna, alcolica, Jockey Full Of Bourbon. Someday Baby, cantata con voce talmente flebile da sembrare spezzarsi ad ogni sillaba pronunciata, porta invece la firma di Sleepy John Estes, uno dei tanti bluesmen amati dal nostro, così come Blind Willie McTell, omaggiato con una Love Changing Blues suonata quasi in punta di dita. Di tutt’altra grana la conclusiva Preachin’ Blues, con le mani di Hammond a far scintille sulla resofonica, e il bottleneck quasi impazzito nel suo muoversi senza più freno alcuno, emulando in tal modo il percussivo, infervorato, suonare del “reverendo” Son House. Non ha neanche il tempo di scendere dal palco Hammond che viene investito dagli applausi, tanto da imbracciare nuovamente l’acustica e regalarci un’ultima, ariosa, Nasty Swing, vecchio brano a firma del dobroista Cliff Carlisle. Un concerto a dir poco indimenticabile, quello di stasera, come testimoniato dalle espressioni soddisfatte dei presenti, consci di essere stati al cospetto di un’autentica leggenda vivente, o per dirla alla Tom Waits, di “una vera e propria forza della natura”.



martedì 19 novembre 2013

Terry Lee Hale - The long draw

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Texano di nascita, ma girovago di fatto, Terry Lee Hale sembra alfine aver trovato in Parigi la propria meta ultima, a conclusione di un viaggio condotto, rigorosamente, lontano dai fasci di luce degli abbaglianti riflettori mediatici. Un vivere in costante movimento, tra sogni, speranze, perdite e rimpianti, riversato oggi tra i profondi solchi di The Long Draw, ennesimo magistrale tassello compositivo di una carriera ormai più che trentennale. Otto vere e proprie short stories, a rappresentare idealmente le diverse tappe di un vagabondare in lungo e in largo tra Stati Uniti ed Europa. Piccoli bozzetti, nel loro minimalismo acustico, dalla disarmante crudezza lirica, in cui ogni breve attimo di silenzio, ogni singolo respiro della profonda vocalità di Hale paiono avere un peso specifico enorme. Una voce, narrante di un mondo popolato da beautiful losers, con una chitarra acustica quale indissolubile compagna, nonché fulcro sonoro intorno al quale vengono costruite nota su nota scarne intelaiature rootsy. Prodotto da Bob Coke, e registrato in un piccolo studio della Bretagna, con l’apporto d’una ormai rodata sezione ritmica d’origine basca, composta dal basso di Nicolas Chelly e dalla batteria di Frantxoa Erreçarret; The Long Draw trova la propria ragion d’essere nella logica del sottrarre, nel centellinare con perizia suoni e parole, prediligendo scure atmosfere acustiche, in un mood di notturna suadenza. Composizioni d’inaudita forza evocativa, tuttavia, come la title track, tetro declamare acuito, ancor più, dal liquido spandere melodico dell’organo di Glenn Slater; o il dolente distendersi d’una Black Forest Phone Call, d’un epicità narrativa d’ascendenza dylaniana. D’autobiografica natura sono, invece, tanto il predicare country’n’gospel di What She Wrote, dove spiccano gli spunti solisti della pedal steel di Jon Hyde; quanto il rimembrare i giorni trascorsi in quel di Seattle, in una The Central, di pura fascinazione folk. E se Three Days è un febbrile vorticare, tra polveroso sbuffare country e caldi umori gipsy, complice il basso di Jack Endino, i toni tornano nuovamente a farsi sommessi nell’indolenza crepuscolare di The Sad Ballad Of Muley Graves. Una lentezza caratterizzante anche la conclusiva, lunga, Gold Mine, ove l’ossatura folkie par essere come pervasa da neri spettri blues, in un commiato di livido magnetismo. Un songwriter di classe a dir poco sopraffina, Terry Lee Hale, capace, come davvero pochi altri oggigiorno, di trarre linfa compositiva da quanto, forse di più ordinario, ma al contempo affascinante, esista, ovvero il periglioso, quotidiano vivere dell’umana specie, immortalandone, in meravigliose, seppiate, istantanee sonore, le gioie, i dolori e le sconfitte.

