venerdì 18 luglio 2014

Robert Plant & the Sensational Space Shifters / North Mississippi Allstars @ Pistoia Blues Festival - Pistoia

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Una lieve pioggia tamburella sul parabrezza della macchina mentre ci avviciniamo a Pistoia, lasciando presagire, viste anche le grigie nuvole dalle quali proviene, una serata “bagnata”. Fortunatamente, giusto il tempo di trovare parcheggio, e il cielo si mostra clemente aprendosi in tutta la sua tersa ed azzurra limpidezza, quasi avesse ascoltato le nostre suppliche. Raggiunto il centro della cittadina toscana, ci dirigiamo verso piazza del Duomo, dove questa sera salirà sul palco del Pistoia Blues Robert Plant, nel battesimo italiano della sua nuova avventura musicale in compagnia dei Sensational Space Shifters. Arrivati quasi in prossimità della piazza ci imbattiamo, quasi per caso, in Cody Dickinson, batterista nonché anima, insieme al fratello Luther, dei North Mississippi Allstars, ai quali spetterà invece il compito di aprire la serata. Due parole, una foto insieme e il buon Cody ci lascia con la profetica frase “World boogie is coming”. Una profezia che si dimostrerà quanto mai veritiera, perlomeno a giudicare da quanto ascoltato, poco dopo, quando i tre si sono presentati sul palco. Praticamente sconosciuti ad una già gremita piazza, colorata da una miriade di magliette recanti, come inevitabile, il nome dei Led Zeppelin, il trio di Hernando non si è lasciato intimorire, dando vita ad un set di rara intensità, in un'impeccabile riproposizione di quel hill country blues del quale i nostri sono tanto giovani alfieri, quanto prosecutori di un'antica tradizione avente come capostipiti leggende, a lungo frequentate, del calibro di RL Burnside e Otha Turner. Proprio con un tributo a quest'ultimo ha inizio il concerto, in un medley d'arcaico tribalismo tra Shimmy, una dixoniana My Babe e una sanguigna Station Blues, a rievocare quelle poliritmie elemento fondante delle sonorità fife and drum di cui proprio Turner fu uno dei più fulgidi rappresentanti. “World boogie is coming” aveva promesso Cody, e proprio dal loro ultimo lavoro, recante lo stesso titolo, i fratelli Dickinson hanno attinto a piene mani, traghettando nel futuro, secondo una personale visione modernista della materia, vecchi tradizionali e brani simbolo del blues delle colline. Ad aiutare i due vi è Lightning Malcom, brillante chitarrista nonché amico di lunga data, assoldato, in questo frangente, come bassista, nell'ardua impresa di sostituire il corpulento Chris “Big” Chew. Compito svolto, invero, più che egregiamente, con il nostro a muoversi agile e preciso sul proprio, inedito strumento, come in una serrata Rollin And Tumblin, con Luther impegnato a far scorrere il proprio slide sulle due corde di un'auto-costruita coffee can guitar. È invece Cody a rubare la scena ai due, prima indossando una washboard “preparata” ed effettata, grattandola con veemenza in una debordante versione di Psychedelic Sex Machine, per poi indossare un marching snare e dar vita, insieme a Luther alla grancassa e Malcom ad un piccolo tom, ad una tonitruante rivisitazione della turneriana Granny, Does Your Dog Bite, conclusa in mezzo alla piazza tra le urla entusiaste dei presenti. Tornati sul palco i tre ci inebriano con gli effluvi sudisti della strumentale ML, dove Cody imbraccia anch'egli una chitarra elettrica per incrociarla con quella del fratello e Malcom si siede alla batteria dividendosi tra basso, grancassa e rullante; per poi tuffarsi in un nuovo infuocato medley, intriso nel fango del Delta del Mississippi, tra Preachin' Blues, a firma Robert Johnson, e una Mississippi Boll Weevil di pattoniana memoria. Il marziale dipanarsi di Back Back Train è invece l'enfatico preambolo ad una nervosa, elettrica Goin' Down South, sfociante nel palpitare sincopato di JR, quasi a voler invocare i fantasmi di RL Burnside e Junior Kimbrough, ovunque essi siano. Sulle note della seconda assistiamo ad uno “scambio volante” di strumenti, tra Luther e Malcom, con quest'ultimo a prendersi anche il microfono in un'ipnotica, kimbroughiana All Night Long, prima di far ritorno al proprio “ruolo primario” in una micidiale Let My Babe Ride con la quale i tre salutano, dopo averci fatto rivivere la magica atmosfera che si respira ogni anno al North Mississippi Hill Country Picnic. Un set adrenalinico dal notevole impatto, con un unico difetto, la durata alquanto risicata, che ha lasciato l'amaro in bocca in quei, purtroppo pochi, astanti accorsi per assistere al concerto dei terribili fratelli Dickinson. D'altra parte il piatto forte non è di provenienza statunitense ma bensì