mercoledì 30 aprile 2014

The DeSoto Caucus - The DeSoto Caucus

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Già compagni di scorribande soniche del sommo Howe Gelb, nonché forti di un curriculum annoverante collaborazioni con artisti quali, solo per citarne alcuni, il deux ex machina lambchopiano Kurt Wagner, o la “coppia ben assortita” formata da Mark Lanegan e Isobel Campbell, questo manipolo di valenti musicisti danesi ha con il tempo rivoluzionato la propria iniziale dimensione da backing band per evolversi in una nuova creatura musicale a sé stante. Sotto il monicker DeSoto Caucus hanno quindi intrapreso un personale percorso artistico, oggi arrivato alla sua terza, omonima, prova in studio, attraverso il quale dare libero sfogo alle proprie, impellenti, necessità autoriali. Un album, quello recante il medesimo nome dell'artista o del gruppo, solitamente rappresentante una tappa importante nella vita discografica dello stesso, vuoi come fulgida testimonianza del raggiungimento di una propria identità, oppure, diversamente, quale primo passo di un nuovo inizio, in risposta ad uno svarione precedente. Non rifugge a questa “regola” il quintetto nordico, il quale oggi, grazie ad un songwriting d'inusitata potenza immaginifica, non solo dimostra di essere ben conscio del cammino fin qui intrapreso, quanto di possedere, al contempo, una marcata personalità. Su quest'ultima si staglia, tuttavia, ancora l'ombra lunga del “Gigante di sabbia”, avvertibile a più riprese tra i solchi, come nel talking gelbiano di Bridges of Bern, o nelle felpate movenze notturne di una lenta, trattenuta, Stepping Outside, fino ad una Skills of Warfare che pare provenire dalle medesime sessioni di registrazione dalle quali vide la luce proprio il recente, splendido, parto giantsandiano, Tucson, alla cui gestazione il contributo dei nostri fu di fondamentale importanza. E se Nail In The Wall si ispira ancora ai trascorsi “giganteschi”, con il twanging riverberato della sei corde elettrica ad arroventare un, già di per sé, marcato passo elettroacustico, magnifica è Wasteland, nel suo ricreare musicalmente la vastità del deserto americano, in una ballata d'asciutta rarefazione, dove le atmosfere si fanno più dilatate, oniriche, quasi in balia del vento, sferzante quelle terre inospitali. Un'opalescente aura avant folk rischiara, al contrario, una Just The Other Day rimandante alle pacificate lande bucoliche del Bonnie Prince Billy di Ease Down The Road. Di tutt'altra grana è, invece, Don't Fear tra il vorticare distorto delle chitarre e un serrato rollio ritmico, in quello che senza dubbio rimane l'episodio di maggior ardire sperimentale del lotto. Sulla perizia strumentale dei cinque danesi non vi è nulla da eccepire, ma per fugar eventuali dubbi basta addentrarsi entro le avvolgenti trame di una Come Undone di laconica ipnosi rootsy, o lasciarsi rapire dall'evocativo, sospeso, lirismo della conclusiva Lonesome Train. Un'opera omonima a dir poco eccellente, in cui non vi è una singola nota o parola fuori posto, ma altresì ognuna di esse riveste un ruolo di primaria importanza nel creare un piccolo, perfetto, mondo musicale, dove le calde tonalità dell'Arizona gelbiana si fondono con le tinte pastello della terra danese, dando vita ad inedite colorazioni di cangiante incanto. In conclusione, traendo, in parte, spunto dall'opera dell'immortale Bardo di Avon, possiamo tranquillamente affermare che “C'è del buono in Danimarca”.