venerdì 15 novembre 2013

Reed Turchi @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

"Hear the wind blowin way on top of the hill" cantava, giusto qualche anno fa, Luther Dickinson; un vento, sul cui impetuoso soffiare, si propagavano, nella pianura sottostante, gli echi dei tribalismi percussivi della Rising Star Fife And Drum Band di Otha Turner, del nevrotico rifferama del “rebel in the blues” RL Burnside, così come della ripetitività ipnotica di Junior Kimbrough. Vagiti lontani di un Hill Country Blues, che paiono tuttavia ancor oggi risuonare, nonostante la dipartita dei suoi storici rappresentanti. Merito, ma non solo, proprio del summenzionato Luther Dickinson, alfiere, con i suoi North Mississippi Allstars, del recupero della tradizione musicale di una terra, meta prediletta di un coacervo, sempre più consistente, di musicisti. Appartiene a quest’ultimi Reed Turchi, nato in quel di Asheville, Carolina del Nord, entro i cui confini il vento delle colline è riuscito alfine a giungere, recando il proprio arcaico messaggio sonoro sino alle orecchie del nostro; il quale, imbracciata una sei corde elettrica, ha saputo farlo proprio riversandolo tra i solchi di un folgorante debutto, Road Ends In Water. Un bottleneck a muoversi tagliente, tanto sulle corde di una chitarra, che di una cigar box, rigorosamente autocostruita, ed una voce d’abrasiva rochezza; questi gli “ingredienti” alla base di un personale, grezzo, impasto sonoro, denominato Kudzu Boogie. Un vero e proprio marchio sonico, capace di mostrarsi appieno, in tutte le sue sfaccettature, sulle assi di un palco, come peraltro testimoniato dal recente Live In Lafayette, fedele testimonianza su nastro, delle incendiarie performance on stage. Vi era pertanto molta attesa, tra i cultori del blues collinare, e non, per l’arrivo nel nostro paese del chitarrista, impegnato in un pugno di date, organizzate dall’associazione culturale capitolina Mojo Station. Visto poi, che tra queste figurava anche una tappa savonese, sarebbe stato un peccato mortale, per il sottoscritto, mancare all’appuntamento. Lasciati negli Stati Uniti gli abituali compagni di “scorribande sonore”, Turchi si presenta, in questo mini tour italiano, in un’inedita formazione a due, accompagnato alla batteria da Gianluca Giannasso, in libera uscita dal combo romano dei Dead Shrimp. Una dimensione, quella del duo, che, nella sua ruvida e scarna essenzialità, si rivelerà alfine perfetta per scandagliare al meglio l’universo sonoro reediano. Fin da un’iniziale Do For You, d’adrenalinica veemenza, Turchi conferma di possedere un invidiabile bagaglio tecnico, come è altresì notevole la sua conoscenza di quella materia sonora a nome Hill Country Blues, masticata, fagocitata, ed oggi riproposta con un viscerale fervore espressivo, ben esemplificato nel medley Big Mama’s Door/ Poor Black Mattie/ Skinny Woman, capace d’unire, in un excursus chitarristico teso fino allo spasimo, una delle tante perle a firma Alvin Youngblood Hart, con il sempiterno songbook marchiato RL Burnside. Un libero sgorgare di note cristallizzato in medley d’epica lunghezza, come nella rivisitazione, per cigar box, della pattoniana Mississippi Boll Weevil, sfociante in una salvifica Keep Your Lamp Trimmed And Burning, eseguita su di un tavolo, in piedi, con un bicchiere di vetro quale bottleneck. Vi è spazio anche per brani d’autografa fattura, quali una riverberata Mind’s Eye, estrapolata dal recente EP My Time Ain’t Now, o l’inedito, talking distorto di Take Me Back Home, che lascia ben sperare in vista di una prossima release. E se il cadenzato midtempo Junior’s Boogie si appropria del reiterare ossessivo di kimbroughiana memoria, l’accoppiata Don’t Let The Devil Ride/ Write Me A Few Lines, rappresenta un tributo al proprio “nume tutelare” Mississippi Fred McDowell. Pare non sentire affatto la mancanza dei suoi fidati pards il buon Turchi, merito anche dell’abilità e precisione ritmica di Giannasso, che non fa rimpiangere il suo “collega” Cameron Weeks, come dimostrato tanto da una caustica Brother’s Blood, quanto dai “consigli medici” di Dr. Recommended. Il chitarrista del Nord Carolina, dal canto suo, non si risparmia, incantando, per purezza sonora e maestria espressiva, un pubblico visibilmente soddisfatto, tanto da tributargli quasi un’ovazione. C’è ancora il tempo per un ultimo torrenziale medley, nel quale far confluire una sequela di brani tradizionali, a dir poco da brividi, quali John Henry, Back Back Train, Glory Glory Hallelujah e Woke Up With Jesus On My Mind, con il fantasma di Mississippi Fred McDowell che sorride compiaciuto a lato palco. Un ideale suggello ad un concerto pregno di sudore e scorticanti vibrazioni blues, con Reed Turchi a dimostrare una volta di più, di aver appreso, trasmettendolo questa sera agli astanti in una nuova e peculiare veste, l’originario verbo dei propri “maestri”, la cui eco, fin che vi saranno discepoli di siffatta bravura, continuerà a soffiare imperterrita nel vento.

domenica 10 novembre 2013

Too Slim and the Taildraggers - Blue Heart

(Pubblicato su Rootshighway)

Dopo la solitaria parentesi del precedente, acustico, Broken Halo, Tim Langford, aka Too Slim, torna oggi ad imbracciare la propria sei corde elettrica, in un nuovo album, Blue Heart, che ha tutti i numeri per essere annoverato tra gli episodi più riusciti della sua recente produzione discografica, e non solo. Discografia fattasi, nel corso di una venticinquennale carriera, più che corposa, riuscendo a mantenere, al contempo, uno standard qualitativo piuttosto elevato, come peraltro ribadito dall'incetta di premi fatta dal nostro, ogniqualvolta presentatosi con un nuovo lavoro a proprio nome. Accompagnato come di consueto dai, perlomeno nominalmente vista la labilità della loro line-up, fidi Taildraggers, anche in questa ultima sua fatica, a far bella mostra di sé, troviamo un muscolare blues rock di matrice texana, tanto debitore della lezione impartita dagli inossidabili ZZ Top, quanto prono, quasi in adorazione, di fronte al santino musicale di Stevie Ray Vaughan. Registrato in quel di Nashville sotto l'egida di Tom Hambridge, impegnato anche dietro ai tamburi, Blue Heart si discosta tuttavia, almeno in parte, dal precedente vagito elettrico Shiver, accantonando gli inserti fiatistici di quest'ultimo, in favore di una maggior compattezza, da sempre, d'altronde, elemento peculiare del modus operandi del chitarrista di Spokane. A "pompar" ancor di più la muscolatura sonora del nostro, troviamo in quest'occasione una coesa sezione ritmica composta dal summenzionato Hambridge, e dal bassista Tommy McDonald, ai quali si va ad aggiungere uno sparuto manipolo di ospiti, quali l'organista Reese Wynans, il chitarrista Rob McNelley e l'armonicista Jimmy Hall. Un muro di suono, quello prodotto, dalle granitiche fattezze tanto nell'opener Wash My Hands, nerboruto texas blues strizzante l'occhio proprio al barbuto trio di Houston, quanto nei clangori metallici, opera del bottleneck del titolare, di Preacher. Di più canonica manifattura bluesy è la title track, rigoroso shuffle ove spicca il soffiare dell'armonica di Hall, il quale dà saggio anche delle proprie capacità vocali nell'avvolgente slow Good To See You Smile Again, dove si avverte maggiormente anche il lavorio ai tasti di Wynans. D'ascendenza vaughaniana è invece New Years Blues, con la rovente sei corde di Langford a ripercorrere i solchi tracciati dall'illustre predecessore, prima di smorzare i toni nella conclusiva Angels Are Back, figlia "bastarda", con le sue tetre trame elettroacustiche, di quel Broken Halo menzionato inizialmente. Rock blues a marchio DOC quello contenuto in Blue Heart, adatto sicuramente a palati affini alle "piccanti" sonorità di texana provenienza, ma che saprà oltremodo stuzzicare anche le più esigenti papille gustative.

