giovedì 20 febbraio 2014

Bombino @ Hiroshima Mon Amour - Torino

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Giunto alla ribalta internazionale lo scorso anno con un album, Nomad, prodotto dalla mente della “Chiavi Nere”, Dan Auerbach, e osannato dalla critica (NPR, per dire, l'ha inserito nella sua lista dei 50 album del 2013), Omara Moctar sembra tuttavia non aver perso l'autenticità e la modestia dettate dalla sua giovane età anagrafica. Certo di strada, il chitarrista originario di Agadez, dalla sabbia rovente del deserto ne ha percorsa, arrivando a calcare i palchi di mezzo mondo, ma il suo cuore e la sua anima sono rimaste quelle di un bambino, o per meglio dire “bombino”, soprannome datogli dal suo primo insegnante di chitarra e con il quale oggi è universalmente conosciuto. Così come autentico è il messaggio veicolato attraverso la propria musica; un messaggio di amore e fratellanza in grado d'unire in un enorme abbraccio collettivo popoli di culture differenti. E se le liriche in tamasheq possono forse rappresentare uno scoglio linguistico di difficile interpretazione, è appunto la musica a farsi ideale veicolo sonoro del verbo bombiniano, traendo la propria linfa vitale dalle aride terre natie per poi amalgamare il tutto con sonorità di matrice prettamente occidentale.
D'altra parte il nostro è stato più volte etichettato, in una sorta di “occidentalizzazione”, già peraltro avvenuta ai tempi di Ali Farka Tourè, definito il John Lee Hooker del Mali, come il Jimi Hendrix del deserto. Un'etichettatura che può forse apparire forzata nel suo voler incasellare, a tutti i costi, il talento artistico del chitarrista tuareg, pur essendo, alla luce di quanto ascoltato stasera, quanto mai esplicativa. E' infatti un sabbioso vento desertico quello soffiante sul palco dell'Hiroshima Mon Amour, recante, nel suo avvolgente vorticare, tanto gli echi della tradizione musicale del Niger, quanto fangose sonorità bluesy e psichedeliche fluttuazioni rock settantiane. Una sabbia sonora depositatasi sulle corde della chitarra, sia essa acustica od elettrica, dello stesso Bombino, la cui bravura allo strumento è inversamente proporzionale alla qualità di fabbricazione di quest'ultimo. E proprio la chitarra sarà il catalizzatore emozionale dell'intera perfomance, con il nostro ben supportato dal reiterato ipnotismo tribale d'una compatta sezione ritmica e dal sostegno di un'altra sei corde elettrificata. Alle 23, in “leggero” ritardo sull'orario d'inizio, Bombino e i suoi tre sodali si presentano sul palco, indossando lunghe tuniche e il tradizionale tagelmust bianco. Una volta sedutisi, i quattro danno vita ad un primo set di stampo acustico, trasudante caldi effluvi desertici, dove tra il rollio ritmico di batteria, djembèe e basso, e il pizzicare insistito della chitarra, veniamo avvolti da un'aura sonica d'incantatoria malia. Un libero fluire di note, sulle quali Bombino canta mantriche linee vocali d'esotica densità lirica, ulteriormente accentuato quando ad essere imbracciati sono gli strumenti elettrici, in un mistico tourbillon sonoro, tra vocalismi africani, armonie berbere, fraseggi blues e ascendenti spirali psichedeliche. Un vero e proprio rituale animista in musica, con la platea a danzare, ondeggiare, come in trance. Un continuum sonico che trova nella poliritmia la propria, propulsiva, forza ritmica, sulla quale Bombino è libero di lasciarsi andare in lunghe digressioni strumentali. Parla poco il chitarrista, lascia che sia il suo strumento a farlo per lui, sorride timidamente, balla e si dimena, a testimoniare come non sia mai venuta meno, nonostante l'hype mediatico addensatosi recentemente intorno ad esso, quella sincera genuinità originaria, attraverso la quale riesce ad instaurare un empatico legame con la platea sottostante. Due culture, tra loro diverse, unite da un sentire sonico condiviso; questo è ciò a cui abbiamo assistito, questa sera, tra le mura dell'Hiroshima Mon Amour. Un incontro capace di dimostrare come differenze culturali, sulla carta insormontabili, possano essere appianate da una comunanza “idiomatica a sette notte”, lasciando, una volta conclusosi, ognuno di noi appagato e culturalmente accresciuto.

Nessun commento:

Posta un commento