venerdì 30 marzo 2012

Brock Zeman - Me then you

(Pubblicato su Rootshighway)

Con nove album all'attivo, Me then You compreso, ed un'intensa attività live, che l'ha visto dividere il palco, tra gli altri, con Fred Eaglesmith, Rodeo Kings, Prairie Oyster e Steve Earle, del canadese Brock Zeman si può dire tutto meno che sia un novellino. Se a ciò aggiungiamo la recente creazione di una propria etichetta discografica, la Mud Records, abbiamo l'ulteriore conferma di trovarci di fronte a un'artista tanto completo quanto maturo. Maturità che si avverte in particolar modo sul versante compositivo, a dimostrazione della bontà e della prolificità della penna del nostro. Dieci i brani che compongono la raccolta, capaci di travalicare confini fisici e musicali, tanto da sembrare incisi in qualche sperduto studio texano, mentre in realtà trattasi del frutto di alcune sessioni di registrazione tenutesi nel natio Canada. Ed è proprio al Lone Star State che la mente e l'anima di Zeman sono rivolte, scavando in quel fertile terreno sonoro che in passato ha visto la nascita di alcuni tra i migliori songwriters statunitensi. Un "legame" ulteriormente rafforzato da una voce, roca e profonda al contempo, che in più di un frangente ricorda quella di un altro texano d'adozione, quel Steve Earle incontrato più volte on stage. Voce intorno alla quale il nostro ha saputo modellare le proprie composizioni, in bilico tra sommesse atmosfere d'estrazione Americana e robuste sferzate elettriche in odore di roots rock. Un ventaglio sonoro ad ampio raggio quindi, capace di passare dalla muscolare Push Them Stones, nella quale brilla lo sferragliare della sei corde elettrica di Blair Hogan, fino ad arrivare alla rarefatta Triple Crown, impreziosita dai liquidi interventi dell'organo. I rimandi al poc'anzi citato Steve Earle si fanno ulteriormente marcati in Until it Bleeds, nella quale Zeman sembra fare propri gli stilemi sonori dell'illustre collega. Influenza earliana che traccia una sorta di binario musicale sul quale viaggiano brani come la vigorosa ed elettrica Someone for You, a cui fa da contraltare l'ariosità acustica della soffusa Light in the Attic, screziata dalla pedal steel e dal piano. Esula, almeno in parte, dal mood sonoro del disco, la bluesata e waitsiana Claws, con ancora l'elettrica di Hogan protagonista, prima che la cadenzata Season of Sleep ci riporti nuovamente in melodici territori roots rock. Splendida è la struggente ballata End of the World che, insieme alla tenue Rain on the Roof #1, hanno il pregio di stemperare ulteriormente i toni dell'album in favore di una dimensione più raccolta, come peraltro ribadito dalla conclusiva Rain on the Roof #2, nella quale fa la sua comparsa anche una sezione di archi, il cui operato è reso persino più avvolgente dallo scroscio della pioggia che si avverte in sottofondo. Una manciata di ottime canzoni unite a una produzione sonora all'altezza della situazione, fanno di Me then You il capitolo più riuscito della carriera del songwriter canadese. Se Brock Zeman non abbandonerà la via che ha deciso di percorrere, in futuro sono sicuro che saprà riservarci altre gradite sorprese.