Green Like July @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Uno sferzante vento autunnale flagella implacabile una Savona plumbea e grigia, ma un semplice passo dentro alle accoglienti mura del Raindogs ed eccoci proiettati, perlomeno idealmente, nella provincia americana più profonda, tra quelle strade blu, lungo le quali sono nati, e spesso si sono infranti, i sogni musicali di giovani promesse, americane e non. Quelle medesime strade percorse in più d’un occasione anche dai Green Like July, combo d’italiana anagrafe ma ormai statunitense d’adozione, nel loro continuo pellegrinaggio verso una mecca sonica, Omaha, divenuta quasi una seconda casa. Proprio nella cittadina del Nebraska, sotto l’egida di A.J. Mogis, hanno infatti visto la luce, negli ARC Studios, tanto lo splendido Four-Legged Fortune, quanto il recente, nonché altrettanto riuscito, Build A Fire. E se nel primo l’influenza esercitata sui nostri dall’alternative folk a stelle e strisce era più che evidente, la loro ultima fatica evidenzia, altresì, in un rilucente esempio d’intelligenza pop, una maggior volontà sperimentatrice. Sperimentazione accentuatasi di pari passo ad un allargamento della line up, assestatasi in un quintetto d’indubbia versatilità, dove tuttavia la figura centrale rimane pur sempre l’eclettico Andrea Poggio, intorno alla cui voce e chitarra acustica pare ruotare l’intero universo sonoro a nome Green Like July. Incroci vocali da brividi, immaginifici svolazzi folkie, ed evanescente ariosità pop, questi gli ingredienti di un sound, oggi equamente bilanciato tra le due anime sonore summenzionate, come ribadito da una setlist attingente in egual misura da entrambi i full-length. L’incipit è affidato al tenue pizzicare della sei corde acustica del solo Poggio, in una scarna, essenziale ma emotivamente pregnante, rivisitazione di A Better Man, sintomatica della caratura compositiva nonché interpretativa del songwriter d’origine alessandrina; il quale viene di lì a poco raggiunto, dai suoi compagni, nella suadente malinconia, in odore d’Americana, di No Light Will Shine On Me. Agatha Of Sicily, pur in parte spogliata dei propri orpelli sonici, rimane, come la cittadina siciliana dalla quale è stata ispirata, una piccola gemma, dall’inebriante flavour pop, grazie anche ad impeccabili armonizzazioni vocali; sulle quali è stato costruito, d’altronde, proprio gran parte di Build A Fire. E se Jackson è una nuova digressione verso agresti territori americani, sulle orme tanto dei Jayhawks quanto della Band, l’elettricità velvettiana di Borrowed Time, dedicata stasera allo scomparso Lou Reed, è quanto mai esplicativa del nuovo “corso” dei milanesi. Piccola oasi d’intimistico raccoglimento, con la voce a muoversi flebile su un tappeto armonico ad opera del Fender Rhodes, Robert Marvin Calthorpe trova il proprio contraltare nella bulimia lirico-ritmica di un’incontenibile Moving To The City. Il lento, insinuante, dipanarsi di An Ordinary Friend, confluisce, invece, in un emozionale medley con la brumosa malia di una Nothing Is Forever suonata quasi in punta di dita, prima che una struggente A Perfect Match veda il set concludersi tra gli applausi. Talmente calorosi da “costringere” Andrea Poggio a ripresentarsi, nuovamente in solitaria, sul palco, per una St. John Of The Cross d’abbacinante purezza folkie. “Solitamente non facciamo bis” ammette quest’ultimo, ma forse convinto dal calore riservatogli dal pubblico savonese, richiama sul palco anche i propri compagni e, prendendo spunto da un concerto degli Stooges in cui Iggy Pop eseguì per ben tre volte I Wanna Be Your Dog, i cinque ripropongono una corale Moving To The City, con gli astanti ad unirsi loro nel canto. Un concerto a dir poco sublime quello di stasera, ad opera di un combo, i Green Like July, che si confermano una delle più interessanti realtà partorite dagli italici confini in questi ultimi anni.

mercoledì 30 ottobre 2013

Intervista a Omid Jazi

(Pubblicata su Extra! Music Magazine)

Protagonista con Onde Alfa, ideale seguito dell’EP Lenea, di uno dei più interessanti esordi discografici
dell’anno in corso, Omid Jazi ha fatto dell’ecletticità la propria cifra stilistica, con la quale abbattere stretti confini di genere, fino a creare un “piccolo mondo immaginario”, dalla caleidoscopica bellezza sonica, dove pop d’autore, sperimentalismo elettronico e spettri psichedelici, paiono convivere in armonia.

Onde Alfa riprende, e amplifica, quanto di buono già traspariva da l’EP Lenea, ma a colpire è senza dubbio il modo in cui è stato concepito. Puoi spiegarci la genesi dell’album?

Mi sono chiuso in studio e mi sono quasi ammalato, era come vivere in una psicosi, tutto fluiva, non so come abbia fatto a rimanere da solo per più di 14 ore al giorno in studio, al buio di una luce al neon blu, per mesi. Ricordo che nonostante questo, provassi gioia.

Nella tua musica paiono confluire due anime soniche ben distinte, una di matrice pop, a tratti quasi cantautorale, dalla pregevole ricerca melodica, ed un’altra sintetica, aperta alla sperimentazione, che fa propri i dettami d’una estetica prettamente elettronica. E’ stato difficile far convivere entrambe all’interno del medesimo processo compositivo? 

No, non è stato difficile, faccio sempre in modo di essere spontaneo. E' lo stesso processo dell'essere spontanei a dover nascere spontaneamente. In quel caso non ci si potrebbe più spendere mezza parola purtroppo. Mentre ora, qualcosa è stato detto.

Se da un punto di vista musicale Onde Alfa possiede un respiro internazionale, a livello lirico è invece l’idioma italiano ad essere protagonista. Come mai questa scelta linguistica? 

Non mi ritengo un esperto in lingua italiana e nemmeno un cantautore. La lingua italiana mi è stata utile come mezzo per giungere ai meccanismi psichici che sottintendono gli stati d'animo. Quando ci chiediamo in che lingua pensi il Papa, non stiamo cercando di capire quale lingua prediliga, siamo più probabilmente affascinati dal meccanismo dualista che percepiamo esistere. La lingua italiana in Onde Alfa è come un pennello per il pittore, il centro focale sono invece i colori, ovvero le emozioni, i suoni. Il mio rispetto per la lingua italiana si manifesta in campi ove non ho di certo la pretesa di essere un esperto, lascio le relazione tra significanti e i significati ai moderni corpi sociali e che ne facciano pure una questione etnica, in ogni caso sarebbe un passo avanti. Non ho mai detto di essere un postino anche se in passato ho fatto il postino.

Come verranno riproposti i brani dell’album dal vivo? Che tipo di live act si troveranno di fronte coloro che verranno ad ascoltarti? 

Questo dipende da molti fattori, per poter rispondere ad una domanda del genere in maniera seria e responsabile dovrei pensare ad una frase diplomatica. Ora ho un progetto preciso in mente. Posso dire che giorno per giorno potrei darti una risposta differente.

Oltre ad essere un valido multi strumentista/compositore, sei anche produttore, ed hai avviato una tua etichetta discografica, l’Hot Studio; di queste due dimensioni artistiche, quale oggi senti maggiormente tua? E in che modo approcci, a livello di produzione, il lavoro di altri gruppi o artisti? 

