mercoledì 26 febbraio 2014

Eterea Post Bong Band - Bios

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Ritorno “matematico” per gli Eterea Post Bong Band, a tre anni di distanza dal precedente lavoro, Epyks 1.0. Il quartetto veneto, durante questo lasso di tempo, sembra aver concentrato la propria attenzione verso astruse formulazioni musico-matematiche, giungendo, dopo intricati calcoli, alla formulazione di una personale sequenza numerica, denominata Bios. Un'equazione sonica articolata, dalle molteplici variabili, siano esse cervellotiche figurazioni ritmiche, frutto di un ben studiato connubio tra algidi beat digitali ed analogico percuotere; così come ibride architetture d'elettronica materia, irte di pronunciate asperità elettriche. Risultato compiuto di questo matematico elucubrare è Homo Siemens, ideale esempio dell'estetica sonica dei nostri, tra nevrotico funk futurista e dirompenti digressioni avanguardiste, alle quali infonde ulteriore spinta armonica il sax dell'ospite Enrico Gabrielli. Un vero e proprio “salto evolutivo”, verso un biomeccanico futuro dominato dalle macchine, è invece una Scipstep avvolta, in una nuova, orgiastica, progressione strumentale, da abbacinanti nebulose elettroniche. Aperta da un sample vocale, tratto da Pi Greco - Il tema del declino, Fibo rappresenta dal canto suo il più ardito vertice sperimentale, raggiunto dai veneti, in questa loro esplorazione matematica, richiamando non solo, fin dal titolo, l'omonima sequenza di Fibonacci, ma trasponendo la stessa su pentagramma attraverso una struttura di celle ritmiche, di 1-2-3-5-8, ognuna caratterizzata da una diversa velocità. In Mentina emerge la caustica anima psichedelica del quartetto, tra abrasivo rifferama e un tonitruante battere percussivo, mentre un vero e proprio vortice avant rock devasta la quiete iniziale di Essi, in una convulsa, ascendente, spirale sonica. Stimoli extramusicali sono alla base dei due estremi della sequenza matematica veneta, ovvero l'iniziale The Rise Of Ramanujan, ispirata dall'omonimo, mistico, matematico indiano, e la conclusiva The Fall Of Kasparov, omaggio allo scacchista russo e alla sua vittoriosa sfida contro la freddezza calcolatoria del computer IBM. Un'opera senza dubbio complessa Bios, necessitante di un ascolto attento e partecipato, solo in questo modo, infatti, si riuscirà a risolvere la sequenza matematico-sonica sulla quale si poggia, mettendo al contempo in luce tutte le sue, caleidoscopiche, stratificazioni sonore.