albionica, come ricordato da quella che sarà la copertina di Lullaby And...The Ceaseless Road, album di prossima pubblicazione del protagonista della serata, il cui artwork campeggia sul palco. E Robert Plant non si fa certo attendere e acclamato a gran voce fa il suo ingresso sulle note pizzicate della chitarra acustica di Liam Tyson, per ammutolire subito la piazza con una struggente, intensa versione di Babe I'm Gonna Leave You. É un uomo dal passato, musicale, leggendario quanto “ingombrante” il biondo crinito cantate inglese, ma questa sera ha dimostrato di saperlo esorcizzare con estrema classe, e con una voce alla quale il tempo ha sì limitato in parte l'estensione ma ha donato anche nuove, calde tonalità. Non solo un salto temporale, nel proprio passato sonoro, ma anche geografico quello compiuto stasera, con i Sensational Space Shifters come fedeli compagni di viaggio. Un viaggiare spazio-temporale che ha in più d'un occasione affiancato il vecchio Dirigibile, pur mantenendo inalterata la propria rotta verso nuovi, futuristici confini sonici. Un immaginifico itinerario che dall'Aberdeen di Bukka White e la Chicago di Willie Dixon, passando per la natìa Gran Bretagna, si è sporcato tanto con la polvere del deserto africano che con sintetici loop elettronici. A conferma di ciò basta osservare il trattamento riservato a Black Dog, trasformata in un melismatico declamare ancestrale, che il percuotere dei tamburi di Dave Smith e il pulsare del basso di Billy Fuller, con il riti (il violino ad una corda) e i vocalizzi di Juldeh Camara avvicinano alle sonorità desertiche dei Tinariwen. Sono proprio i “souvenir sonici” dei trascorsi di Plant in Mali ad emergere maggiormente tra le trame d'una amalgama musicale di difficile catalogazione. D'altra parte sarebbe castrante quanto inutile confinarlo entro rigidi steccati stilistici, bisogna solamente abbandonarsi al turbinio di suoni, antichi e moderni, sapientemente miscelati da uno sciamanico Plant e dai suoi “seguaci”. Come quelli innervanti l'evocativa Rainbow, primo estratto dal futuro Lullaby And...The Ceaseless Road, ed aperta dal battere collettivo dei bendir. Going To California, affidata al solo picking della chitarra di Tyson e al mandolino di Adams, mantiene intatto tutta la sua pastoralità folkie, mentre What Is And What Should Never Be ammalia con la sua sognante aura melodica prima di venire squarciata da un spigoloso rifferama pregno d'elettricità. E che dire di una Spoonful tra indiavolata possessione blues e gli algidi tocchi delle tastiere di John Baggott, o di una Fixin To Die prelevata dal songbook di Bukka White e trasformatasi in una sussultante country song futurista, con un infervorato Justin Adams che pare un Brian Setzer sotto anfetamina? Bisogna solo ascoltare in rispettoso silenzio e giovarsi di poter assistere a così tanta grazia interpretativa. Grazia che raggiunge il suo culmine nella rilettura di un altro tradizionale, Little Maggie, (anch'essa nella tracklist dell'album di prossima pubblicazione) capace d'unire ad un substrato melodico-ritmico figlio della grande Madre Africa, intessuto nuovamente dal riti e dal koloko, ai quali si aggiunge il banjo appalachiano di Tyson, il lirismo epico della tradizione musicale americana; così come in una stupefacente Whole Lotta Love, dal melmoso, lento incipit bluesato, prima di lasciare esplodere quel riff che ha marchiato a fuoco la storia del rock'n'roll, per poi omaggiare Elias Bates McDaniel, in arte Bo Diddley, con un'acida citazione di Who Do You Love, rimandante ai Quicksilver Messenger Service di Happy Trails. I sette abbandonano il palco tra gli applausi scroscianti, ma visto il rumoreggiare della folla non tardano a far ritorno in scena, per proporre un altro brano inedito, Pocketful Of Golden, avvolto, ancor una volta, da sensuali armonie africane, aumentando ancor di più la curiosità per il nuovo lavoro in studio. “Ed ora un'altra canzone per chiudere questa magnifica serata”, dice Plant, “una vecchia, vecchia canzone folk dalla zona di Pistoia”. Neanche il tempo di cercare di capire che razza di brano potrebbe essere che le note immortali di Rock And Roll mandano in delirio tutti i presenti (con tanto di reggiseno lanciato sul palco tra lo stupore dello stesso Plant), portando il Dirigibile a sorvolare per un'ultima volta sopra i cieli di un continente africano mai sembrato così vicino. Due concerti a dir poco magnifici quelli ai quali abbiamo avuto la fortuna di assistere stasera, con i North Mississippi Allstars a confermarsi a dir poco micidiali on stage, e un Robert Plant alla cui gigantesca statura artistica non resta che inchinarsi in segno di profondo rispetto.




