venerdì 28 marzo 2014

Sixto Rodriguez @ Auditorium - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Preannunciato da due, seppur prevedibili, sold out, l'arrivo nel nostro paese di Sixto Rodriguez si prospettava, a detta di molti, come uno dei più importanti appuntamenti live di questo, ancora agli inizi, 2014. Un “tutto esaurito”, quello registrato sia per la data di Bologna che per quella di Milano, figlio senza dubbio dell'hype mediatico addensatosi intorno al songwriter di origini messicane, grazie al pluripremiato documentario Searching for Sugar Man. Cortometraggio, quest'ultimo, capace di gettare nuova luce sulla vicenda umana e artistica di Sixto Dìaz Rodriguez, fautore, tra il 1970 e il 1971, di due album (Cold Fact e Coming From Reality) dove l'epicità narrativa d'ascendenza dylaniana si fondeva con i sentori lisergici dei Love di Arthur Lee. Lavori tuttavia ignorati sia dalla critica che dal pubblico, tanto da convincere un disilluso Rodriguez ad abbandonare, dopo alcuni sparuti concerti e un live album passato anch'esso sotto silenzio, definitivamente le scene. Dato da molti per morto, addirittura assassinato su di un palco, il nostro era invece tornato a vivere nella sua vecchia casa di Detroit, tra la sua gente, la minoranza messicana affollante gli slum cittadini, e qui, una volta appesa definitivamente la chitarra al chiodo e aver conseguito una laurea in filosofia, si era dedicato ad una carriera politica, candidandosi alla carica di sindaco della medesima città, andatasi ad arenare anch'essa sugli scogli dell'insuccesso dove già si erano incagliati i propri sogni musicali. Ha inizio così una giravolta di lavori tra i più umili, pur mantenendo sempre attivo il proprio impegno civile, in un quartiere dove la povertà e il degrado sono le prime, tremende visioni che appaiono davanti agli occhi, la mattina, una volta aperta la finestra. E proprio qui è stato riscoperto dai due fan sudafricani protagonisti dell'estenuante viaggio di ricerca alla base di Searching for Sugar Man, che ne ha fatto conoscere la storia al mondo intero. Un desaparecido del rock'n'roll, Rodriguez, un beautiful loser sottratto ad un oblio artistico durato più di quindici anni, e solo in tempi recenti baciato da quel successo che ai suoi esordi sembrava non volergli arridere. Certo il salto da emerito sconosciuto, dimenticato da tutti, a rockstar famosa a livello planetario potrebbe scombussolare l'ego di chiunque, ma Rodriguez pare essere rimasto la persona schiva e modesta che traspare dalla visione del documentario. Successo la cui entità si può misurare, senza dubbio, dall'autentica standing ovation riservatogli anche dall'Auditorium di Milano, stracolmo in ogni ordine di posto. Aprire la serata spetta tuttavia a Cory Becker, cantautore originario di St. Louis, il quale accompagnandosi con una sei corde acustica e grazie al supporto melodico di un'evanescente lapsteel, ha sciorinato, con perizia e bravura, il proprio personale pastiche sonoro in bilico tra introspezione cantautorale e aeree melodie avant folk. Un nome da segnarsi senza dubbio sul taccuino dei “personaggi da seguire”, anche alla luce del suo, ormai prossimo, debutto discografico. Giusto il tempo di risistemare uno spartano palco ed ecco fare il suo ingresso in scena, sorretto da alcuni membri della sua famiglia, Rodriguez. Evidente, fin da un primo sguardo, è una salute quanto mai cagionevole, flagellata da anni di lavoro usurante ed ulteriormente acuita da una semi cecità, causata da un glaucoma, i cui segni sono più che evidenti su di un uomo ormai giunto alle 72 primavere. Il nostro sembra, inoltre, essere quasi a disagio sul palco, come sbigottito dal fatto che tutte quelle persone sedute in platea siano li per assistere ad un suo concerto, manifestando una timidezza iniziale ben presto stemperatasi in un divertente e divertito scambio di battute con il pubblico. Ad accompagnarlo on stage, un trio cosmopolita, formato da un chitarrista statunitense, da una bassista neozelandese e da un batterista inglese, ennesima incarnazione di una backing band la cui line up varia di tour in