giovedì 24 aprile 2014

Milanese, Re, Bertolotti - Still alive at Mag Mell

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo due ottimi, solitari, album a proprio nome, Marcello Milanese opta per una radicale svolta artistica stringendo un'intrigante sodalizio con una delle più valenti e versatili sezioni ritmiche italiane. In realtà un primo incontro tra la sei corde dell'alessandrino, il basso di Roberto Re e la batteria di Stefano Bertolotti, era già avvenuto, qualche anno fa, quando il primo aveva preso parte alle registrazioni dell'album di debutto dei Chemako, progetto fondato dai secondi, una volta fuoriusciti dai ranghi dei Chicken Mambo di Fabrizio Poggi. Un'iniziale collaborazione, vocale perlopiù, protrattasi in seguito anche on stage, con Milanese, oltre a ricoprire con consumata esperienza il ruolo di frontman, impegnato a intrecciare assoli e fraseggi chitarristi con Gianfranco Scala, altro transfuga “poggiano”. Un rapporto musicale, quello tra i tre, cementificatosi con il passare del tempo, fino a dar vita ad un'inedita ragione sociale condivisa, giunta oggi al proprio battesimo discografico. Registrato sulle legnose assi dell'omonimo Irish Pub di Alessandria, Still Alive At Mag Mell, cattura, nella sua dimensione ideale, in un'istantanea particolarmente a fuoco, la bontà di un trio, tanto affiatato nel suo “muoversi” all'unisono, quanto brillante nei suoi singoli spunti strumentali. Ovviamente la parte del “leone” la recita il buon Milanese, mirabile nel suo soggiogare, al proprio volere, le corde dell'amata Gretsch, come dell'autocostruita Helleluja H1, esibendosi al contempo in una prestazione vocale dalla scorticante rochezza espressiva. Bertolotti e Re, dal canto loro, non si limitano al ruolo di semplici comprimari, ma imprimono, altresì, il proprio, inconfondibile, marchio sonoro, grazie ad un ribollire ritmico rifulgente per precisione e poliedricità. Più che un semplice concerto, un vero e proprio excursus lungo la carriera discografica di Milanese, attingendo ad un repertorio, passato e presente, al quale vengono aggiunti brani di fresca scrittura, primi parti dell'unione compositiva dei tre strumentisti. Apre tuttavia la serata Second Hand Man, puro velluto blues su pulsante sincopare funk, estrapolata dal primo lavoro del chitarrista alessandrino, in una sorta di metaforico ritorno là dove tutto ebbe inizio, quindici anni fa. Ottime sono le, succitate, composizioni a firma condivisa, come il puntato shuffle My Life In Ruin, passando per Between Heaven And Hell, flessuoso danzare a tempo di bolero tra, appunto, Paradiso e Inferno, lungo sentieri anzitempo percorsi dal mai dimenticato Willy DeVille, fino al cupo splendore della ballata Dark And Darker, ad esorcizzare la gelida solitudine di una notte trascorsa a vagabondare lungo il border statunitense. Il boom chicka boom di cashiana memoria, si fonde egregiamente, invece, con il blues urbano di McKinley Morganfield, in Pay The Band, ironica disamina della vita quotidiana di coloro che decidono di fare della della musica la propria professione, e dedicata a tutti i “colleghi” che lottano, ogni giorno, contro le traversie che questa scelta comporta. Esplicativo fin dal titolo, Moonshine Boogie è, al contrario, un ubriaco boogie a metà strada tra il fango del Mississippi e i clangori elettrici della Detroit di John Lee Hooker, mentre il travolgente anthem Bring Me Alcohol, presente sull'ultimo parto solista di Milanese, vede rinvigorita la propria baldanza alcolica dall'apporto dei due nuovi “compagni di bevute”. E se Medicine Man è intrisa dell'esoterismo arcaico del voodoo, affondando le proprie radici nel putrido bayou della Louisiana, la struggente, conclusiva Me And My Gun, fuga ogni dubbio sulla notevole caratura, di songwriter ed interprete, dello stesso Milanese. Pregevolmente impresso su nastro, Still Alive At Mag Mell rappresenta un, riuscito, primo passo di un nuovo collettivo cammino, il quale, a sentire quanto contenuto tra questi solchi, sarà senza dubbio foriero di numerose, nonchè ampiamente meritate, soddisfazioni.