Quando lavoro su qualche piccola produzione in studio è come se agissi su un mio progetto, lavorare su ogni gruppo equivale a sperimentare ed evolversi, diversamente non avrebbe senso. Creare connessioni tra i musicisti e gli addetti al settore è un passo per poter raccogliere metadati da traslitterare tramite Hot Studio. A volte alcune band passano di qua e nascono interessanti collaborazioni, questa è una cosa bella. Si fonda tutto sul lavoro, quello che dovrebbe essere importante, rimane importante. Questa piccola attività è in fase di crescita e vi invito ora a farne parte come tessuto cibernetico connettivo. Ora è appena uscito l'album di una band che ho prodotto, si chiamano The Ashman e vi invito ad ascoltarli. A breve uscirà il lavoro di un cantautore di Torino a cui ho prodotto il disco, vi invito ad ascoltare anche lui, si chiama Johnny Fishborn.

Hai collaborato, e continui a farlo, con musicisti delle più diverse estrazioni, con quali hai raggiunto una maggior empatia a livello umano e sonoro? 

Per ora con tutti coloro che si sono trovati bene a lavorare con me, il mio macbook e con i miei animali immaginari.

Un animo musicalmente multiforme come il tuo è stato sicuramente forgiato da ascolti passati e presenti. Quali artisti e/o album hanno avuto un ruolo fondamentale nella tua crescita umana nonché artistica? 

Musica popolare persiana come Shajarian a a cui devo molto, la classica di Brahms, Strauss, forse la dark-wave di fine '70 come i Television, i Suicide, i Joy, i Cocteau per l'approccio e alle volte, l'elettronica quando mi sento solo, ad esempio il nuovo album di Trentemøller l'ho appena ascoltato. Ultimamente ricerco musica popolare e religiosa indiana.

Hai origini mediorientali e il tuo stesso nome in persiano significa “speranza”; che speranze ci sono oggi per un giovane, e per di più musicista, in Italia?

Bisogna lavorare con la testa, con le mani e il cuore senza preoccuparsi di ciò che porta o non porta essere giovani o essere musicisti in Italia.

mercoledì 23 ottobre 2013

Federico Cimini - L'importanza di chiamarsi Michele

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Coraggiosa, questo il primo pensiero una volta terminato l’ascolto di L’Importanza di Chiamarsi Michele,
opera prima di Federico Cimini, calabrese d’origine ma da tempo trasferitosi in quel di Bologna. E coraggioso lo è senz’altro un cantautore che, al proprio esordio, decida di cimentarsi in un’impresa compositiva, di non facile attuazione, come quella di un concept album. Una storia, raccontata sotto forma di canzoni, che mette in luce le bellezze, poche, e le brutture, purtroppo parecchie, dell’Italia odierna, dove i più disparati personaggi tentano ogni giorno di (sopra)vivere. Una storia che trae la propria linfa vitale dalla vicenda, reale, di Michele, uomo profondamente deluso dal proprio Paese, tanto da decidere di abbandonare tutto per tentare la fortuna in terra straniera. E proprio al di fuori dei confini nazionali che avviene l’incontro tra quest’ultimo e lo stesso Cimini, che matura l’idea di metterne in musica le tristi peripezie, trasformandolo in un protagonista con il quale, a prescindere dalla provenienza geografica, ognuno di noi può identificarsi. Un viaggio fisico-musicale che si snoda attraverso tredici episodi sonori, o per meglio dire tappe, con un prologo ed un epilogo a sancire una volta di più l’aspetto narrativo dell’opera. Narrazione che dà modo a Cimini di manifestare il proprio estro compositivo, facendolo confluire in un’intrigante patchwork sonoro che, dal folk mediterraneo, con forti rimandi alla propria terra natia, ingloba tanto sonorità prettamente rock, alle quali si aggiungono i solari ritmi in levare dello ska, fino ad una sempre ben presente vena cantautorale che avvicina il nostro tanto all’opera del Cristicchi socialmente impegnato quanto alla scanzonata ironia del proprio conterraneo Rino Gaetano. L’incipit è tuttavia affidato ad una successione di suoni e parole che vanno ad intrecciarsi tra loro, per poi citare le prime due strofe di Promemoria, poesia contro la guerra a firma Gianni Rodari, e punto iniziale di una circolarità narrativa che si svelerà solo alla conclusione dell’opera stessa. E se il trittico di composizioni ad esso seguente svolge la funzione di vero e proprio prologo, mostrando al contempo la varietà di stili e influenze del songwriting ciminiano, è con l’orgia fiatistica di La Rivoluzione in Pigiama che nel protagonista della vicenda, Michele appunto, nasce l’insofferenza nei confronti di un Paese “governato” dai media e da un regime che sbeffeggiano dall’alto la gente “comune”, con quest’ultima incapace di reagire se non con tanto sbandierate quanto inutili rivoluzioni da social network. Un’insofferenza che porterà Michele a trasferirsi all’estero, dove tuttavia ben presto scoprirà come il malcostume italiano sia un male comune, tra l’ipocrisia snobistica ed elitaria di La Gente Che Conta e la voglia di apparire a tutti i costi espressa, su d’un robusto impianto rock di matrice acustica, in Non Essere Nessuno. Da qui la decisione, sulle note di una Lì Con Me che trasuda gli umori musicali del tacco del nostro Stivale, di fare ritorno al natio suolo, per cercare di “combattere” in prima persona per un futuro migliore. La storia tuttavia ha un finale inaspettato, opportunamente denominato Epilogo, dove si manifesta la circolarità narrativa precedentemente menzionata, con gli orribili spettri della guerra che tornano a far tristemente capolino. La conclusiva Ti Amo Terrone è dal canto suo una sorta di elegiaca dedica al personaggio appunto del “terrone”, qui incarnato dallo stesso Michele; una figura troppo spesso stereotipata, capace tuttavia di rappresentare, a seconda della prospettiva, ognuno di noi, perché in fondo quello che accomuna gli italiani è forse proprio l’essere “terroni”. Una penna quella di Federico Cimini che denota un’arguzia ed un’ironia, davvero rare in un giovane esordiente, quest’ultime veicolate con freschezza grazie ad arrangiamenti di ben ponderata vitalità sonica, il tutto in un’opera prima tanto coraggiosa quanto alfine riuscita.