tour. Proprio l'avvicendarsi continuo di musicisti, perlopiù come in quest'occasione degli onesti mestieranti, rappresenterà uno dei punti deboli dell'intero concerto, nel quale si è avvertita quella mancanza di coesione tipica di un combo rodato. Un sostegno strumentale non privo di lacune, quindi, alle quali si devono aggiungere i già accennati problemi fisici dello stesso Rodriguez, manifestatisi, musicalmente, in un fraseggio chitarristico a tratti incerto e sporco, e in una voce con la quale il tempo è stato a dir poco inclemente, incrinandone in parte la capacità espressiva. A questo si aggiunge come una sorta di “spaesamento”, con il nostro, prima di iniziare un nuovo brano, a dare le spalle agli astanti, abbassando il volume della propria chitarra, strimpellando tra sé gli accordi, quasi come non si ricordasse le sue stesse composizioni. Problemi fisici in grado, paradossalmente, di rendere ancor più livide e dolorose le sue canzoni, enfatizzandone la drammaticità lirica, come nel sofferto talking di una dylaniana Rich Folks Hoax, in una straziante Crucify Your Mind, o nella cruda disamina sociale e politica di The Establishment Blues, estrapolate dal suo esordio, Cold Fact. Di tutt'altro tenore sono l'acidità lisergica permeante le psicosi elettriche di Climb Up On My Music, dal secondo album Coming From Reality e il robusto impianto rock blues di Only Good For Conversation. Si muove invece con un vellutato passo jazz rock Can't Get Away, sorta di disperata dichiarazione di rassegnazione esistenziale. Non particolarmente riuscito è stato invece il ricorso al repertorio altrui, come evidenziato da raffazzonate riletture di Blue Suede Shoes e da un'urlata Lucille, più pedisseque riproposizioni che personali rivisitazioni delle stesse. Un boato accoglie al contrario i due brani con i quali è ormai universalmente conosciuto, ovvero il ciondolare speranzoso di I Wonder, e una visionaria ed elegiaca Sugar Man, che il nostro tiene a precisare si tratti di una canzone contro il consumo di droghe e non un'ode alla droga stessa. Decisamente provato fisicamente Rodriguez, si accomiata sulle note trattenute di una Forget It d'intensa fragilità, lasciando il palco, nuovamente “scortato” dai suoi familiari, per farvi ritorno poco dopo invocato a gran voce. La giacca del completo, indossata poco prima, ha lasciato spazio a una canottiera nera, e il nostro, in solitario, si immerge nelle tetre, notturne strade della sua città natale sulle note di una Inner City Blues di pura lacerazione bluesy. Richiamata sul palco anche il resto della band, vi è ancora tempo per alcuni nuovi, nonché riusciti, “ripescaggi” dai songbook altrui, come una Fever dal seducente flavour jazzato e un'ultima disperata I'm Gonna Live Till I Die, di sinatriana memoria, cantata con tutto il fiato e le forze ancora presenti nel suo corpo martoriato, prima di ringraziare i presenti per l'enorme calore dimostratogli e trascinarsi, letteralmente dietro le quinte. Ben lungi, quello di stasera, dall'essere stato il tanto decantato appuntamento imperdibile, non ci siamo trovati allo stesso modo di fronte alla cocente delusione paventata da alcuni. Come spesso accade in questi casi la verità va a collocarsi giusto nel mezzo, non una perfomance memorabile, certo, ma nemmeno un'esibizione penosa, solo un buon concerto, con alcuni picchi emozionali e qualche svarione strumentale più o meno evidente, ma da un uomo di 72 anni, lontano per anni non solo dai palchi ma dalla stessa musica suonata nonché falcidiato da una salute malferma non si poteva chiedere davvero di più. Quella che permane intatta è invece la bellissima storia, di morte e resurrezione artistica, di un songwriter mai venuto meno alla sua integrità morale, nella speranza che l'abietto mondo discografico non trasformi questa “favola” a lieto fine in un nero incubo, nel nome del dio denaro. Solo il tempo saprà dirci come evolverà la “nuova vita” artistica di Sixto Dìaz Rodriguez, nel frattempo rimangono le parole con le quali ci ha salutato, prima degli encore, questa sera: «Thanks for your time then you can thank me for mine».