Chuck Ragan - Till midnight

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



Con rumorosi trascorsi tra le fila della post hardcore band Hot Water Music, Chuck Ragan è stato come folgorato, qualche anno or sono, non sulla biblica via di Damasco, quanto sullo sterrato d'una sperduta rural route statunitense. Una “conversione” acustica che dapprima l'ha visto affiancare alla band “madre” un side project, a nome Rumbleseat, di più sommessa estrazione folk, fino a quando, conclusasi la summenzionata esperienza collettiva, ha intrapreso un nuovo, solitario cammino, a proprio nome. Un'avventura solistica dove, tuttavia, permanevano, e permangono tuttora, roventi reminiscenze del proprio passato da punk rocker, riscontrabili tanto nel tipo di trattamento riservato agli stilemi Americana, riletti con sanguigno ardore, quanto in una ruvida voce dalla scorticante liricità. Sarà stata inoltre la frequentazione di “canaglie” del calibro di Ben Nichols, Craig Finn e Jesse Malin, compagni di scorribande musicali in un orgiastica serie di date, oppure il riavvicinarsi con i vecchi “compagni d'armi” degli Hot Water Music, ma Ragan sembra, perlomeno a giudicare da quanto contenuto nell'odierno Till Midnight, aver iniettato, in tempi recenti, una nuova, robusta dose d'adrenalinica elettricità in un, a dire il vero, già inquieto nervosismo rootsy. Registrato in quel di Los Angeles, sotto la supervisione dell'ex Blind Melon Christopher Thorn, con il supporto degli ormai fidati Camaraderie (ai quali si aggiunge la new entry dietro ai tamburi David Hidalgo Jr), l'album si avvale inoltre del contributo vocale di numerosi ospiti, tra i quali meritano una menzione il succitato Ben Nichols dei Lucero e Rami Jaffee dei Wallflowers, a creare un muro di corale vocalità, poggiante su solide fondamenta di malta elettroacustica. Un approccio compositivo ed esecutivo, quello del songwriter texano, fattosi quindi ancor più muscolare che in passato, il tutto a discapito di quell'espressività spoglia e genuina caratterizzante i suoi primi lavori da “titolare”. Sono per l'appunto i, purtroppo sparuti, episodi sonori riconducibili a quest'ultimi a brillare per bellezza di scrittura e fascino evocativo, come una ruspante Bedroll Lullaby, connubio, decisamente a fuoco, fra terrigni sentori Americana, evocati dal violino di Jon Caunt e dalla pedal steel di Todd Beene, e la febbrile, lacerante interpretazione vocale raganiana; oppure l'accorata supplica folk di Wake With You, fino ad una conclusiva, distesa For All We Care, dal finale, in crescendo, irto di spigolosità elettriche. Altalenante è invece l'esito quando il nostro decide di puntare tutto sui muscoli, martoriando i propri originari spartiti acustici con bruschi, crepitanti scossoni rockisti, in una rabbiosa, quanto spesso insensata, foga esecutiva. E se l'opener Something May Catch Fire così come la successiva Vagabond, pur modellate su di una ben calibrata costruzione del climax, sembrano altresì fare il verso, vocalmente e non, tanto al suo illustre “collega” del New Jersey, tal Bruce Springsteen, quanto al graffiare del “felino” John Mellencamp, nel country demolito e sfasciato di Revved o in una Gave My Heart Out dall'eccessiva enfasi declamatoria, sono le stesse architetture raganiane a mostrare invece più di uno scricchiolio strutturale. Nel suo voler essere, a volte forzatamente, ‘sopra le righe’, Till Midnight pare concepito per essere riproposto, tra litri di sudore versato e di alcol bevuto, sulle assi di un palcoscenico, senza dubbio dimensione ideale nella quale dar sfogo alla dirompente carica interpretativa del nostro. Un album che farà sicuramente la gioia degli springsteeniani più incalliti, così come dei seguaci del Coguaro di Bloomington, ma al contempo lascerà con l'amaro in bocca coloro che avevano conosciuto, e apprezzato, Ragan ai suoi esordi.