domenica 20 ottobre 2013

Laura Veirs - Warp and weft

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

La maternità sembra davvero aver giovato, anche artisticamente, a Laura Veirs; se al primogenito era, idealmente, dedicato il precedente Tumble Bee, scintillante divertissement contenente brani d’ascendenza folk, destinati ad un pubblico infantile, oggi con la nascita del suo secondo pargolo, vede, infatti, la luce anche il nuovo album della songwriter di Portland. Figlio della sua recente produzione, Warp And Weft può essere visto come il naturale prosieguo del discorso sonoro imbastito tre anni fa con l’ottimo July Flame. Abbandonando in parte la componente freak che ne aveva contraddistinto gli esordi, la Veirs ha trovato oggi la quadratura del proprio cerchio musicale in un alternative folk più “adulto”, dai toni e tratti gentili, lievemente screziato da piccoli squarci elettrici e minimali digressioni sperimentali. Una maturazione sonica mossasi parallelamente a quella come donna e madre, come si evince da un’analisi delle liriche odierne, intrise delle paure e delle ansie, così come della gioia e della speranza, che la nascita di una nuova vita reca con sé. Con il consorte Tucker Martine ormai presenza fissa, tanto al bancone di regia quanto dietro i più disparati strumenti percussivi, Warp And Weft vede, come il precedente Tumble Bee, l’alternarsi di un piccolo manipolo di “vecchi amici”. Tra quest’ultimi spicca senza dubbio la presenza di Neko Case, a tinteggiare ulteriormente di tonalità pastello una radiosa Sun Song, costruita su di un abbacinante impianto elettroacustico, ad opera di banjo, pedal steel ed una piccola sezione d’archi, con il pizzicare gentile delle corde di nylon, della chitarra della stessa Veirs, a far da contraltare al superbo intrecciarsi della sua voce con l’evanescenza di quella della Case. Maggior spazio all’elettricità viene invece concesso tanto nel solenne crescendo armonico di America, dura disamina sulle contraddizioni dell’odierna società americana, quanto in That Alice, sentita dedica all’amata figura di Alice Coltrane che, per il marcato incedere, ricorda tuttavia i brani di maggior irruenza rock della recente produzione, in combutta con la sei corde “remmiana” di Peter Buck, dei propri concittadini Decemberists. Fioriscono in una tranquilla oasi acustica, piccoli, tenui, boccioli come l’acquerello, d’ondulante leggiadria, Shape Shifter, o l’omaggio all’artista Howard Finster di Finster Saw The Angels, per sole chitarra, fisarmonica e pedal steel, con kd Lang alle backing vocals. E se i brevi intermezzi strumentali, Ghosts Of Louisville e Ikaria, paiono i frutti d’uno sperimentale raccolto sonico, in Sadako Folding Cranes, scritta in memoria di Sadako Sasaki (bambina giapponese sopravvissuta al disastro nucleare di Hiroshima, ma morta di leucemia dieci anni dopo a causa delle radiazioni) e dei suoi origami per la pace, riecheggiano fluttuanti melodie orientali, ulteriormente enfatizzate, nella coralità finale, dalla trascendente vocalità di Jim James. La carezzevole Ten Bridges sembra invece librarsi leggiadra sulle ali d’una farfalla dalle iridescenze folkie, verso gli inesplorati cieli musicali della conclusiva, sontuosa, White Cherry, che fa propri gli stilemi del jazz modale, rileggendoli attraverso l’ottica modernista veirsiana, in un dissonante, quanto al contempo armonioso, connubio tra soffiare coltraniano, morbidi tappeti pianistici e suggestioni cameristiche, il tutto su di un flessuoso lievitare percussivo. A rifulgere di luce propria, sono tuttavia tanto la perizia compositiva dell’occhialuta musicista di Portland, mai forse così ispirata come oggi, quanto la sua stessa voce che, con la consueta flebile malia, sa insinuarsi lenta, sotto pelle, per giungere infine a lambire gli anfratti più reconditi dell’anima. Un’artista da amare incondizionatamente Laura Veirs, con la certezza che difficilmente spezzerà il nostro cuore musicale, ma lo saprà altresì riscaldare con il rilucente splendore di piccole gemme come, appunto, Warp And Weft.

venerdì 18 ottobre 2013

Tony Joe White - Hoodoo

(Pubblicato su Rootshighway)

Ritiratosi in una tranquilla tenuta nelle vicinanze di Nashville, tra coyote, lupi ed uccelli, Tony Joe White sembra tuttavia non aver perso il piacere di imbracciare la propria sei corde, complice anche un'ispirazione che, stando alle sue stesse parole, "torna spesso a trovarlo". Un processo creativo libero da ogni costrizione di sorta, nell'attesa che siano, appunto, le idee a palesarsi, magari nei pressi di un fiume, o la sera sul portico di casa. Una rilassatezza compositiva che ha contraddistinto d'altronde gran parte dell'operato discografico del chitarrista di Oak Grove, nonché il proprio modo di suonare, quel flemmatico swamp funk diventatone la, più che riconoscibile, cifra stilistica. E lungo la medesima direttrice vengono oggi incisi i solchi di Hoodoo, con una copertina, raffigurante il nostro davanti ad un rustico front porch, a rimarcarne l'odierna, bucolica, quotidianità, ed un titolo, a rievocare, dal canto suo, il magico tribalismo della propria, e mai dimentica, terra d'origine, la Louisiana. Registrato in una vecchia casa in legno, adibita durante la Guerra Civile a studio medico, secondo la filosofia del "buona la prima", Hoodoo trova proprio nell'immediatezza priva di fronzoli, quanto nel libero fluire creativo, le sue peculiarità, impresse su nastro in nove, ruvide, composizioni. Brani spesso dilatati in durata, dove a risaltare è, ovviamente, la sei corde del titolare, tra classico, melmoso, languore ed una più marcata, e distorta, visceralità, ben sostenuta da una monolitica sezione ritmica, e alla quale fanno altresì da contraltare il fluido spandere dell'organo e il grasso soffiare d'una armonica; come nell'opener The Gift, richiamante, liricamente, il crocicchio di johnsoniana memoria, con la voce di White, resa ancor più profonda e scura dalle ormai settanta primavere trascorse, quale ideale narratrice. Le ferite aperte dai trascorsi cataclismi naturali hanno, invece, influenzato la genesi tanto dell'ondivaga tetraggine di The Flood, a ricordare l'inesorabile, e distruttivo, fluire del fiume in piena, quanto di Storm Comin', tra nervosi fuzz e lampi di pura distorsione, in un'ideale rappresentazione degli elettrici bagliori d'un imminente uragano. E se Alligator, Mississippi presenta un'amena località nella quale è, perlomeno, sconsigliato soggiornare, in Who You Gonna Hoodoo Now?, la paludosità swampy del nostro incontra invece l'ipnotico reiterare dell'hill country blues marchiato Junior Kimbrough. Di derivazione hookeriana è l'autobiografica 9 Foot Sack, con White a sciorinare i ricordi della propria infanzia su di un solido boogie, mentre il rarefatto livore di Gypsy Epilogue viene ulteriormente enfatizzato dagli intarsi melodici dell'organo e di un, inaspettato, violoncello. Un album pregno tanto d'elettrica spigolosità, quanto denso, oscuro, d'una lentezza a tratti esasperante, ma capace, tuttavia, di crescere, ascolto dopo ascolto, mostrandosi infine in tutta la propria avviluppante fascinazione.