mercoledì 26 marzo 2014

Monsieur Voltaire - 33

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Un curriculum sonoro, quello a nome Marcello Rossi, ormai ventennale, nonché fitto delle più diverse esperienze, dal metal core degli esordi, al noise pop, passando per la ruvida selvatichezza del garage blues. Esperienze, quest'ultime, figlie d'un collettivo sforzo compositivo, in un'ottica da “gruppo”, con la precisa divisione dei ruoli che ciò comportava, dalle quali oggi il chitarrista toscano sembra intenzionato a prendere le distanze, per sobbarcarsi, sulle proprie spalle, l'intero processo autoriale. Una volontaria, quanto cercata, solitudine artistica quindi, come ribadito dalla scelta del proprio alias sonoro, Monsieur Voltaire, dove far affiorare tutte le peculiarità del proprio songwriting, rimaste spesso celate, ed ora finalmente libere di vedere la luce della sala di registrazione, complice l'aiuto in cabina di regia di Carlo Barbagallo. Songwriting, quello del nostro, abbeveratosi, a più riprese, all'arcaica fonte del cantautorato albionico degli anni Sessanta e Settanta, pur non disdegnando un'apertura del proprio sguardo compositivo, attraverso una caleidoscopica lente lisergica, alle polverose “strade blu” statunitensi. Un cammino a ritroso nel tempo quindi, attraverso oppiacei paesaggi dalla smorzata luminescenza, del quale il salmodiante mantra psichedelico di The Run è solo il primo, nebuloso, passo, in una distorta ricerca sonica che raggiunge il culmine, nella solenne densità strutturale di Last Place. Si respirano, al contrario, gli agresti sentori delle pianure americane in Railand, suggestivo esercizio di rilassatezza country folk, dove sull'intelaiatura acustica ad opera delle corde della chitarra e della lapsteel, si spande la liquidità dell'organo, con un sottofondo ritmico affidato al sabbioso strisciare delle spazzole sui tamburi e al trattenuto palpitare del basso. Percorrendo le medesime mulattiere a stelle e strisce, al calare della sera, si giunge infine alla conclusiva Purgatory, idilliaca oasi di quiete rurale. Un fingerpicking dalla delicatezza autunnale rimanda invece, in The Shine, alla tormentata inquietudine di Nick Drake, avvolta da un ottundente fondale di cupa ossessività distorta. Le dilatate rifrazioni armoniche di Waiting To Be Kill, mostrano, vicerversa, cosa sarebbe potuto scaturire da un incontro, in studio, tra i primigeni, barrettiani, Pink Floyd e la sei corde acustica di Bert Jansch, transfuga dai Pentangle, in quello che è un dopato folk dai toni opalescenti. A metà strada tra i Beatles, in pieno trip lisergico, di Sergent Pepper's Lonely Hearts Club Band, e le allucinazioni solistiche lennoniane, è, dal canto suo, una Emily di sopraffina fattura, tra solari ammiccamenti pop e sbilenco ciondolare bluesy. Otto pillole dalle tinte grigie, quelle dispensate da Monsieur Voltaire in questo suo, notevole, debutto, in grado, una volta “ingoiate”, di farvi librare leggeri tra ovattate nuvole e arcobaleni multicolori, verso le nebbie di un passato capace ancor oggi di sedurre con il proprio incanto sonico.

lunedì 24 marzo 2014

Bastard sons of Johnny Cash - New old story

(Pubblicato su Rootshighway)