mercoledì 21 marzo 2012

Lambchop - Mr M

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se c’è un gruppo che ha saputo rimanere fedele a se stesso, senza tuttavia prevaricarsi ardite sperimentazioni sonore, mantenendo al contempo la propria opera su livelli qualitativi molto alti, quelli sono proprio i Lambchop. Un’avventura, quella del gruppo capitanato dal folle e geniale Kurt Wagner, tuttavia “congelata” da ben quattro anni, dall’uscita dell’ottimo Ohio, targato appunto 2008. Il tempo si sa porta consiglio e oggi è con gioia mista a curiosità che salutiamo il loro ritorno con questo Mr M. Una curiosità, a dire il vero, fattasi spasmodica, specie dopo le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Wagner circa il contenuto dell’album in questione. L’idea iniziale del nostro era infatti quella di trasportare, attraverso un immaginario viaggio sonoro-temporale, la musica dei suoi Lambchop negli anni ’40, esplorando l’ammaliante universo musicale dei crooners, il cui massimo esponente fu niente meno che “the voice”, Frank Sinatra. Ed è proprio dall’opera di quest’ultimo che Wagner prende spunto nel porre le basi di questa sua ultima fatica compositiva, approntando per l’occasione undici brani di rara raffinatezza melodica, riuscendo nel non facile intento di amalgamare l’indolenza alternative country e le atmosfere electro folk, da sempre tratto distintivo della musica lambchopiana, con splendidi arrangiamenti richiamanti quelli delle prime orchestre swing.Come sempre è la voce profonda e baritonale di Wagner ad assurgere ad immaginaria e carontesca traghettatrice, accompagnandoci lungo questo stupefacente percorso musicale. Intorno ad essa si muove con disinvoltura una band pressoché impeccabile, con sugli scudi il lirico e sofisticato pianismo di Tony Crow e gli aerei arpeggi delle chitarre di William Tyler e Ryan Norris, ben sostenute dalla batteria sapientemente spazzolata da Scott Martin e dalla precisione metronomica del contrabbasso di Matt Swanson. Ad essi si aggiunge una vera e propria orchestra di dieci elementi, il cui apporto è fondamentale per arricchire ulteriormente il già variegato impianto strumentale, infondendo alle composizioni un elegante ariosità di stampo cameristico. Traggono giovamento da questo inedito trattamento brani come la maestosa Gone Tomorrow, che partendo da un delicato arpeggio acustico iniziale si apre a ipnotiche divagazioni strumentali, oppure la bacharachiana If Not I’ll Just Die, dove la trasformazione a crooner, da parte di Wagner, pare raggiungere il suo effettivo compimento. Anacronistica per soluzioni armoniche pare anche la pianistica Buttons, con ancora il puntuale e preciso contrappunto degli archi, mentre risultano più fedeli al classico suono Lambchop la placida Nice Without Mercy e la leggiadria folkie di Gar. La movimentata Betty’s Overture alza per un attimo i toni dell’album, prima di un nuovo ritorno verso sonorità più soffuse con la suadente 2B2, il fluttuante country folk di The Good Life (Is Wasted) e le derivazioni classiche di Never My Love, con Cortney Tidwell ospite alla voce. Commovente è infine la dedica del disco al compianto Vic Chesnutt, talento cristallino prematuramente scomparso nonché grande amico della band. Mr M, per intenti e risultato finale può essere annoverato tra le opere più ambiziose e riuscite della discografia lambchopiana, ulteriore testimonianza di come il trascorrere del tempo sembra giovare alla penna di Wagner e soci. D’altronde Kurt Wagner è come un vecchio amico, se ne può perdere le tracce per qualche tempo, ma ad ogni nuovo incontro riesce sempre ad incantarci con un pugno di intriganti quanto affascinanti storie.

giovedì 15 marzo 2012

Nearly Beloved - Where's Bob?

(Pubblicato su Rootshighway)