Boy and Bear - Harlequin dream

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L' Ayers Rock come le Blue Ridge Mountains? Il bush australiano simile all'agreste campagna inglese? Territori geograficamente distanti tra loro, anzi agli antipodi, eppure accomunati da un humus musicale della cui fertilità sembra aver trovato giovamento quella semenza indie folk capace, nel recente passato come ai giorni nostri, di produrre abbondanti, variopinti, frutti sonori. E se le produzioni agro-musicali statunitensi ed albioniche hanno da tempo visto assegnare loro il marchio DOP, la “vergine” Australia solo ultimamente ha avviato una coltivazione di prodotti autoctoni, nati da semi d'importazione, ma cresciuti assorbendo il proprio nutrimento dal terreno in cui sono stati piantati. Uno dei frutti più maturi di questa produzione “down under” sono senza dubbio i Boy and Bear, venuti alla luce nel 2009, come creatura solista del cantate, chitarrista Dave Hosking ma tramutatisi presto in un progetto collettivo, e fautori, due anni più tardi, di un debutto, Moonfire, guadagnatosi tanto il plauso della critica quanto i più diversi premi a livello locale, aprendo loro le porte di un tour mondiale, tra importanti festival e opening act per, tra gli altri, Laura Marling e Mumford and Sons. Un viaggiare “on the road” dal quale Hosking ha saputo trarre ispirazione, annotando sul proprio taccuino quanto visto, ascoltato e vissuto su e giù dal tour bus. Appunti, piccoli bozzetti e frammenti testuali riversati, una volta tornato in patria, tra i solchi di quello che sarebbe diventato Harlequin Dream. Registrato sotto l'egida di Phil Ek, presso gli Albert Studios, il secondo vagito del combo aussie sembra tuttavia distaccarsi, perlomeno in parte, da quell'aura rock impregnante il debutto, in favore di stratificate trame alternative folk, rischiarate da una luminescente solarità pop. Un melodismo d'idilliaca purezza, arrangiamenti sontuosi ma mai ridondanti, e una voce, quella di Hosking, d'agrodolce espressività, nonché autentico tratto distintivo della proposta sonora dei nostri. Un canovaccio, quello alternative folk, che i cinque australiani rileggono con un occhio alla sua stesura originaria, senza tuttavia scadere nella pedissequa imitazione dei propri predecessori, grazie anche ad un personale approccio alla materia sonica in questione. Ne sono un esempio la sapiente costruzione del climax alla base di Old Town Blues, irresistibile nella sua incalzante progressione armonica; o come la title track, dove si avverte maggiormente il certosino lavorio compositivo di Hosking e soci, in un riuscito esempio di raffinatezza poppish, tra inserti cameristici, cantato in falsetto, e il soffiare anni '80 d'un sax nel finale. Cangianti cromatismi indie pop colorano anche Three Headed Woman e Bridges, pur controbilanciate da pervasive impennate elettriche, scongiurando in tal modo stucchevoli concessioni alla “melassa mainstream”. Rannuvolamenti elettrici addensatisi anche intorno alle ondulazioni elettroniche delle scure deviazioni sperimentali di Back Down The Black. A dir poco splendida, nel suo raccoglimento folkie è, al contrario, A Moment's Grace, bucolica ballata costruita sulla fragilità acustica del fingerpicking sulle corde di un banjo e della chitarra, appena scalfito da un lieve soffiare fiatistico e dalla morbida liquidità di un organo. Un modus operandi, quest'ultimo, che ritroviamo, seppur rinvigorito da un robusto rotolare ritmico, in una End Of The Line d'euforica esuberanza country. Sembra invece provenire dal wilconiano Sky Blue Sky, l'opener Southern Sun, tra citazionismo tweediano e fraseggi della sei corde elettrica degni del miglior Nels Cline, prima del commiato affidato al sonnolento ciondolare di una vellutata Arrow Flight. Pregevolmente composto, registrato e prodotto, Harlequin Dream possiede tutti i numeri per replicare, in patria e non, il successo del suo predecessore, facendo altresì ulteriori proseliti, grazie ad una brillantezza melodica di solenne magniloquenza.