Accantonate le, seppur parziali, velleità solistiche del precedente, peraltro ottimo, Bend In The Road, Mark Stuart opta oggi per un nuovo lavoro "di gruppo", richiamando pertanto a sé gli altri "figli bastardi di Johnny Cash", compagni di bisbocce, musicali e non, ormai da quasi un ventennio. Una "nuova vecchia storia", come recita il titolo di questo loro quarto parto collettivo, sapientemente raccontata grazie ad un songwriting forgiato sì dall'ascolto dell'opera dei propri "maestri", ma al contempo frutto, stando alle parole dello stesso Stuart, di "un cuore e di un'anima trasudanti Americana". Affermazione che non teme smentite, perlomeno ascoltando le dieci nuove, autografe, composizioni qui contenute; dieci piccole gemme, per l'appunto, di pura Americana, figlie di una vita passata "on the road", tra periferiche strade blu e sterminate highway. Una strada alla quale Stuart e soci hanno deciso di "dare la propria vita", come confessano, con trasporto, nella distesa country ballad Well Worn Heart, macinando chilometri su chilometri, sulle note d'una sostenuta Highway Bound, con sperdute cittadine ed incontaminati paesaggi, a scorrere veloci al di fuori del finestrino del proprio pick-up. Sembra inoltre aver giovato, ai nostri, il trasferimento dalla natia San Diego, in quel di Austin, con la polvere del Lone Star State andata ad attecchire sui pentagrammi tanto di una Leave A Light On di pura delizia western swing, che nel crooning nasale della languorosa Ain't No Tellin', dove si avverte l'influenza delle frequentazioni con il loro, attuale, conterraneo Willie Nelson. E se Stuart, nel precedente Bend In The Road, omaggiava apertamente un altro texano doc, Billy Joe Shaver, rileggendone la sempiterna I'm Just An Old Chunk Of Coal, oggi dimostra di averne assimilato l'epicità di scrittura nei muscoli country rock di Poor Man's Son, così come nella spigliatezza honky tonk di una, a dir poco, irresistibile title track. L'accordion di Lou Fannuchi guadagna invece il proscenio, con il suo mantico "sporcare" le originarie trame stuartiane, in una Into The Blue dal piccante retrogusto cajun, così come in El Troubadour, il cui flavour latino pare arrivare dal barrio losangelino dei Los Lobos. E se il galoppante up tempo No Honky-Tonks, dà modo al violino di Dennis Caplinger e alla pedal steel di Dave Berzansky, di destreggiarsi in veloci contrappunti solistici, la conclusiva, dolorosa Bounds Of Your Heart, complice il malinconico apporto vocale di Arabella Harrison, non sfigurerebbe, per pathos e purezza compositiva, in un ipotetico confronto con la recente produzione del summenzionato Red Headed Stranger. Saranno pure illegittimi, tuttavia riconosciuti musicalmente quando era ancora in vita, ma sono sicuro che da lassù il buon vecchio Johnny Cash sorriderà soddisfatto nel vedere come sono cresciuti forti e in salute questi suoi "pargoli".

mercoledì 19 marzo 2014

Cani della biscia - Fai come faresti

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Nati in quel di Piacenza nel 2010, da una comune passione per le melodie del beat italiano e per la tradizione musicale della propria terra d'origine, i Cani della Biscia, hanno fin dal primo giorno, passato musicalmente insieme, cercato di fondere tra loro due universi sonori non poi così inconciliabili come può, in apparenza, sembrare. Una piccola, folle, orchestrina intenta a barcamenarsi, in una moderna balera, con il liscio e la canzone italiana d'antan, rinvigorendo il tutto con la palpitante solarità dello ska e del reggae, fino a far proprie tortuose sonorità latineggianti. Orchestrina compressa, quasi a forza, tra le quattro pareti di uno studio per dare vita a Fai Come Faresti, a tutti gli effetti il manifesto sonoro del sestetto piacentino. Dodici canzoni fresche e genuine, figlie d'una giovanile volontà di non prendersi troppo sul serio, ma bensì di far divertire, divertendosi. L'incipit a dire il vero, prestando fede al titolo della medesima traccia d'apertura, Malinconia, è quasi trattenuto, con i soli pianoforte e violino a tessere una struggente melodia, prima che l'ingresso dell'intero gruppo trasformi il tutto una scalcinata marcetta in bilico tra divagazioni folk e melodismo italico anni Sessanta, in un'intrigante connubio ripreso anche nella successiva Adunata d'Amor. Orientali armonie d'ascendenza araba, e i caldi sapori del Sud Italia colorano, invece, Mal d'Africa, mentre, al contrario, è il levare tipico del reggae a scandire il tempo in Il Mal della Barbisa. E se nella dialettale Piròn al vendicatuur, con ospite Manuel Bongiorni, aka Musica per Bambini, alla voce, pare di trovarsi di fronte un Van De Sfroos in preda ad un, forse fin troppo debordante, delirio alcolico, in Vai Sulla Diga i nostri si ricollegano, a modo loro, alla tradizione del liscio romagnola grazie anche alla fisarmonica, nonché alla voce, di Matteo Bensi, dell'Orchestra Italiana Bagutti. Di ben altra pasta compositiva è la ballata, d'infinita leggiadria, Clochard, a dimostrazione di come i piacentini siano a proprio agio anche quando la scansione ritmica si fa più lenta e soffusa, e le liriche di più introspettiva profondità. Effluvi latini si avvertono, invece tanto in Carino, complice la fisarmonica affidata, in questo frangente, a Luca Zanetti, che nel commiato, a tempo di tango, di Rosso di Sera, arricchendo ulteriormente il già ricco carnet sonoro del combo emiliano. Musica forse anacronistica quella dei Cani della Biscia, ma tuttavia mai fine a sé stessa, né derivativa, grazie anche al ringiovanimento stilistico apportatole, risultando in tal modo capace di arrivare, con tutta la propria incontenibile e giocosa esuberanza, tanto alle vecchie quanto alle nuove generazioni.