domenica 6 luglio 2014

Clara Barker - Fine Art and the Breslins

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


“See the man with the stage fright...”, cantava Rick Danko, l'indimenticato bassista della leggendaria Band, quasi ad esorcizzare una paura, quella del palcoscenico, da sempre incubo dei musicisti, siano essi narcisistiche “prime donne” avvezze alle luci della ribalta, quanto imberbi esordienti di belle speranze. Un'ansia, quella di esibirsi di fronte ad un pubblico, attanagliante anche Clara Barker, giovane songwriter dell'Isola di Man, incapace di replicare dal vivo quanto prodotto, musicalmente, nella protetta solitudine delle proprie pareti domestiche. C'è stato bisogno di una drastica “terapia d'urto”, esibendosi in una serata open mic, a pochi passi da casa, per sconfiggere questa sordida fobia, acquistando una sicurezza performativa tale da spingerla ad “imbarcarsi” in una serie di date sul suolo britannico, fino a raggiungere quegli Stati Uniti a lungo sognati. A queste prime esperienze on stage ha fatto seguito anche l'ingresso tra le pareti di uno studio di registrazione, dove le canzoni, annotate su di un taccuino nelle solitarie giornate casalinghe, hanno dato forma ad un esordio, Indigo, seguito a breve distanza da un EP dal vivo, Hard Work And Whiskey, ulteriore testimonianza d'una, ormai acquisita, sicurezza scenica. Lavori, quest'ultimi, nei quali la lucente leggerezza del pop si 'sposava”, idealmente, con una fragilità acustica di lontana derivazione folk, in un “matrimonio musicale” che pare perdurare anche nell'odierno Fine Art And The Breslins. Una cifra stilistica, dalla gioiosa effervescenza melodica, nella quale tuttavia erano, e sono tutt'oggi, riscontrabili alcuni palesi punti deboli, a cominciare dalla voce della Barker, sin troppo esile nel suo svolazzare armonico, in un monocromatismo tonale a tratti impalpabile. Ai limiti espressivi di quest'ultima si aggiunge un songwriting ancora acerbo, nonché sin troppo “ballerino” nel suo barcamenarsi tra le influenze più disparate, e spesso inconciliabili tra loro, con il negativo risultato di appesantire i pentagrammi con tronfi e melensi arrangiamenti. Paradossalmente è infatti quando la Barker compone “per sottrazione” che sembra ottenere i risultati migliori, come in Hard Work And Whiskey e Happy Accidents, ballate d'asciutta e rarefatta delicatezza acustica, frutto di un più parco lavorio arrangiativo. Convincono, allo stesso modo, anche lo scalpitio country folk di Love (Fill My Heart), e la personale, frizzante rivisitazione del boom chicka boom cashiano di Still Here, mentre, al contrario, tanto l'opener Angel quanto una patinata e ruffiana Sollami and Sollamar sono confezionate ricorrendo a dosi di zuccherina melassa pop talmente sovrabbondanti da mandare in shock diabetico anche il divoratore di “caramelle soniche” più goloso. Materia sonora, quella pop, che la Barker tenta infine di variegare, in Dodging Bullets e Seth's Song, ricorrendo a sintetiche atmosfere elettroniche con risultati, invero, più che discutibili. Se l'ansia da palcoscenico è ormai solo un lontano ricordo, oggi la Barker dovrebbe invece concentrare la propria attenzione su di un songwriting ancora troppo altalenante nel suo passare da momenti d'ispirata grazia compositiva a rovinose cadute di stile.