giovedì 20 febbraio 2014

Bombino @ Hiroshima Mon Amour - Torino

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Giunto alla ribalta internazionale lo scorso anno con un album, Nomad, prodotto dalla mente della “Chiavi Nere”, Dan Auerbach, e osannato dalla critica (NPR, per dire, l'ha inserito nella sua lista dei 50 album del 2013), Omara Moctar sembra tuttavia non aver perso l'autenticità e la modestia dettate dalla sua giovane età anagrafica. Certo di strada, il chitarrista originario di Agadez, dalla sabbia rovente del deserto ne ha percorsa, arrivando a calcare i palchi di mezzo mondo, ma il suo cuore e la sua anima sono rimaste quelle di un bambino, o per meglio dire “bombino”, soprannome datogli dal suo primo insegnante di chitarra e con il quale oggi è universalmente conosciuto. Così come autentico è il messaggio veicolato attraverso la propria musica; un messaggio di amore e fratellanza in grado d'unire in un enorme abbraccio collettivo popoli di culture differenti. E se le liriche in tamasheq possono forse rappresentare uno scoglio linguistico di difficile interpretazione, è appunto la musica a farsi ideale veicolo sonoro del verbo bombiniano, traendo la propria linfa vitale dalle aride terre natie per poi amalgamare il tutto con sonorità di matrice prettamente occidentale.
D'altra parte il nostro è stato più volte etichettato, in una sorta di “occidentalizzazione”, già peraltro avvenuta ai tempi di Ali Farka Tourè, definito il John Lee Hooker del Mali, come il Jimi Hendrix del deserto. Un'etichettatura che può forse apparire forzata nel suo voler incasellare, a tutti i costi, il talento artistico del chitarrista tuareg, pur essendo, alla luce di quanto ascoltato stasera, quanto mai esplicativa. E' infatti un sabbioso vento desertico quello soffiante sul palco dell'Hiroshima Mon Amour, recante, nel suo avvolgente vorticare, tanto gli echi della tradizione musicale del Niger, quanto fangose sonorità bluesy e psichedeliche fluttuazioni rock settantiane. Una sabbia sonora depositatasi sulle corde della chitarra, sia essa acustica od elettrica, dello stesso Bombino, la cui bravura allo strumento è inversamente proporzionale alla qualità di fabbricazione di quest'ultimo. E proprio la chitarra sarà il catalizzatore emozionale dell'intera perfomance, con il nostro ben supportato dal reiterato ipnotismo tribale d'una compatta sezione ritmica e dal sostegno di un'altra sei corde elettrificata. Alle 23, in “leggero” ritardo sull'orario d'inizio, Bombino e i suoi tre sodali si presentano sul palco, indossando lunghe tuniche e il tradizionale tagelmust bianco. Una volta sedutisi, i quattro danno vita ad un primo set di stampo acustico, trasudante caldi effluvi desertici, dove tra il rollio ritmico di batteria, djembèe e basso, e il pizzicare insistito della chitarra, veniamo avvolti da un'aura sonica d'incantatoria malia. Un libero fluire di note, sulle quali Bombino canta mantriche linee vocali d'esotica densità lirica, ulteriormente accentuato quando ad essere imbracciati sono gli strumenti elettrici, in un mistico tourbillon sonoro, tra vocalismi africani, armonie berbere, fraseggi blues e ascendenti spirali psichedeliche. Un vero e proprio rituale animista in musica, con la platea a danzare, ondeggiare, come in trance. Un continuum sonico che trova nella poliritmia la propria, propulsiva, forza ritmica, sulla quale Bombino è libero di lasciarsi andare in lunghe digressioni strumentali. Parla poco il chitarrista, lascia che sia il suo strumento a farlo per lui, sorride timidamente, balla e si dimena, a testimoniare come non sia mai venuta meno, nonostante l'hype mediatico addensatosi recentemente intorno ad esso, quella sincera genuinità originaria, attraverso la quale riesce ad instaurare un empatico legame con la platea sottostante. Due culture, tra loro diverse, unite da un sentire sonico condiviso; questo è ciò a cui abbiamo assistito, questa sera, tra le mura dell'Hiroshima Mon Amour. Un incontro capace di dimostrare come differenze culturali, sulla carta insormontabili, possano essere appianate da una comunanza “idiomatica a sette notte”, lasciando, una volta conclusosi, ognuno di noi appagato e culturalmente accresciuto.