sabato 15 marzo 2014

Peregrines - Proximi luces

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

«Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli», decantava l'inizio della più conosciuta opera del Manzoni. Uno scorcio la cui evocativa bellezza ha saputo ispirare tanto la penna manzoniana, quanto, oggi, a 187 anni di distanza, indirizzare lo scrivere musicale dei comaschi Peregrines. Formatosi due anni or sono, il quintetto lombardo mostra infatti un songwriting influenzato tanto dal familiare paesaggio lacustre circostante, quanto da altrettanto suggestive conformazioni naturali d'oltreoceano. Un piede immerso nelle casalinghe acque quindi, ed un altro piantato, ben saldo, tra le rocce delle Blue Ridge Mountains, là dove correvano libere le “volpi di velluto”, ma con un orecchio teso verso gli echi, d'una musica d'altri tempi, provenienti dalle verdi colline inglesi. Aggraziate ed evanescenti armonie vocali, composizioni d'ampio respiro, e dilatato minutaggio, tra agresti risonanze indie folk, focolari dal calore rock, ed arcaiche melodie d'albionica ascendenza, quindi, in un solare cammino, attraverso una soffusa calugine, verso pacificati lidi sonici. Ideali traghettatori, lungo questo pellegrinaggio, sono tanto la voce di Sean, pressoché perfetta, con la propria grazia espressiva, per le trame musicali intessute, quanto un violino, affidato all'archetto di Federico Casarin, fondamentale nel suo render ancor più aereo il suono, indirizzandolo al contempo verso le pastorali campagne anglosassoni. Il tutto viene, abilmente, cristallizzato in piccoli manufatti d'opalescente luminosità come Sun Will Rise, dagli intrecci vocali da brividi, o nei saliscendi armonici, tra oasi di quiete acustica e ascensionali volute elettriche di The Boats And The Waves. Canovaccio compositivo, quest'ultimo, che si ripete nella successiva Mary Celeste, dall'incipit di stampo cameristico, con, ancora, il violino e un pianoforte a sostenere la voce, prima di abbandonarsi verso deliqui di marzialità rockista. Ancora Gran Bretagna, ma quella degli anni zero dei Mumford and Sons, in una Little Dancer avente l'appropriato appeal melodico per fare sfracelli nell'etere radiofonico, grazie anche al radioso picking di un banjo, a raddoppiarne la “gradazione alternative folk”. Ambiziosa, a livello compositivo, è invece la lunga, oltre dieci minuti, The Wood/Superstition, ideale summa del pensiero sonico del combo, tra malinconia attendista e inquiete digressioni strumentali. Un suggestivo caleidoscopio emozionale, Proximi Luces, frutto ispirato di una limpidezza compositiva propria più di un navigato ensemble che di un gruppo alla sua opera prima.