martedì 15 aprile 2014

Dirtmusic - Lion City

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Nel Mali afflitto da profondi sconvolgimenti politici e religiosi, un collettivo di musicisti, chiuso all'interno di uno studio di registrazione in quel di Bamako, cercava, in quei giorni bui del 2012, di esorcizzare i demoni di odio e paura, riversando su nastro le proprie ansie e speranze per il futuro. Sessioni informali ed improvvisate, quelle andate poi a comporre l'ossatura di Troubles, terzo capitolo discografico della creatura a nome Dirtmusic, nata dalle menti di Chris Eckman e Hugo Race, ritornati in terra africana sospinti dalle proprie bramosie di ricerca e sperimentazione. E proprio in quel di Bamako, complice anche il contributo di una, sempre più fervente, scena musicale locale, il sublime songwriting dei due occidentali pareva aver trovato terreno fertile nel quale far crescere nuovi, esotici frutti sonori, come ampiamente testimoniato, due anni prima, con la pubblicazione di BKO. Raccolto di questa seconda “semina compositiva” in terra maliana, fu un altrettanto suggestivo amalgama tra elettriche sonorità occidentali, arcaici tribalismi percussivi, melodie griot e oppiacee coloriture electro; in un tentativo, riuscito, di creare un idioma musicale, tra passato e futuro, recante in sé un universalistico messaggio di pace e giustizia. Un'opera affascinante Troubles, alla quale fa seguito oggi, a poco meno di un anno di distanza, Lion City, nuova fatica in studio a nome Dirtmusic. Nato dalle medesime, succitate, sessioni di registrazione, quest'ultimo, vede pertanto Eckman e Race avvalersi, nuovamente, del valente supporto strumentale di un manipolo di musicisti locali, guidati dal balafon di Ben Zabo, al quale vanno ad aggiungersi i contributi vocali di alcuni artisti maliani, e non. Pur essendo figlio del medesimo parto artistico, Lion City può essere tuttavia considerato, del suo predecessore, il “gemello sintetico”. Laddove, infatti, Troubles era caratterizzato da una robusta ossatura afro-rock, le vie della “Città del Leone” sono state costruite, al contrario, su di dilatate tessiture strumentali, permeate da evanescenti nebbie moderniste. Ciò si evince sin dall'opener Stars Of Gao, sorta di sospesa trance ambient alla cui ieratica edificazione armonica contribuiscono i Super 11, combo proveniente da Takamba; così come dalle algide ondulazioni cinematiche di Day The Grid Went Down, dove, tra field recordings, fondali chitarristici e sintetici beat elettronici, spicca fiera la voce dell'artista hip hop maliano MC Jazz. Il melismatico fluire di Narha è reso ancor più evocativo dalla sofferta interpretazione vocale di Aminata Wassidjè Traorè, già presente in Troubles, così come Samba Tourè, alla cui ugola viene affidata una riflessiva Red Dust, ove la polvere rossa del titolo va a depositarsi su di dopate trame dub. La chitarra di Ousmane Ag Mossa, il basso di Cheikhe Ag Tiglia e le percussioni di Aghaly Ag Mohamedine, dei magnifici Tamikrest, colorano invece, con la consueta maestria, di notturne, desertiche, tinte bluesy il magnetico salmodiare di Movin' Careful, rinsaldando, in tal modo, una collaborazione artistica iniziata ai tempi del summenzionato BKO. E se in Clouds Are Cover il tribale battere degli djembèe e delle talking drum crea un substrato percussivo perfetto per un baritonale recitato d'ascendenza caveiana, sono, altresì, vibranti pulsioni funk ad irrobustire il fulcro ritmico d'una graffiante Blind City. Meravigliosa è Justice, con l'arpeggiare riverberato d'una sei corde elettrica e la legnosa pienezza timbrica del balafon a guidarci verso luminescenti, aeree, aperture melodiche. Un album di trascendente bellezza Lion City, al pari del suo antesignano, ennesimo stupefacente “souvenir” di un viaggio multiculturale nel pulsante cuore sonoro del Mali, addentro all'ancestrale malia d'una musica senza tempo. Musica assorta oggi a nuova vita, grazie ad un democratico incontro con la cupa profondità lirica dei pentagrammi occidentali, dando vita ad un inedito linguaggio musicale in grado di travalicare ed abbattere confini linguistici e geografici.