L'Armata Brancaleone - Tuttinpiedi

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Combo maceratese con alle spalle una gavetta più che decennale, arrivando a dividere il palco con, tra gli altri, Ginevra Di Marco e Bandabardò, L' Armata Brancaleone serra oggi le proprie fila per dar vita al suo primo, vero, album. Diretto discendente del precedente demo, autoprodotto, Gente Resistente, l'odierno Tuttinpiedi ne riprende la palpitante musicalità, tra l'impegnato e il festaiolo, facendo propri i canoni stilistici dell'italico folk rock. Un turbinio di suoni e parole, dialettali e non, dalla solare vivacità espressiva; queste le “armi” imbracciate dai sette membri dell'Armata Brancaleone. Uno “scalcinato” battaglione con disincantati sogni ed utopici obiettivi da perseguire, nonostante le avversità, proprio come la sua, omonima, milizia cinematografica. Quindici episodi sonori, partoriti dalla penna del bassista Roberto Caponi, tra estemporanee storie di bislacchi personaggi, impegno civile e rimandi letterari, in bilico costante tra nostrana cantautoralità e scalmanato fervore folk rock. E se in Ezzzio il Pazzo Non Segue l'Andazzo, si avverte, in modo più che palese, l'influenza deandreiana, nella sbuffante Nonostante Tutto i nostri si appropriano dell'irrefrenabile patchanka della Bandabardò, per poi attenuarne i toni nella chiaroscurale Prima Di Tutto, splendido adattamento musicale di Prima Vennero, opera poetica del pastore protestante Martin Niemoller, scritta ai tempi della dispotica dittatura nazista. Notevole, per forza poetica, è anche La Danza del Tempo, dove pare di ascoltare il precedentemente citato De Andrè accompagnato, sulle note di un'aria tradizionale trentina, dai Modena City Ramblers. E non avrebbe sfigurato, nel ramblersiano Appunti partigiani, 201 Volante, storia dell'omonima brigata partigiana maceratese, orribilmente trucidata dai tedeschi nel 1944. L'indiavolata Goran Alkolic porta invece in dote effluvi balcanici, assorbiti dal settetto durante un tour in terra bosniaca, dando modo di apprezzare, una volta di più, gli spunti solistici tanto della fisarmonica di Giovanni Cofani quanto del violino di Laura Tamburrini, autentici mattatori, in realtà, per la quasi totalità dell'album. E spegni!!!, scritta per ‘M'illumino di meno’, iniziativa dedicata al risparmio energetico, dal canto suo reca, con la propria festosa esuberanza, saggi consigli ambientali, sui quali soffia la tromba dell'ospite Paolo Caponi. Ingloba invece i versi di Trilussa la conclusiva Ninna Nanna della Guerra, enfatizzandone ancor di più la valenza pacifista, in un nuovo riuscito esercizio di vigoria folk. Una buona opera prima quindi, quella dei sette maceratesi, penalizzata, seppur in minima parte, da una, fin troppo manifesta, bulimia compositiva, sfociante in un'eccessiva prolissità, a tratti disorientante. Certo, sempre meglio aver tanta “carne” da mettere al fuoco che dover affrontare una penuria d'idee, ma in futuro un affinamento della propria capacità di sintesi non potrà che giovare all'economia sonora di questa agguerrita compagine.

sabato 15 febbraio 2014

Les Enfants - Persi nella notte

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Un'amicizia nata sui banchi di scuola e durante i campi scout, rafforzata da comuni passioni musicali e da estenuanti prove soniche in un garage sotterraneo in quel di Milano Ovest. Questa la genesi dei milanesi Les Enfants, giovane quartetto che, ad un solo anno dall'esordio, con un omonimo EP, si presenta oggi con un nuovo, autoprodotto, extended play, Persi Nella Notte. Quattro composizioni, più un breve intro strumentale, in equilibrio perfetto tra morbidezza indie pop e increspature new wave, dove spicca la scelta, a livello lirico, dell'italiano, tra le disillusioni e le speranze di un'intera generazione, della quale si fa portavoce l'evocativa vocalità di Marco Manini, impegnato anche dietro ai tamburi. Dense trame soniche, quelle approntate dai quattro lombardi, intrise d'una malinconia profonda, affiorante tanto nei saliscendi emozionali di Milano, quanto nella drammaticità new wave di Dammi Un Nome. Ottimo il lavorio ritmico alla base di Cash, in un livido flusso melodico tra elettrici disegni chitarristici e distesi intermezzi acustici, punteggiati dal glockenspiel. Intreccio elettro-acustico caratterizzante anche la conclusiva Prendi Tempo, in un continuo, luminoso, susseguirsi armonico, fino a sublimarsi in dilatate volute soniche finali. Con questo, seppur breve, secondo vagito i milanesi dimostrano ampiamente di aver superato lo stadio della propria “infanzia”, ora non resta loro che affrontare quel periodo difficile che è l'adolescenza sonica, di ogni gruppo, ovvero il fatidico, primo, full lenght.