martedì 11 marzo 2014

Moreland & Arbuckle @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Roots music from the Heartland” recita lapidario il sito di Aaron Moreland e Dustin Arbuckle, rispettivamente chitarrista e armonicista da Wichita, Kansas, in una descrizione certo calzante, ma forse riduttiva, del variegato amalgama sonoro plasmato dai due in quasi dieci anni di vita musicale condivisa. Una multiformità stilistica avente sì le proprie radici ben salde in terreni di tenacia rockista, ma capace al contempo di attingere al sempre fertile humus della musica tradizionale americana, sia essa nera, con il blues, nelle sue più diverse accezioni, avente ruolo preminente, che bianca, in, seppur sparuti, episodi di chiara ispirazione country'n'folk. Freschi della pubblicazione del loro sesto lavoro in studio, ”7 Cities”, registrato in quel di Seattle, presso lo studio di Stone Gossard, i due, o sarebbe meglio dire i tre, vista l'ormai consolidata presenza, al loro fianco, del batterista Kendall Newby, hanno letteralmente caricato “armi e bagagli” sul proprio furgone, abbandonando il natio Sunflower State in favore della loro seconda casa, la strada. Strada che li condotti, in un serrato tour, nuovamente sul suolo italiano, con una tappa, tra le altre, anche in quel di Savona, al Raindogs, in un tiepido venerdì d'inizio marzo. Compito di “scaldare” il palco del locale savonese spetta tuttavia agli italianissimi Sindacato del Mojo, trio guidato dal carismatico Andrea “Harpo” Giannoni, autentico funambolo dell'armonica. Accompagnato dall'eccellente chitarrista Davide Serini e dalla tromba bakeriana di Andrea Paganetto, l'armonicista spezzino ha saputo, grazie al suo blues viscerale intriso di “sudore, lacrime e sangue”, strappare ampi consensi tra i presenti, in particolar modo grazie ad una vissuta riproposizione di Down in Mississippi. Non da meno sono stati i loro “corrispettivi”, numericamente parlando, statunitensi, capaci d'infiammare, con un'ormai collaudata, nonché esplosiva, miscela a base di putrida melma Delta Blues, ipnotici riff di matrice Hill Country, torrido rock settantiano e una più moderna furia garagista, un'audience rimasta, inizialmente, pressochè attonita dalla “potenza di fuoco” manifestata dai tre. Se Aaron Moreland è, senza dubbio, il catalizzatore scenico, nel suo alternarsi tra una classica sei corde elettrica ed una cigar box, collegata contemporaneamente a due amplificatori, uno per chitarra l'altro per basso; Dustin Arbuckle si sobbarca l'arduo ruolo di frontman, destreggiandosi con ben due microfoni, nei quali cantare con caldo trasporto, o soffiare note distorte nel suo piccolo strumento ad ance. Collante ritmico indispensabile è infine Kendall Newby nel suo sostenere metronomicamente gli spunti solistici dei suoi due “principali”, così come nel suo dare ulteriore spinta propulsiva, grazie ad un furioso drumming, fattosi a tratti rutilante. La scaletta odierna, ovviamente, verte per la maggior sul loro ultimo parto discografico, il summenzionato “7 Cities”, a cominciare dall'infuocato Tall Boogie, con il quale il trio si presenta, agli astanti, con gli strumenti già ampiamente arroventati, passando per il rifferama auerbachiano di Quivira, fino alla baldanza rock blues di The Devil And Me. L'affilato shuffle Don't Wake Me, tratto dai solchi limacciosi di Flood, richiama alla mente l'operato tagliente del bottleneck di Elmore James, mentre una muscolare quanto ipnotica rilettura di All Night Long, è un dichiarato quanto sentito omaggio al mai dimenticato Junior Kimbrough e al blues delle colline tutto, frequentato più volte in passato dai nostri. Si tramutano in un roccioso power trio, di stampo hendrixiano, invece, quando Arbuckle abbandona il proprio strumento a fiato per imbracciare un ben più ingombrante basso elettrico, il quale rende certamente più corposo il loro sound, ma al contempo fa decadere una delle sue peculiarità, ovvero l'assenza, in organico, proprio del basso stesso. È tuttavia quando ritornano nel loro “classico” assetto che i nostri ci regalano momenti di maggior ispirazione, come una sferragliante rivisitazione del tradizionale John Henry, dilatatasi presto in un'estenuante jam, con tanto di assolo di batteria, sulle note conclusive della quale i tre salutano e lasciano il palco. Un congedo solo momentaneo, in quanto, c'è ancora tempo, vista anche l'insistenza del pubblico, per essere travolti dalle saettanti scariche elettriche d'una nervosa Road Blind, con Moreland a torturare la propria cigar box, conducendo i propri compagni verso un'ultima, orgiastica, digressione strumentale. Un juke joint tra antico e moderno, quello costruito asse su asse dal trio di Wichita, le cui legnose pareti presentano tanto le tinte scure del blues quanto quelle più elettriche del rock, dove lasciarsi andare a libere, selvagge, danze, o semplicemente bersi un bicchiere di buon whiskey. E se poi, una volta usciti, nella notte savonese, l'udito risulta essere ovattato, in fondo, a chi importa?