Terzo album per i Nearly Beloved di Matt Lax, dopo l'esordio, accreditato tuttavia al solo Lax, di Wanderer's Dream del 1998 e Hurricane tumbleweed del 2002. Un disco, Where's Bob?, che si rifà al suono rootsy, dai profondi umori country, dei lavori precedenti, senza però cadere nella leziosità o nell'eccessiva dose di "zucchero" tipica di certe sonorità, specie di matrice nashvilliana. Al solido e rodato quintetto si aggiungono inoltre alcuni ospiti di valore, ad arricchire ulteriormente il già variegato impianto strumentale approntato dai nostri per l'occasione. Undici i brani qui contenuti, tutti a firma Matt Lax, che si destreggia anche dietro al bancone di regia, ai quali si aggiunge un riuscito reprise della dylaniana Subterranean Homesick Blues. Spetta all'incalzante My Memory aprire la raccolta, riprendendo gli stilemi del "boom chicka boom" di cashiana memoria, tra stacchi e ripartenze, con la voce di Lax che si dimostra fin da subito particolarmente adatta a questo tipo di sonorità. Whiskey Whispers è una bella country ballad, guidata dalla pedal steel dell'ospite Dave Zirbel, già con Commander Cody, e dal piano dal retrogusto honky-tonk di Jon Dryden, in libera uscita dai Little Willies, con tutto il gruppo che suona a memoria, tra chitarre acustiche, contrabbasso e batteria spazzolata. Pare arrivare dai primi anni Sessanta Cool Fucking Sunset, grazie ai suoi riusciti intrecci vocali e, insieme alla successiva e cadenzata Tomorrow Won't be the Future, guarda alla lezione impartita dai mai dimenticati Flying Burrito Brothers. Brilla per liricità la struggente The Moon and Morning Star, piccolo acquerello acustico di stampo folkie, complici anche il banjo di Erik Pearson e la dobro di Zirbel. Money isn't Everything vira invece verso lidi bluegrass, grazie anche all'ottimo lavoro al mandolino dello stesso Lax, ben coadiuvato ancora dal banjo di Pearson e dall'armonica di Peter Lax. La title track dal canto suo combina egregiamente sonorità country con elementi gospel, mettendo in mostra l'ottimo lavoro svolto dal gruppo sulle armonie vocali. Degno di nota è sicuramente il trattamento riservato alla citata song dylaniana Subterranean homesick blues, qui riproposta sotto forma di un travolgente up tempo, con il buon Lax a sciorinare il testo in una sorta di forsennato talking country. C'è ancora spazio per citare il western swing a la Asleep at the Wheel di Nearly Beloved, la scanzonata My P-Role Officer e la conclusiva e tenue Little Woodblock. Certo, i Nearly Beloved non inventano nulla, ma hanno saputo far loro la lezione impartita da grandi gruppi e artisti del passato, riproponendola in quest'occasione con onestà e maestria, riuscendo al contempo a creare un sound capace di conquistare anche i palati più difficili. Non sarà un lavoro imprescindibile Where's Bob?, ma sono sicuro che farà la felicità degli amanti della country music, quella autentica e rootsy oriented, mentre a chi non è avvezzo a questo tipo di sonorità, consiglio di porgere comunque un orecchio, non ne rimarrete delusi.