giovedì 17 ottobre 2013

Malacoda & Michel - Al di là della notte

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L’oscurità della notte come culla sonica nella quale far crescere un’esplorazione lirico-musicale, che dal cantautorato nostrano arriva a lambire sonorità moderniste, in bilico tra rock, rumorismo elettronico e vero e proprio field recording, il tutto condensato in un amalgama sonoro intrinsecamente legato a quelle atmosfere notturne alla base dello stesso processo compositivo. Una musica per l’ora tarda, ideale compagna di cammino di un’umanità, alla ricerca del proprio riscatto, tra bar vuoti e strade deserte, sotto l’implacabile sferzare della gelida pioggia autunnale. Un viaggio di “redenzione” che si snoda su di uno scuro tappeto sonoro intessuto da Michel Rigati e Francesco “Malacoda” Grassiccia, titolari del progetto nonché coautori delle otto tracce qui presenti, i quali si dividono democraticamente tra chitarra, pianoforte e microfono. Vedono la luce in tal modo composizioni di tetra fascinazione, quali La Baia, che fonda la propria bellezza armonica su di un gentile arpeggio di chitarra acustica, punteggiato dal lieve battere dei tasti del pianoforte e dal flauto pastorale di Sara Ceccarelli, fino a stemperare il tutto nel finale con il solo rumore della risacca marina. Del medesimo tenore sono la pianistica sofferenza di Cronaca Nera, appena venata da mai invasivi inserti elettronici, così come l’ariosità di Il Cappello, sintomatica di come il cantautorato di stampo “tradizionale” rimanga pur sempre il punto di partenza per le digressioni avanguardiste del duo toscano. Queste ultime si manifestano in particolar modo nella tetra title track, tra ossessivi riff chitarristici e i neri intarsi melodici del pianoforte. Maggior attenzione all’aspetto ritmico viene invece rivolta tanto nell’opener Nadir, quanto nella conclusiva L’Incantatore Di Serpenti, dove variegati inserti percussivi arricchiscono di reminescenze orientali una quasi opprimente causticità elettrica. Un esordio che denota una buona capacità di scrittura ed arrangiamento, complice anche un filo narrativo sempre ben presente, in queste otto piccole storie di crepuscolare speranza, perché d’altronde al di là della notte vi è sempre un nuovo giorno.

giovedì 10 ottobre 2013

Ry Cooder and Corridos Famosos - Live in San Francisco

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se la ritrovata vena compositiva di Ry Cooder ha permesso, nell’arco dei soli ultimi due anni, di poter assaporare una “doppietta” di lavori in studio quali l’ottimo Pull Up Some Dust And Sit Down e l’altrettanto ispirato Election Special, ‘manifesto politico-sonoro’ pubblicato in concomitanza con le elezioni presidenziali americane, il nostro è sempre stato, al contrario, avaro nel rilasciare testimonianze della propria attività concertistica. Un solo documento dal vivo fa infatti capolino tra le fitte maglie di una discografia egualmente divisa tra album a proprio nome, colonne sonore e collaborazioni tra le più disparate. Registrato il 14 e 15 dicembre 1976, presso la Great American Music Hall di San Francisco, ed emblematicamente denominato Showtime, rimane tuttora fulgida testimonianza tanto della perizia sulle sei corde del chitarrista di Santa Monica, quanto fedele fotografia di un itinerario sviluppatosi sulle più differenti strade sonore, sì indissolubilmente legato alla tradizione musicale del proprio paese, tanto bianca quanto nera, ma con un orecchio rivolto in più d’un occasione oltre il confine, verso quel Messico dai caldi colori musicali, per spingersi infine tanto verso la solarità della musica hawaiiana, quanto attraverso l’Oceano, alla ricerca dell’ancestrale e poliritmico percuotere africano; il tutto grazie ad una mai sopita curiosità etnomusicologica, elemento peculiare della stessa estetica cooderiana. Una contaminazione tra le più differenti culture che ha dato vita, fin dal proprio esordio discografico, ad un amalgama sonoro diventato un vero e proprio trademark del nostro, permeante lo stesso Showtime, in uno strabiliante connubio in musica tra Stati Uniti e Messico.Ed oggi, ben 37 anni dopo, viene finalmente dato alle stampe quello che, a tutti gli effetti, può esserne definito la naturale prosecuzione; non solo perché Ry Cooder ha optato per un ritorno sul “luogo del delitto”, la Great American Music Hall, chiamando per l’occasione a raccolta anche due vecchi “pards”, Flaco Jimenez e Terry Evans, già con lui sul quel palco 37 anni prima, quanto per la riproposizione di alcuni dei brani che costituivano l’ossatura live di allora, e che oggi paiono assurgere a nuova vita. Incurante delle 66 “primavere” trascorse il nostro dimostra anzi come il proprio delizioso tocco, sulle corde dell’amata chitarra elettrica, non abbia perso l’espressività e la potenza evocativa di un tempo, incantando letteralmente ad ogni singolo accordo o fraseggio. A colpire è nondimeno l’istrionismo di Cooder, tanto nelle sue, talvolta esilaranti, presentazioni dei singoli brani, quanto nell’interagire sia con la platea che con i membri della propria band. Quest’ultima, viste le dimensioni, è in realtà un vero e proprio collettivo, capace di assecondare il proprio “capo banda” in maniera egregia, ed annoverante tra le proprie fila, oltre ai già citati Jimenez e Evans, le voci di Arnold McCuller e Juliette Commagere, affiancati dalla solida sezione ritmica affidata al basso di Robert Francis e alla batteria di Joachim Cooder, alla quale si aggiungono i variopinti contributi armonici e percussivi del combo messicano noto come La Banda Juvenil. Una nutrita schiera di musicisti quindi, presenti già sul recente album in studio, Pull Up Some Dust And Sit Down, tanto che non sorprende ritrovare, inclusi nella scaletta, due brani estrapolati proprio da quest’ultimo. L’incipit del concerto è tuttavia un tuffo negli anni Ottanta, tra i solchi di quel Borderline dal quale il nostro recupera una Crazy ‘Bout An Automobile d’irrefrenabile vitalità, complice un vibrante riff chitarristico e l’apporto tanto delle idilliache voci di Evans e McCuller, quanto degli interventi fiatistici della Banda, ad impregnare il tutto d’umori soul, altresì acuiti in una Why Don’t You Try Me d’energica spavalderia rhythm and blues. E se il primo tuffo al cuore si avverte con una Boomer’s Story che si dischiude lentamente in tutta la propria elegiaca bellezza, per sublimarsi in un finale a cappella da mozzare il fiato, l’ironia beffarda di Lord Tell Me Why, sorta di gospel funk modernista nonché prima concessione alla produzione recente, mostra come la “penna cooderiana” equivalga in peso specifico la propria abilità d’arrangiatore ed interprete.Sfido poi a trattenere una lacrima di commozione quando il nostro presenta lo storico compagno di avventure, Flaco Jimenez, il cui accordion ci accompagna, sulle note di Viva Seguin, al di là del confine messicano, per poi tornare a guardare a quella “paradisiaca meta” chiamata California, in un medley con la guthriana Do Re Mi, già presente su Showtime, a rimarcare il profondo legame con il folksinger di Okemah. Se una sfavillante e gioiosa School Is Out, così come una Wolly Bully al limite dell’orgiastico, ripescata dal songbook di Domingo Zamudio aka Sam the Sham, alzano il tasso ritmico della serata, le “corde emozionali” degli astanti vengono scalfite da una The Dark End Of The Street d’inusitato splendore, con le voci di Evans e McCuller ad inseguirsi in pindarici vocalizzi, per infine unirsi in eccelse armonizzazioni, arricchite ulteriormente dai sontuosi interventi solistici della chitarra e dell’accordion. Strumento quest’ultimo protagonista anche in El Corrido De Jesse James, ispirato alla leggendaria figura dell’outlaw, con i fiati mariachi della Banda a soffiare con forza, prima di abbandonarsi allo struggimento “ranchero” di Volver Volver, affidata alla suadente voce di Juliette Commagere. Una nervosa Vigilante Man è un ulteriore omaggio a Woody Guthrie e alla, purtroppo drammatica, attualità della sua opera, con un Cooder quasi posseduto alla chitarra, prima di lasciar scorrere libero il proprio bottleneck lungo le sei corde, ben sostenuto dal substrato ritmico di basso e batteria. La chiusura è affidata invece ad una corale Goodnight Irene, una delle tante gemme incise da Huddie Ledbetter, nonché ideale commiato su di un leggiadro tempo di valzer. Saranno occorsi pur 37 anni, ma il documento sonoro che oggi abbiamo tra le mani descrive al meglio la storia e la vita artistica di un musicista capace di trascendere con la propria bravura confini stilistici e di genere, assorbendo come una spugna suoni e ritmi dei più vari per poi rileggerli con una perizia ed un gusto attualmente ancora senza eguali. Un live album la cui perfezione può tranquillamente essere riassunta con le parole pronunciate dallo stesso Cooder dopo l’ennesima prestazione vocale da manuale di Evans e McCuller……”Fantastic, fantastic”.