Setting Sun - Be here when you get there

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Quinto album per la band di Brooklyn, dalla line up, invero, alquanto labile, e ruotante sempre più intorno all'estro compositivo di Gary Levitt, di fatto la mente dietro all'intero progetto. Dieci composizioni dalla solare accondiscendenza, tra pruriti sperimentali indie rock ed elegante chamber pop, sviluppatesi in una pace melodica dove convivono, in armonia, incanto folkie, morbidezze cameristiche e puntute obliquità elettriche. Un'evanescente pastiche avente nell'esile vocalità di Livett uno dei propri tratti distintivi, intorno alla quale vengono tracciate ondivaghe trame strumentali di minimalistica suggestione, come il dondolio alternative country di Hard To Say, o l'acustico, insistito picking di Dream Next Door, con gli intarsi melodici, di stampo mitteleuropeo, del violino ad impreziosire il tutto. L'opener Got It Made, dove l'Americana viene variegata con un irresistibile flavour pop, pare invece guardare al songwriting di un'imberbe Jeff Tweedy alle sue prime prove di scrittura wilconiane, mentre incanta con la sua grazia Seasons, costruita minuziosamente sul misurato arpeggiare delle più diverse corde acustiche. Rappresentano, al contrario, il lato più “freak” della scrittura levittiana, il caustico rifferama elettrico della mantrica Week Long Nights, così come l'ovatta elettronica incorporata nella densità arrangiativa di Leave A Light On. Ruvido sperimentalismo e raffinatezza pop aventi il loro, perfetto, punto d'incontro, nel lento, ipnotico svolgersi della conclusiva Singularity, forse l'episodio più ambizioso di un album dalle cullanti oscillazioni umorali.

mercoledì 5 marzo 2014

Piers Faccini - Between dogs and wolves

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Multistrumentista, poliglotta nonché pittore, Piers Faccini ha dimostrato, fin dal suo esordio, una prorompente curiosità artistica, tanto da intraprendere, chitarra in spalla, un lungo e tortuoso cammino di ricerca. Molte le culture incontrate, in questo suo inquieto pellegrinare, così come molti i suoni e i colori andati ad arricchire una tavolozza sonora fattasi, sempre più, di cangiante iridescenza. Se il suo precedente lavoro, My Wilderness, recava tra i propri solchi “souvenir sonori” di avventurosi viaggi desertici, tra sabbiose dune e melismatiche arie orientali, con il nuovo Between Dogs And Wolves sono ben altri i “lidi” divenuti oggetto esplorativo del nostro. Non più la marcata fisicità di un paesaggio naturale, ma bensì un'immaginifica “geografia”, fino ad oggi celata e dalle sfumate coordinate, pur tuttavia capace di racchiudere, entro i propri cartografici confini, quanto più di prezioso l'uomo possieda; la propria anima. Un'intimistica esplorazione del proprio io recondito quindi, in quel crepuscolare spazio temporale, tra giorno e notte, richiamato dallo stesso titolo, a sua volta mutuato da un'espressione francese, entre chien et loup. Una personale digressione emotiva riversata su nastro nella quiete del proprio studio, immerso nel verde delle foreste francesi di Cevennes, in pressoché totale solitudine, eccezion fatta per il minimale contributo strumentale del basso di Jules Bikoko, e del violoncello di Dom La Nena, impegnata anche ai cori. Frutto di una penna dalla matura ispirazione, le composizioni qui racchiuse recano echi di un lontano, agreste, passato folk, d'albioniche radici. Se in My Wilderness a prevalere erano infatti i colori accesi del deserto, qui le tinte assumono, al contrario, toni chiaroscurali, con le quali Faccini dipinge acustici bozzetti di grigia malinconia, sulle orme di quel Nick Drake da sempre tra le sue fonti d'ispirazione. Paiono infatti rifarsi proprio all'opera drakeiana tanto Like Water Like Stone, nel suo amalgamare la bucolica rarefazione del folk inglese con arcaici sentori blues, autentica passione del defunto songwriter di Tanworth-in-Arden, quanto la mesta soavità dell'opener Black Rose, in un esile intreccio acustico, tra chitarra, pianoforte e violoncello, ove la voce si riduce a un dolente sussurro narrativo. Una cantilenante Broken Mirror, con la sua melodia sospesa sul tintinnare lieve di un clavicembalo, attinge invece alla fonte dei Fairport Convention di più solenne pastoralità, mentre un nuovo gioco contrappuntistico tra pianoforte e violoncello crea suggestioni cameristiche nella soffusa Girl in The Corner. Di maggior ariosità sono le coloriture folkie di Pieces Of Ourselves, prima che il muoversi leggero delle corde della chitarra acustica, tanto nel flebile livore di Missing Words quanto nella trasognante purezza della notturna Feather Light, ci accompagni, nuovamente, lungo introspettivi, umbratili, percorsi umorali. E se in Reste La Maree Faccini indossa, con disinvoltura, i panni dello chansonnier, omaggiando in tal modo, e per la prima volta, la lingua del paese dove ora risiede; stupisce senza dubbio il ricorso all'idioma italico (dono ereditario del genitore paterno di chiare origini italiane) in Il cammino, accorata ballata sentimentale, dai caldi aromi mediterranei. Un album di dimessa, autunnale, delizia folk, Between Dogs And Wolves, ideale compagno sonoro nell'attendere il lento sfumare della luce del giorno all'appropinquarsi delle notturne tenebre. Entre chien et Loup, per l'appunto.