Rocky Wood - Shimmer

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il legno è elemento basilare nella costruzione di uno strumento musicale, con la propria capacità, grazie alle sue caratteristiche naturali, di condurre e far risuonare al proprio interno la grezza materia sonora. E se l'abete rosso, avente nella nostrana Valle di Fiemme uno dei suoi habitat prediletti, è solo una delle tante varietà ascritte nella lista dei “legni nobili” per questo tipo di certosina lavorazione, dalla vicina Svizzera una nuova scoperta in campo legnoso reclama oggi il proprio posto all'interno di questa ristretta cerchia. Un “legno roccioso proveniente per l'appunto dalle verdi vallate elvetiche, mirabilmente lavorato e tornito da un quintetto di giovani musicisti, i Rocky Wood, capaci di estrapolarne le nascoste qualità musicali, per farle poi confluire nell'arioso risuonare di un debutto, Shimmer, dove la sospensione onirica del dream pop incontra i sentori agresti del più incontaminato avant folk. Se è a livello strumentale che si avverte maggiormente l'influsso della componente “vegeto-rocciosa”, è tuttavia la voce da contralto di Romina Kalsi, calda ed avvolgente, come la brezza estiva, a condurci in suggestivi territori d'immaginifico incanto. Intorno ad essa le corde di Fabio Besomi e Roberto Pianca intrecciano aeree melodie d'agrodolce evanescenza, ottimamente sostenute dal battere ritmico del basso di Stefano Senni, anche al contrabbasso, e dalla batteria e percussioni di Nelide Bandello. Vengono in tal modo “intagliate” piccole sculture soniche, d'artigianale bellezza, come The Dawn, in cui il pizzicare bucolico di un banjo e il tintinnare delicato del pianoforte vanno a cesellare l'arpeggiare flebile di una sei corde acustica, accompagnandoci, insieme alla struggente vocalità della Kalsi, verso il sopraggiungere dell'alba. Oppure come la livida, Dead Man, avvolta dalle grigie nebbie del folk albionico, o l'opener Blind Hawaii, d'intelaiatura elettro-acustica, nella quale si avverte maggiormente la purezza del songwriting del quintetto. Un'elettricità avvertibile, anche, tanto in una Plans capace d'espandere, verso oasi di rarefatta ondulazione melodica, un elettrico incedere younghiano; quanto nel finale d'una urticante Shooting Frames, tra distorte volute chitarristiche e una più marcata spinta percussiva. Il folk, nella sua accezione modernista, torna invece ad essere elemento preponderante tra le trame d'una Run Away dove spicca la plumbea pastoralità di un fingerpicking ricordante gli episodi di più trattenuto languore rurale dei fratelli Avett; così come nella lunga Sulfur Seed pervasa da nebulose rarefazioni, in un soffuso preambolo alla conclusiva, al contrario breve, Beautiful, a rievocare nel suo mesto fluttuare, il lento ed inesorabile muoversi della marea. Un'opera prima di delizioso equilibrio elettro-acustico, Shimmer, nonché sintomatica delle pregiate proprietà musicali di un “legno roccioso”, dal quale risuonano arie di poetico splendore.




mercoledì 2 luglio 2014

We and the Devil, walking side by side - Intervista a Chris Cacavas e Edward Abbiati

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



Il primo è stato tastierista dei leggendari Green On Red, il secondo è invece il cuore pulsante dei Lowlands, una delle più belle e solide realtà dell'Americana “made in Italy”, oggi i due uniscono i propri songwriting in un inedito progetto condiviso.
Abbiamo chiesto a Chris Cacavas e Edward Abbiati di raccontarci la genesi di ”Me and the Devil”, primo ispirato risultato di questa comunione artistica.

Vi conoscete ormai da anni, e vi siete più volte, musicalmente frequentati, specie in occasione della registrazione dei primi due album dei Lowlands (band di cui Edward è leader e compositore) ai quali partecipa, in veste di ospite, proprio Chris. Quando e come è nata invece l'idea di un progetto a due?