lunedì 12 marzo 2012

Wilco live @ Alcatraz

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Vi sono emozioni così intense e profonde da non riuscire a manifestarsi immediatamente, avendo bisogno di essere lasciate fermentare per poi esplodere in seguito in tutta la loro interezza. Ed è pertanto solo a mente fresca che si viene assaliti dall’esaltazione di quella che è stata e sarà una delle serate musicali da ricordare in questo, seppur agli inizi, 2012. Scenario dell’esibizione un Alcatraz stipato all’inverosimile, protagonista della serata quella complessa ma stupenda creatura musicale chiamata Wilco. La band di Chicago, nella prima delle sue due date italiane, è salita letteralmente in cattedra mostrando, a una platea di attenti “allievi”, come deve suonare dal vivo oggi una rock band. Definizione quest’ultima che tuttavia appare riduttiva nello descrivere quanto visto e sentito sul palco nel corso della serata. Il rock è stato infatti solo il punto di partenza, un ideale trampolino di lancio verso un caleidoscopico viaggio all’interno delle numerose anime sonore delle quali si compone la musica dei nostri. Sfaccettature che la band ha saputo mettere in mostra nella loro totalità, approntando per l’occasione una scaletta capace di pescare all’interno di una discografia diventata ormai più che corposa. Un concerto totale, che ha catapultato il pubblico in un continuo e frenetico cambio di atmosfere e generi musicali, tra chitarre elettriche ed acustiche, sintetizzatori, tastiere e percussioni. Tuttavia è doveroso menzionare anche Scarlett O’Hanna; una sorta di Regina Spektor meno freak, quando siede al piano e una Laura Veirs dalle forti tinte indie rock quando imbraccia la chitarra elettrica, che con un breve quanto intenso set ha aperto la serata, guadagnandosi gli applausi dei presenti. La vera attrazione sono e rimangono comunque i Wilco. Accolti da un autentico boato al loro ingresso sul palco, i nostri non deludono le attese dei propri fan, ripescando alcune piccole chicche, per quella che alla fine si rivelerà una delle migliori scalette degli ultimi anni. Ventisei brani per più di due ore di concerto, senza cali né le ben che minime sbavature, ad ulteriore testimonianza di come la “macchina live” wilconiana viaggi ormai a pieno regime. Merito senza dubbio di un manipolo di musicisti superlativi ed in perfetta sincronia tra loro, guidati con maestria da un’insolitamente affabile e loquace Jeff Tweedy. Glenn Kotche pare una piovra dietro ai tamburi, costantemente impegnato in un drumming tanto vario quanto preciso, che si incastra alla perfezione con il basso di John Stirratt, autentico motore pulsante della band. Nels Cline è al solito invasato, e sembra ingaggiare una lotta all’ultimo accordo con il proprio strumento, martoriato per tutta la durata del concerto. Mikael Jorgensen si destreggia da par suo tra tastiere e sintetizzatori, ben coadiuvato da Pat Sansone, autentico folletto anche alla sei corde. Dopo un inizio tra l’onirico e il sognante con una sempre meravigliosa Hell Is Chrome, veniamo proiettati nella dimensione “modernista” della band di Chicago, con una Art Of Almost in bilico tra squarci elettronici e tessiture quasi ambient, con Nels Cline e Mikael Jorgensen impegnati a condurre i propri compagni verso sperimentali derive sonore. Ad avere ovviamente maggior risalto nell’economia del concerto sono i brani tratti dal recente The Whole Love, come nel caso dell’ariosità pop di I Might, Dawned On Me o della bizzarra Capitol City, per arrivare alla purezza folkie di Open Mind. Non sono mancate tuttavia piccole e grandi sorprese come una superlativa Misunderstood (da Being There) con tutto il pubblico a urlare quel ‘nothing’ reiterato all’infinito, diventato ormai celeberrimo, oppure una Box Full Of Letters che riappare tra le nebbie di un passato alternative country, forse non così lontano dopo tutto. Parte del leone la recita anche A Ghost Is Born, dal quale vengono riproposte, tra le altre, At Least That’s What You Said dal delirante finale, un’inedita quanto pregevole versione acustica di Spiders (Kidsmoke) e quel piccolo gioiello di Hummingbird. Posta a metà set Impossibile Germany, risplende in tutta la sua maestosità, impreziosita dall’intervento solista, da manuale, della chitarra elettrica di Nels Cline, capace di strappare un’autentica ovazione. e il finale è affidato alla vorticosa A Shot In The Arm, nei bis ad incantare sono le canzoni tratte da Yankee Hotel Foxtrot, su tutte una rabbiosa I’m The Man Who Loves You, una sempre coinvolgente Heavy Metal Drummer, per arrivare poi ad una corale Jesus, Etc. da brividi. Concerto che si chiude in crescendo con la carica rock’n’roll del medley Red-Eyed And Blue / I Got You (At The End Of The Century) e Outtasite (Outta Mind), sempre da Being There, fino all’apoteosi con la scalcinata ed irresistibile Hoodoo Voodoo, in omaggio al grande Woody Guthrie, con tanto di divertente siparietto danzereccio del tecnico delle chitarre, tra l’ilarità generale. I sei abbandonano infine la scena tra applausi scroscianti. Sei talenti fuori dal comune, fusi indissolubilmente tra loro in quello che è un magma sonoro capace sia di annichilire con la propria lacerante furia elettrica, impregnata di feedback, sia al contempo di incantare grazie a cristalline e fluttuanti melodie. Questo sono oggi i Wilco, ed attualmente non esiste altra band capace di eguagliarne la perfezione sonora. Concerto dell’anno?! La risposta del sottoscritto è…SI'!!!