sabato 1 marzo 2014

William Fitzsimmons - Lions

(Pubblicato su Rootshighway)

Con un'infanzia difficile, cresciuto da due genitori entrambi ciechi, ed un'età adulta altrettanto travagliata, complice un doloroso divorzio, William Fitzsimmons sembra aver trovato nella musica la propria salvezza da una inevitabile deriva esistenziale. Musica da sempre presente nella vita del barbuto songwriter, prima come necessità comunicativa per appianare l'ostacolo fisico della cecità genitoriale, e in seguito quale salvifico tramite attraverso il quale esorcizzare i propri demoni interiori. Ne sono un esempio tanto l'incensato The Sparrow And The Crow, malinconica riflessione sulla fine del proprio matrimonio, quanto la timida solarità di Gold In The Shadows, a siglare, musicalmente, l'alba di una nuova esistenza, artistica e non. Un'armonia emotiva ulteriormente acuitasi in questi ultimi tre anni definiti, dal nostro, come "meravigliosi, dolorosi, lunghi ma incredibilmente brevi, tra i più educativi e gratificanti che io abbia mai vissuto" e oggi permeante i pentagrammi di questo suo sesto lavoro, seppur filtrata attraverso un monocromatismo dalle grigie tinte autunnali, dove protagoniste sono, come sempre d'altronde, una voce, dalla disarmante fragilità e il delicato pizzicare di una sei corde acustica. Prodotto da Chris Walla dei Death Cab For Cutie, Lions si colloca, infatti, giusto a metà tra la pacata ariosità del suo predecessore e la chiaroscurale mestizia di The Sparrow And The Crow, mostrando il songwriting fitzsimmonsiano nella sua più cruda essenzialità, increspato appena da mai invasive cesellature elettriche e da ovattate decorazioni elettroniche. Vedono così la luce composizioni dalla tenue, umbratile bellezza, come l'opener Well Enough, avvolgente nel suo trattenuto intreccio elettroacustico, o la soavità di una Sister dalle incantevoli armonizzazioni vocali. Sulle medesime coordinate si attestano le acustiche oscillazioni umorali di una Brandon di rarefatta delicatezza folkie, e l'agreste quiete di una sussurrata Josie's Song.Mirabile per costruzione armonico-ritmica è From You, frutto di un maggior lavorio in fase di arrangiamento, tra lo strascicare ritmico della batteria, l'ostinata liquidità d'un organo, e gli evocativi fraseggi della chitarra elettrica, mentre la title track pare, dal canto suo, trovare giovamento percussivo dal battere digitale di una drum machine. Nevrosi elettriche caratterizzano l'incipit di Centralia, prima di stemperarsi in una livida, scura, ballata, su di un fondale di crepitante rumorismo. E se la "familiare" ombra di Nick Drake si allunga tanto sulle bucoliche morbidezze acustiche di Hold On, quanto nell'arpeggiare, in punta di dita, di Blood/Chest, ben contrappuntato dal sinuoso scivolare dell'archetto di un violoncello e dal placido picchiettare dei tasti del pianoforte, la squisitezza melodica di Fortune è, al contrario, un effimero raggio di sole teso a rischiare il grigiore malinconico di un songwriting confermatosi, pur nella sua monocromatica essenzialità, ancor una volta alquanto ispirato.