RG Band - Right now

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Frutto di un “soggiorno di ricerca”, di più di tre mesi, in quel di New Orleans, ad «ascoltare quello che suonano lì», e registrato poi nel natio Veneto, Right Now rappresenta il debutto in studio della RG Band, dopo un'intensa attività live, sui palchi più diversi. Posto su nastro in soli due, intesi giorni, suonando tutti nella medesima stanza e bandendo, a priori, l'utilizzo di sovraincisioni ed autotuning, l'album beneficia di quella “sporca” veridicità esecutiva e dell'immediatezza tipiche, per l'appunto, di un'esibizione on stage, mostrando ancor più la genuinità della proposta sonora del quartetto veneto. A reggerne le fila, con indubbio carisma, è Riccardo Grosso, armonicista e cantante la cui bravura è inversamente proporzionale alla sua giovane età, tanto che in un ipotetico blindfold test, di featheriana memoria, lo si potrebbe scambiare per un consumato veterano del piccolo strumento ad ance. Armonica che rappresenta, al contempo, il tratto distintivo, insieme ad una voce, che pare forgiata da anni di frequentazioni alcoliche e da centinaia di sigarette fumate, di questa prima opera collettiva, tra brani d'inedita fattura e materiale altrui, abilmente rivisitato. A questo si deve aggiungere una notevole conoscenza della materia musicale proposta, ovvero la musica afroamericana, qui nella sua accezione più blues, ma variegata dai nostri, tra aromi latini, ansimare rootsy e i battiti in levare del reggae, in uno speziato gumbo, cucinato a dovere con gli ingredienti sonori “acquistati” durante il soggiorno nella Big Easy. Un combo solido quanto eclettico, quindi, con la sei corde di Stefano Pagotto, a contendere la scena all'armonica grossiana, ed una sezione ritmica, affidata al basso di Massimo Fantinelli, e ai tamburi di Marco Manassero, autentica fucina poliritmica. Ne sono esempio il sensuale rollare, a tempo di rumba, di Dog Me Down, avvolgente come un elegante abito di velluto, lo strumentale Kick The Cop, dove i nostri aprono a inedite sonorità pulp, che manderebbero in sollucchero l'animo “poliziottesco” del buon Tarantino, o nella robusta ossatura funk-reggae di Walk Away From Me. Scura ed insinuante è invece High Water, condotta pregevolmente dall'evocativo fraseggio della chitarra di Pagotto, con Grosso a narrare, «correndo con il Diavolo» di fianco, della tremenda alluvione abbattutasi proprio sulla città della Louisiana. Mischia, dal canto suo, futuristiche teorie politiche e ondeggiare percussivo, N.W.O., mentre nel cadenzato shuffle Just Your Breath, a mettersi in luce è la compattezza di un quartetto che si trova ormai ad occhi chiusi. E se nelle composizioni autografe i nostri dimostrano la bontà delle proprie capacità autoriali, senza mai cadere nel derivatismo, gradite sorprese giungono quando si appropriano di pentagrammi altrui, come nella hiattiana The Tiki Bar Is Open, ripulita con cura dalla sua polvere rootsy, ed intinta, ancor più, in nere tonalità blues, o una dir poco impeccabile rivisitazione della splendida Feel It in Your Heart, estrapolata dal songbook di Charlie Musselwhite. Un debutto di notevole spessore Right Now, o meglio, citando le parole dell'armonicista di Kosciusko poc'anzi menzionato, «That's tremendous!! ». E se lo dice una vecchia, incanutita, volpe come Musselwhite potete pur credergli.

