martedì 26 novembre 2013

John P. Hammond @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Una vera e propria forza della natura. John suona come un enorme treno in corsa”; ecco, basterebbero queste parole, pronunciate da Tom Waits, mica uno qualsiasi, per descrivere appieno quanto visto questa sera sul palco del Raindogs. Ed è davvero una forza della natura John Paul Hammond, 71 anni suonati, ma con ancora la grinta e la voglia di suonare di un ragazzino, appena ventenne. Niente ammennicoli, o effetti speciali sul palco, semplicemente una sedia, due microfoni, uno per la voce, ed un altro ad amplificare tanto una sei corde acustica quanto una resofonica, due armoniche, alternate spesso sull’apposito supporto, ed una voce che sembra provenire direttamente dagli anfratti più profondi dell’anima, la cui negritudine tradisce i reali natali del musicista americano. Figlio del quasi omonimo John Henry Hammond, uno che si “dilettava” a scoprire giovani talenti quali, tra gli altri, Billie Holiday e Bob Dylan, John Hammond Jr, è infatti un bianco, nato in quel di New York, ma presto folgorato dalle nere sonorità provenienti dal Sud degli Stati Uniti. Con un carriera cominciata nel primi anni Sessanta e decine di album pubblicati a proprio nome, Hammond possiede un bagaglio storico-musicale a dir poco invidiabile, tanto per una capillare conoscenza della musica afroamericana, quanto, soprattutto, per gli incontri e le esperienze maturate in una vita passata, in larga parte, on stage. Affabile e ciarliero il chitarrista non pecca mai in spocchia o tracotanza, anzi, la sua concezione musicale si basa essenzialmente sulla condivisione, sull’arricchimento reciproco. E così, quasi con nonchalance, racconta i suoi inizi di carriera, dei tanti bluesmen conosciuti sopra le assi di un palco, o di quando gli amici Brian Jones e Bill Wyman si unirono a lui in un’estenuante jam session. Il pubblico sembra capire questa sua “filosofia”, ascoltando in religioso silenzio il tagliente sferragliare del bottleneck sulle corde della resofonica, per poi lasciarsi andare ad urla di approvazione nei momenti di picking più forsennato. Hammond dal canto suo non si risparmia riproponendo tanto brani autografi (  You Know That’s Cold, e una cadenzata Come To Find Out) quasi ci trovassimo in uno dei tanti locali che affollavano il Greenwich Village, teatro dei suoi esordi dal vivo; quanto rileggendo con rara maestria classici del blues, di deltaica ascendenza e non. Una voce, quella del nostro, di magnetico fascino, capace di graffiare con cavernose urla alla Chester Burnett, quanto di emozionare con uno straziante lamentio di stampo johnsoniano. E se l’affinità vocale con il “Lupo Ululante” trova riscontro in una My Mind Is Rambling, già passata proprio attraverso l’ugola cartavetrata di quest’ultimo, a Robert Johnson guarda una vibrante rivisitazione di Come On In My Kitchen, uno dei brani simbolo, nonché tra i più sessualmente espliciti, del chitarrista di Hazlehurst. Sono tempi duri quelli odierni, non tanto lontani da quelli cantati da Skip James in Hard Time Killing Floor, riproposta in un’afflitta interpretazione, instaurando una sofferta empatia con il pubblico presente. C’è spazio anche per alcuni brani tratti da Wicked Grin, pluripremiato lavoro in studio, basato sulla rilettura del repertorio di quel Tom Waits, menzionato poco sopra, suo vecchio compagno di bevute. Vengono così riproposte una Get Behind The Mule, che lascia attoniti per debordante furia interpretativa, ed una notturna, alcolica, Jockey Full Of Bourbon. Someday Baby, cantata con voce talmente flebile da sembrare spezzarsi ad ogni sillaba pronunciata, porta invece la firma di Sleepy John Estes, uno dei tanti bluesmen amati dal nostro, così come Blind Willie McTell, omaggiato con una Love Changing Blues suonata quasi in punta di dita. Di tutt’altra grana la conclusiva Preachin’ Blues, con le mani di Hammond a far scintille sulla resofonica, e il bottleneck quasi impazzito nel suo muoversi senza più freno alcuno, emulando in tal modo il percussivo, infervorato, suonare del “reverendo” Son House. Non ha neanche il tempo di scendere dal palco Hammond che viene investito dagli applausi, tanto da imbracciare nuovamente l’acustica e regalarci un’ultima, ariosa, Nasty Swing, vecchio brano a firma del dobroista Cliff Carlisle. Un concerto a dir poco indimenticabile, quello di stasera, come testimoniato dalle espressioni soddisfatte dei presenti, consci di essere stati al cospetto di un’autentica leggenda vivente, o per dirla alla Tom Waits, di “una vera e propria forza della natura”.



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