Saluti da Saturno - Dancing Polonia

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Dopo due, ben accolti, lavori (Parlare con Anna e Valdazze) Mirco Mariani naviga sicuro, con il proprio progetto artistico, verso l'approdo del terzo album. Una rotta stralunata quella tracciata dal romagnolo, frutto d'un anima cantautorale tanto inquieta nel suo cercare la propria, fisica, valvola di sfogo, tra i righi d'un pentagramma, quanto poi parca e misurata una volta ascritta su quest'ultimi. Un percorso, oggi caratterizzato da un parziale scarto di lato, abbandonando il Pianobar Futuristico Elettromeccanico, in favore di un Free Jazz Cantautorale, come definito dallo stesso Mariani, dove il pianoforte ha soppiantato l'amato Optigan. Proprio i “canonici” tasti bianchi e neri assurgono a vero e proprio cardine strumentale intorno al quale volteggiano sognanti scampoli melodici, calde sonorità sudamericane e sperimentalismo sonico di mai invadente rumorosità. Un superbo pastiche figlio tanto della tradizione della propria terra d'origine, la Romagna, quanto dei suoni e dei rumori fatti propri grazie alla frequentazione di artisti dalla spiccata personalità, Vinicio Capossela su tutti, ai quali il nostro ha prestato in passato il proprio estro percussivo. Dall'istrionico cantautore di Hannover, Mariani ha mutuato anche la passione per i più stravaganti “oggetti sonori”, tanto da utilizzare, durante le sedute di registrazione di Dancing Polonia, Ondioline, Ondes Martenot, Glassamornica, Cristal Baschet e Mellotron, affiancandoli a pianoforti “preparati” per l'occasione, il cui atipico tessere melodico è quantomeno fondamentale per l'empirica economia sonora dell'intero lavoro. A tutto ciò si aggiunge la presenza di alcuni ospiti, quali Paolo Benvegnù, Alessandro “Asso” Stefana, Arto Lindsay e il thereminista Vincenzo Vasi, i cui pregevoli contributi rappresentano senza dubbio un ulteriore valore aggiunto. E' tuttavia la grezza “materia prima” a brillare di luce propria, frutto di un songwriting affinatosi lavoro dopo lavoro, e capace di mostrarsi, una volta di più, in tutto il proprio squisito minimalismo, cesellando piccoli bozzetti dalla cangiante fragilità, come l'addolorata ballata Le luci della sera, dove fa la propria comparsa, vocale, Paolo Benvegnù, o il conclusivo, gioioso, ricordo matrimoniale di Anniversario. Le succitate frequentazioni caposseliane si avvertono, invece, tanto nelle morbidezze pianistiche di una carezzevole Di notte, ad accompagnare gli ultimi, indistinti, attimi prima di un serale viaggio ad occhi chiusi, quanto nel sensuale danzare, a tempo di tango, di La vita mia (vodka lemon), ispirata all'omonimo film del regista armeno Hiner Saleem. Deliziosa nella sua limpidezza compositiva è Venere, un vellutato centellinare note, tra introspezione cantautorale e brulichio modernista, intorno ad un'interpretazione vocale di struggente esilità, mentre la radiosa vivacità caraibica di Canzone di cera ricorda, viceversa, le opere soliste di Van Dyke Parks, esplorativi viaggi della tradizione musicale di Trinidad e Tobago. Una maggior propensione all'osare emerge, al contrario, nel tribalismo disturbato di Ombra, anch'essa dai natali cinematografici, traendo spunto dal lungometraggio L'uomo che verrà di Giorgio Diritti, così come nelle dissonanti ondulazioni ritmico-armoniche della titletrack. Un immaginifico locale d'altri tempi, Dancing Polonia, entro le cui mura si respira l'aria delle vecchie balere romagnole, tra lucidi tavolini, bevande dai mille colori, ballerini avvinghiati stretti stretti, e una procace barista dietro al bancone, con un piccolo palco, dove ogni sera si ritrova una scalcinata orchestrina, annoverante tra le proprie fila, tra gli altri, Vinicio Capossela, Secondo Casadei e Ornette Coleman, condotta da Mariani in una notturna jam session, che si protrae fino ai primi raggi di sole di un giorno nuovo.