lunedì 7 ottobre 2013

Omid Jazi - Onde Alfa

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se l’EP Lenea, pubblicato lo scorso anno, era stato un primo, nonché riuscito, tentativo di intraprendere una propria, personale, strada artistica, al di fuori della ragione sociale condivisa Water in Face e della collaborazione live con i Verdena, oggi, con Onde Alfa, Omid Jazi arriva all’attesa prova sulla lunga distanza. Prova che mantiene intatte le buone onde sonore caratterizzanti il suo predecessore, del quale può essere vista come diretta discendente, e con il quale possiede più di un tratto in comune, a cominciare da alcune composizioni già edite nel precedente, e qui nuovamente riprese. Onde sonore, quelle odierne, che paiono muoversi parallelamente a quelle che titolano lo stesso full lenght, ovvero quelle onde alfa tipiche della veglia ad occhi chiusi e degli istanti precedenti l’addormentamento. Qui sta infatti la peculiarità compositiva del nuovo lavoro del musicista modenese, partorito per l’appunto, nella sua quasi totalità, nel primo sonno, in una sorta d’introspettiva fotografia onirica del proprio io. Frutto di questa esplorazione ipnagogica sono scatti d’enorme fascinazione emotiva, volti a mostrare un mondo interiore che è al contempo tanto oggetto quanto veicolo della narrazione sonica. “Scatti” che hanno trovato alfine la propria trasposizione fisica, tra i righi e gli spazi cartacei, in una piccola sala prove, sperduta tra nell’immensità della pianura emiliana. Qui, in compagnia del proprio fedele Mac Book, e dei più disparati, ed inusuali, strumenti, Omid Jazi, ha dato libero sfogo al proprio estro creativo, fino a forgiare una fusione tra analogico e digitale che della propria proposta sonora è senza dubbio peculiarità. Un album dalla mappatura musicale alquanto complessa ed eterogenea, essenzialmente pop, nell’accezione migliore del termine, ma al contempo venato da sintetiche escursioni sperimentali. Un maelstrom, nel cui perenne vorticare, trovano spazio algida estetica elettronica, sublime ariosità melodica di stampo beatlesiano, trip d’acida psichedelia d’antan e l’ossessiva litania punk dei CCCP. Esemplificativa di tale contaminazione è l’opener L’Aura, nelle sue architetture synth pop irrobustite da pervasive scariche elettriche, frutto di una sei corde distorta, che ritroviamo, ad innalzare un nuovo muro di suono, in Ossitocina, ripresa, insieme allo sghembo ciondolare electro di Taglia Le Paranoie, dalla precedente release. Un gusto per la melodia, di derivazione Sixties, affiora invece tanto nelle trame lennoniane di Orsetto Polare, tra misticismo freak e esotiche sottotrame percussive, quanto in una Percorso Della Salute, dove assistiamo ad un fluttuante volo, in un cielo dalle variopinte tonalità lisergiche, dei primigeni Radiohead, per poi “atterrare” in territori prettamente pop di quella piccola gemma di sontuosità compositiva denominata Indaco. E se Giulietta Ha Le Chiavi, nel suo declinare il verbo sonico jadiano, a metà strada tra sperimentalismo modernista e canonicità pop, faceva già, anch’essa, bella mostra di sé in Lenea, dai medesimi solchi “leneani” si sviluppa lo ieratico misticismo modernista di Pensiero Magico. L’anima più ruvida e grezza del nostro emerge invece nel nevrotico rifferama di Tira Con l’Arco, così come in Memoria Allocata, electro punk che fa proprio l’ipnotico salmodiare di Giovanni Lindo Ferretti. Un mondo, quello prodotto dalle onde alfa jadiane, che riflette appieno la multiforme personalità di un musicista capace di “giocare” con suoni e parole, regalando al contempo vivide emozioni.