giovedì 10 aprile 2014

Altare Thotemico - Sogno errando

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Presentatisi sul panorama discografico, nostrano e non, con un'omonima opera prima, i bolognesi Altare Thotemico tornano oggi, a distanza di quattro anni, con Sogno Errando, secondo e ben più meditato lavoro in studio. Un autentico, a detta degli stessi emiliani, manifesto “contro la staticità in musica”, nonché parto di una creazione sonora priva di ogni vincolo di sorta. Un ribollente amalgama musicale nel quale vengono fusi, abilmente, tra loro muscolare jazz rock, barocchismi progressive, introspezione cantautorale, enfatica teatralità e mordaci derive lisergiche; il tutto all'insegna della sperimentazione più ardita. Un'opera policroma, seppur intessuta su di un unico “filo tematico-narrativo”, ovvero le correnti sotterranee e le culture dimenticate, influenzante l'atto compositivo dei nostri sia dal punto di vista arrangiativo che testuale. Più orientato verso improvvisativi territori jazzy, rispetto al suo predecessore, Sogno Errando trae indubbio beneficio dal rinnovamento apportato alla line-up emiliana, rafforzata dai nuovi innesti di Emiliano Vernizzi al sax soprano e tenore, Max Govoni ai tamburi, e Gabriele Toscani al violino, ad affiancare il nucleo storico dei fondatori, ovvero Leonardo Caligiuri al pianoforte e sintetizzatori e i due fratelli Venuti, Valerio e Gianni, rispettivamente al basso e alle sperimentazioni vocali. Sarebbe infatti riduttivo incasellare quest'ultimo nel semplice ruolo di cantante, in quanto la sua malleabile vocalità assurge al ruolo di vero e proprio strumento, contrapponendo fonemi, sillabe e parole, agli accordi e ai battiti percussivi dei suoi sodali. Pare essere cresciuto con Metrodora di Demetros Stratos come Bibbia e Lorca di Tim Buckley come Vangelo, Gianni Venuti, confermandosi centro gravitazionale dell'universo musicale a nome Altare Thotemico. Cosmo creato da un big bang jazz rock, sprigionante un'impazzita pioggia di saettanti detriti sonici, in una sorta d'anarchia esecutiva equiparabile a quella caratterizzante, in passato, l'opera proprio degli Area di Demetrio Stratos. Un andare contro i confini prestabiliti da vincolanti regole formali, quindi, denotante tanto una notevole perizia strumentale quanto un eclettismo stilistico dei quali sono vivido esempio le tre lunghe “suite fiume” (la title track, Broken heart e Le correnti sotterranee) con le sperimentazioni musicali dei nostri a scorrere impetuose proprio come le correnti fluviali, tra solennità progressiva, intricate trame ritmiche e soffiare fiatistico coltraniano, lambendo isolotti di placida pace cantautorale, appena adombrata da chiaroscurali trame pianistiche e da trascendenti melismi orientali. È tuttavia il jazz, come già accennato, ad essere presenza sonora preminente tra i solchi dell'album, nelle sue più diverse accezioni, da quello imbastardito con nevrosi elettriche d'ascendenza rock, passando attraverso le fumose atmosfere notturne di una D'Amore e Altri Tormenti, d'estrazione contiana, fino alle sfumature latine di Porpora. Frutto di avanguardistiche spinte sperimentali è invece la conclusiva Neuro Pshico Killer, ottenebrante viaggio sonoro, nelle zone più oscure e nascoste della mente umana, con la voce di Venuti quasi a infrangersi in urlati vocalizzi, attorniarti dalle laceranti incursioni strumentali dei propri compagni. Un'opera matura e ragionata, Sogno errando, proprio per questo necessitante di un ascolto attento e partecipato, per riuscire a districarsi nell'intricata, avviluppante, tela strumentale intessuta con sapienza dal sestetto bolognese.

mercoledì 2 aprile 2014

Calvino - Occhi pieni occhi vuoti

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo un primo EP a proprio nome, il cantautore milanese Niccolò Lavelli si ripresenta oggi, celandosi dietro l'alias di Calvino, con un nuovo extended play, Occhi Pieni Occhi Vuoti. Figlio illegittimo della scena cantautorale italiana, e della scuola genovese in particolare, Lavelli mostra in quattro tracce d'introspettiva delizia lirica, il suo voler “svecchiare” gli stilemi arrangiativi del cantautorato nostrano, grazie ad una personale amalgama melodico, ottenuto miscelando, nelle giuste dosi, alla materia musicale primigenia, cromatismi d'opalescente ricercatezza. A questo si aggiunge un lavorio testuale da autentico artigiano del vocabolo, soppesando sapientemente sillabe e suoni, enfatizzando, ancor più, il proprio ricercato lirismo facendo ricorso all'idioma nazionale. Mesta introversione e malinconico pallore sembrano infiltrarsi tra i pentagrammi calviniani, grazie anche al sognante risuonare del piano elettrico, affidato alle mani dello stesso titolare, e dal quale vedono la luce molteplici, piccoli, tasselli armonici, i quali, una volta unitisi tra loro, danno forma compiuta all'intero corpus compositivo. Piano elettrico protagonista nella decadente narrazione, di vita urbana, dell'opener Nella Città, a supporto di una vocalità dalla notevole profondità emozionale, mentre il carezzevole rullare della batteria e il marcato percuotere delle corde d'una chitarra acustica aggiungono scarnificata vitalità ritmica al tintinnante pianismo di L'amore In Aria. Il Clochard E La Senna, nel suo drammatico svolgersi narrativo, colpisce invece per la propria, uggiosa, lividezza. La conclusiva I Fantasmi, al contrario, nel suo affastellare policromi strati sonori, su d'uno scheletro di autoriale familiarità, è esempio perfetto dell'inquietudine compositiva di Lavelli, nonché del suo tentativo, peraltro ampiamente riuscito, di ringiovanimento dell'italica scrittura a sette note. Definito dallo stesso pianista milanese come «un quadrato vuoto», Occhi Pieni Occhi Vuoti delinea, al contempo, una descrizione dell'assenza, attraverso il lucido disincanto dello sguardo, di un cantautore, la cui confidenza con la “musa autoriale” è, pur alle sue prime frequentazioni, quella di un veterano.