SET LIST

Hell Is Chrome
Art Of Almost
I Might
Misunderstood
Bull Black Nova
At Least That's What You Said
Spiders (Kidsmoke) (semi-acoustic version)
Impossible Germany
Born Alone
Laminated Cat (Loose Fur cover)
Open Mind
Hummingbird
Handshake Drugs
Box Full Of Letters
Capitol City
War On War
Dawned on Me
A Shot in the Arm


Encore:

domenica 11 marzo 2012

Cisco - Fuori i secondi

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Ne ha percorsa di strada Stefano “Cisco” Bellotti, da quel lontano 2005, quando con enorme stupore e sconforto di molti, abbandonò i Modena City Ramblers. Una decisione sofferta quanto ponderata, punto di partenza per quella che si sarebbe rivelata una, fino ad ora, proficua carriera solista. Dopo un esordio di rara bellezza come La Lunga Notte e gli esperimenti sonori de Il Mulo, ora il nostro da alle stampe Fuori i Secondi, destinato a diventare la sua opera più matura e completa.
Questo grazie ad una maggiore consapevolezza dei propri mezzi e ad una penna forse mai ispirata come in quest’occasione. Fondamentale anche l’aiuto di alcuni amici di vecchia data, tra i quali spicca Francesco Magnelli, sapiente mano dietro gli arrangiamenti e la produzione, oltre all’apporto di quella che viene definita, dallo stesso Cisco, un’orchestra “futurista”, capace di districarsi con gli stilemi sonori più differenti. Elemento fondamentale nella musica del nostro rimane in ogni caso il folk come ben si evince dalla traccia di apertura La Dolce Vita, dura disamina della triste situazione politico-sociale in cui versa l’italico stivale, tra riferimenti al Fellini neorealista e citazioni da La Vita Agra di Luciano Bianciardi. Vengono tuttavia esplorati nuovi orizzonti musicali, come in Golfo Mistico, che pare rubare le atmosfere desertiche in salsa mariachi tanto care ai Calexico, o come negli echi quasi floydiani di Gagarin, sorta di trasposizione in musica del diario di bordo del cosmonauta russo, primo uomo a vedere la terra dallo spazio. E proprio con quest’ultima si apre una galleria sonora nella quale fanno la loro comparsa personaggi ritenuti dai più dei perdenti, eterni secondi, la cui opera è stata però rivalutata con il trascorrere del tempo. Si passa così dall’omaggio al mai dimenticato Augusto Daolio con la struggente Augusto, al ricordo di Antonio Ligabue, nella quasi omonima Ligabue, pittore dallo straordinario talento ma deriso in vita per la sua pazzia, fino ad arrivare al galoppante swing di Dorando, che narra le gesta di Dorando Pietri, atleta emiliano che nel 1908 riuscì “quasi” a vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Londra. Il lato cantautorale del nostro emerge invece in brani come la tenue e sognante Lunatico o nella purezza sonora di Una Terra Di Latte e Miele, scritta per il tour con Rubbiani e Cottica, e riarrangiata per l’occasione. Quasi gaberiana, per caratura testuale, è Credo che, insieme alla speranzosa I Tempi Siamo Noi, ci mostra come Cisco non abbia smesso di credere nella possibilità di un mondo migliore. Nell’autobiografica e divertente Il Gigante pare invece di sentire una scalcinata jazz band intenta a rileggere un vetusto blues, con il Tom Waits più gigionesco a dirigere il tutto. Emilia, posta in chiusura è una sentita dedica alla propria terra, tra l’amarezza di un presente buio e triste e le aspettative per un domani più sereno. Un disco d’altri tempi, puro negli intenti e nei suoni, capace di entrarti sottopelle fin dal primo ascolto, per non abbandonarti più. Con Fuori i secondi, Cisco si scrolla definitivamente di dosso i fantasmi del proprio passato per assurgere a figura musicale completa e di indubbio valore.

