martedì 19 novembre 2013

Terry Lee Hale - The long draw

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Texano di nascita, ma girovago di fatto, Terry Lee Hale sembra alfine aver trovato in Parigi la propria meta ultima, a conclusione di un viaggio condotto, rigorosamente, lontano dai fasci di luce degli abbaglianti riflettori mediatici. Un vivere in costante movimento, tra sogni, speranze, perdite e rimpianti, riversato oggi tra i profondi solchi di The Long Draw, ennesimo magistrale tassello compositivo di una carriera ormai più che trentennale. Otto vere e proprie short stories, a rappresentare idealmente le diverse tappe di un vagabondare in lungo e in largo tra Stati Uniti ed Europa. Piccoli bozzetti, nel loro minimalismo acustico, dalla disarmante crudezza lirica, in cui ogni breve attimo di silenzio, ogni singolo respiro della profonda vocalità di Hale paiono avere un peso specifico enorme. Una voce, narrante di un mondo popolato da beautiful losers, con una chitarra acustica quale indissolubile compagna, nonché fulcro sonoro intorno al quale vengono costruite nota su nota scarne intelaiature rootsy. Prodotto da Bob Coke, e registrato in un piccolo studio della Bretagna, con l’apporto d’una ormai rodata sezione ritmica d’origine basca, composta dal basso di Nicolas Chelly e dalla batteria di Frantxoa Erreçarret; The Long Draw trova la propria ragion d’essere nella logica del sottrarre, nel centellinare con perizia suoni e parole, prediligendo scure atmosfere acustiche, in un mood di notturna suadenza. Composizioni d’inaudita forza evocativa, tuttavia, come la title track, tetro declamare acuito, ancor più, dal liquido spandere melodico dell’organo di Glenn Slater; o il dolente distendersi d’una Black Forest Phone Call, d’un epicità narrativa d’ascendenza dylaniana. D’autobiografica natura sono, invece, tanto il predicare country’n’gospel di What She Wrote, dove spiccano gli spunti solisti della pedal steel di Jon Hyde; quanto il rimembrare i giorni trascorsi in quel di Seattle, in una The Central, di pura fascinazione folk. E se Three Days è un febbrile vorticare, tra polveroso sbuffare country e caldi umori gipsy, complice il basso di Jack Endino, i toni tornano nuovamente a farsi sommessi nell’indolenza crepuscolare di The Sad Ballad Of Muley Graves. Una lentezza caratterizzante anche la conclusiva, lunga, Gold Mine, ove l’ossatura folkie par essere come pervasa da neri spettri blues, in un commiato di livido magnetismo. Un songwriter di classe a dir poco sopraffina, Terry Lee Hale, capace, come davvero pochi altri oggigiorno, di trarre linfa compositiva da quanto, forse di più ordinario, ma al contempo affascinante, esista, ovvero il periglioso, quotidiano vivere dell’umana specie, immortalandone, in meravigliose, seppiate, istantanee sonore, le gioie, i dolori e le sconfitte.

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