Balmorhea @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Abitare ai “confini dell’impero musicale”, lontani dai grandi circuiti live, significa mettersi l’anima in pace e macinare chilometri su chilometri per poter assistere a concerti assolutamente “alieni” per una piccola realtà di provincia come Savona. Eppure dopo un lungo torpore musicale la cittadina ligure in questi ultimi mesi è ritornata a nuova vita artistica, complice anche la riapertura del Raindogs, ultimo ed unico baluardo della musica di qualità. E tra i tanti nomi presenti nella prima parte della programmazione riluceva senza dubbio per peso specifico quello dei Balmorhea. Il collettivo texano, le cui redini sono tuttavia sempre saldamente nelle mani del chitarrista Michael Muller e del pianista Rob Lowe, è ancora fresco della pubblicazione del loro quinto lavoro in studio,Stranger, uscito lo scorso anno, e da molti considerato quale l’album di una, seppur lieve, svolta sonica. Certo il minimalismo post-folk cameristico che ne aveva contraddistinto l’opera fin dagli esordi rappresenta ancora lo scheletro dell’opera sonica a nome Balmorhea, con una capacità evocativa oggi ulteriormente acuita da spigolose volute elettriche e da fluttuanti policromie sintetiche. A questo ha contributo l’allargamento della line-up, fino al recente assestamento a sestetto; assetto quest’ultimo che ha indubbiamente permesso una maggiore versatilità armonica, nonché inedite opportunità compositive. Ed è proprio con questa formazione che i nostri si presentano questa sera sul palco del Raindogs, che stenta a contenere una tale ricchezza strumentale, tanto da relegare contrabbasso e violoncello a lato dello stesso; soluzione quest’ultima che si rivelerà tuttavia vincente, accentuando anche visivamente, la componente cameristica del combo. Compito di aprire la serata spetta tuttavia a JBM sigla dietro la quale si cela Jesse Merchant, canadese di nascita ma newyorkese d’adozione, con all’attivo due buoni album, ed opening act dei texani per tutto il loro tour europeo. Un set in solitaria, equamente diviso tra chitarra acustica ed elettrica, spesso con il leggero battere di una grancassa e di un hihat, con l’opportuna aggiunta di un tamburello, quale unico supporto ritmico. Dotato di una voce di notevole caratura espressiva e fautore di una musica dall’umbratile fragilità, quanto di uno scarnificato livore elettrico, JBM ha saputo strappare più di un consenso, grazie a un pugno di composizioni in bilico tra crepuscolare alternative folk e cantautorato di più canonica ascendenza. Giusto il tempo di un veloce cambio palco ed ecco che i sei “protagonisti” della serata si manifestano sul palco, tra gli applausi di un più che numeroso pubblico, segno anche di come la loro “fama sotterranea” sia notevolmente accresciuta anche nel nostro Paese. Una formazione “allargata”non solo dal punto di vita numerico ma anche strumentale, visto il corposo armamentario presente sopra e sotto il palco. Strumentazione divisa equamente tra “canonicità” rock e una sezione d’archi d’orchestrale provenienza, a cui si aggiungono le più diverse percussioni. Quello che colpisce, sia dal punto di vista sonoro che visivo, è la versatilità di ognuno dei membri del gruppo, capace di passare con disinvoltura, spesso all’interno del medesimo brano, da uno strumento all’altro, pizzicando o percuotendo, alla bisogna, in modo più che egregio. Pur essendo notevole l’importanza nell’economia sonora del combo del binomio Lowe-Muller, la vera forza dei Balmorhea risiede tuttavia proprio nel collettivo, nonché appunto nella poliedricità dello stesso, grazie alla quale la musica è libera di viaggiare, su di una mappa priva di castranti paralleli e meridiani musicali, dilatandosi e contorcendosi verso le più disparate derive soniche. Certo il “cervello” della creatura Balmorhea rimangono i due succitati “leader”, a dividersi tra piano elettrico, chitarre e ukulele il primo e tra basso e chitarre il secondo, ma fondamentale è l’apporto dei propri compagni, a cominciare dal violino di Aisha Burns, protagonista tanto negli episodi di maggior movimentazione sonica quanto in suggestivi ricami d’ascendenza barocca, affiancato in quest’ultimo dallo scivolare degli archetti del violoncello di Dylan Rieck e del contrabbasso di Travis Chapman. Autentico “cuore pulsante” è infine Kendall Clark il cui drumming tanto preciso quanto febbrile ne fa l’ideale propulsore ritmico per le divagazioni strumentali dei nostri. Una musica dalla doppia anima quella degli odierni Balmorhea; la prima figlia d’un approccio modernista tra delay, riverberi ed proteiforme elettricità, su mai invasive trame sintetiche, la seconda d’atmosferica ascendenza, tra oasi cameristiche e misticismo folk. Il tutto fuso in una perfomance di palpabile intensità, con un’immaginaria linea guida a legare tra di loro i singoli brani presentati, dando così vita ad un ipnotico continuum sonico di cinematica fascinazione. Spiccano senza dubbio per ieratica bellezza, tanto una Settler, in cui le due anime, poc’anzi menzionate, paiono aver trovato terreno ideale sul quale convivere, quanto una Untitled tutta giocata sul tappeto melodico del piano, sul quale si libra l’incalzante volteggiare degli archi, e gli impeccabili incastri ritmici della batteria a far da collante, con il suggello delle armonizzazioni vocali di Lowe, Muller e della Burns, in una crescente coralità. Dal recente Stranger vengono estrapolate, tra le altre, la visionarietà post rock di una vigorosa Artifact, ed una Pyrakantha, che grazie anche all’ukulele, affidato questa volta alle mani della Burns, ingloba arie quasi caraibiche, in una sorta di rivisitazione balmorheaiana del Van Dyke Parks solista. Il pubblico ammutolito per quasi tutta la durata della perfomance tributa il giusto omaggio ai sei che, ritornati sul palco per gli encore, deliziano gli astanti con un brano inedito, a suggellare una splendida serata, dispensatrice di “onde positive”. Una musica immaginifica, d’eterea sfuggevolezza, da ascoltare in silenzio, lasciandosi trasportare sull’ondeggiare armonico che si spande nell’aria. Più che un concerto, quella di stasera è apparsa appunto quale un'esperienza acustico-visiva, al limite della trascendenza, ad opera di sei musicisti la cui bravura è inversamente proporzionale alla loro giovane età.