giovedì 1 marzo 2012

Above the tree & the E-side - Wild

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Immaginate un duo composto da un chitarrista, dalla cui sei corde fuoriescono stridori blues, e da un percussionista e programmatore di schizofrenici beat e loop elettronici. Ora immaginate quest’improbabile duo alle prese con una lisergica quanto delirante jam. Fatto? Ottimo, perché è proprio così che suona questo Wild, prima fatica discografica a nome Above the Tree & The E-side. L’entità sonora nasce in realtà nel 2007, con la sola sigla di Above the Tree, essenzialmente come progetto solista di Marco Bernacchia, artista a tutto tondo, già nelle fila di M.A.Z.C.A. e Gallina. Musica multiforme quella del nostro, capace fin dagli esordi di unire vagiti folk e avanguardia sonora, amalgamando fangose sonorità blues, con richiami all’Africa tribale, il tutto su di un substrato ritmico composto da rumori assortiti. Lavoro in studio che trova la sua degna prosecuzione on stage, dove il corpo dello stesso Bernacchia assurge a vero e proprio strumento, trasformandosi in un’ulteriore valvola di sfogo della propria dirompente musica, al quale si aggiunge, ad accentuarne ulteriormente l’impatto visivo, il ricorso a una maschera da gallo. In seguito all’incontro con il percussionista e programmatore Matteo Sideri, il progetto sfocia in un duo, che ora sotto la nuova ragione sociale di Above the Tree & the E-side, da alle stampe il primo frutto di questa collaborazione, Wild appunto.
Vera protagonista è tuttavia, come sempre, la chitarra di Bernacchia, tra lancinanti stridii elettrici e inaspettate oasi acustiche. Prendiamo l’opener On The Road oppure Birds Fobik Town, nelle quali ipnotici riff di derivazione deltaica vengono inghiottiti e fagocitati dal duo, per poi essere risputati sotto forma di un blues avveniristico, tra loop e contaminazione elettronica. Medesimo trattamento peraltro riservato anche a W China, che vira ancor di più verso territori sperimentali al limite della techno, e nella quale si avverte maggiormente l’apporto sonico di Sideri. Dall’incedere più marcato sono invece Safari F.C., che si sviluppa intorno a un mantrico riff avant-blues, e l’allucinata Bunga bu, mentre, nella chitarra contaminata di Svezia, pare di sentire un John Fahey futuristico. Chiude il disco la rarefatta Somewhat Like Blues, tra chitarra acustica di stampo folkie e una voce che pare provenire dalla tomba di un oscuro bluesman del Delta. Degno di nota è l’ottimo interplay tra Bernacchia e Sideri, in una sorta di unione quasi perfetta, nella quale non vi sono prevaricazioni di sorta, ma solo la somma in egual misura di due parti soniche, nel riuscito tentativo di creare un unico continuum musicale. Musica, quella degli Above the Tree & the E-side, con un occhio al passato ed un uno al futuro, in una sorta di trasposizione modernista di stilemi sonori appartenenti alla musica afroamericana. Un album sicuramente non di facile fruizione, ma in grado, ascolto dopo ascolto, di mostrare tutte le proprie peculiarità sonore.