Edward: Era un periodo in cui io ero un pò fermo con i Lowlands e anche lui era fermo da un pò. Ci sentivamo al telefono ogni tanto, un saluto e quattro chiacchiere. Ci siamo detti, perché non trovarci, senza scadenze o aspettative, due o tre giorni in cui proviamo a scrivere assieme. Vediamo come va. Era una cosa che io non avevo mai praticamente fatto. Tutto è stato molto naturale, i pezzi venivano molto fluidamente. Li componevamo e li facevamo a pezzi, musica e testi, sul momento. Appena trovavamo una struttura che ci pareva fosse la canzone, la registravamo al volo sul telefonino e passavamo alla seguente...dopo 4-5 brani abbiamo iniziato a pensare che forse stavamo scrivendo un disco assieme.


Suggestivo è, senza dubbio, il titolo di questo vostro primo parto discografico condiviso, Me and the Devil, rievocante una mitologia blues d'ascendenza johnsoniana. Come mai questa scelta? Ha qualche significato recondito?

Chris: Ummm...essenzialmente si riferisce a quell’antica lotta tra il bene e il male...o forse tra il male ed il male. Le canzoni su questo disco parlano di lotte interne ed esterne e la frustrazione nel non riuscire a trovare soluzioni semplici. La mitologia del diavolo? Per alcuni il Diavolo è molto reale e non ha nulla di mitologico. E’ sempre stato il simbolo del male profondo e ha avuto un ruolo in innumerevoli canzoni. Nel nostro caso forse abbiamo trovato un’alleanza più che una lotta...una collaborazione. Chissà. Time will tell.


Il blues, tuttavia, è solo uno degli elementi sonori presenti tra i solchi di un album avente nella sua multiformità stilistica il proprio tratto distintivo, nonché punto di forza. L'Americana in tutte le sue più diverse accezioni, l'elettricità del rock, il soul urbano e il raccoglimento agrodolce del folk convivono, infatti, in un intrigante amalgama che potrebbe quasi essere considerato una sorta di summa artistica dei vostri rispettivi percorsi musicali. Che ne pensate?

Chris: Ed e io abbiamo background molto simili per alcuni versi e molto diversi per altri. Ascoltiamo entrambi moltissimi generi musicali. Gli stili di queste canzoni sono usciti molto spontaneamente. Non ci siamo mai detti “ci serve un pezzo soul o un pezzo folk”. Abbiamo scritto le canzoni suonandole su due chitarre acustiche. La band le ha riempite in maniera molto intuitiva in studio.


Un lavoro, “Me and the Devil”, democratico fin dalla ragione sociale, recante entrambi i vostri nomi, così come a livello compositivo, con le vostre penne ad apporre equamente la loro firma. Avevate, singolarmente, già delle idee fissate su carta prima di incontrarvi in studio di registrazione oppure il songwriting di entrambi ha tratto giovamento da un lavorio lirico-musicale collettivo?

Edward: Ci eravamo imposti di non avere alcuna nota o linea di testo scritta prima di vederci. Volevamo fosse una cosa totalmente nuova e una collaborazione totale frutto del posto e del momento che ci riuniva. Le idee musicali e di testo sono arrivate da entrambi le parti. Abbiamo avuto una prima sessione di scrittura nel Febbraio del 2012 in cui abbiamo essenzialmente messo giù 9 brani. Ci siamo ritrovati a Giugno 2013 per rielaborare quelle canzoni e raffinarle e ne sono uscite un paio di nuove. Ad Agosto 2013 siamo andati a registrare. Spontaneo e libero ma tanto lavoro comunque alla base dei pezzi incisi. Musicalmente Chris ha sicuramente dato qualcosa in più e sui testi ho scritto qualcosa in più io. Direi un 60/40 e vice versa. Ci siamo spinti a vicenda a cambiare il nostro modo di scrivere e comporre. Credo che alla fine si sentano entrambe le personalità ma soprattutto che si senta la collaborazione. Non suona come un disco di Cacavas e non suona Lowlands...ma si sentono entrambi. Per me è stato esaltante e terrificante misurarmi con Chris. Mi ha spinto al limite. Musicalmente è infinito. Ho imparato moltissimo da questa collaborazione.


Oltre alla vostra vecchia “conoscenza” Mike Brenner alla pedal steel e Winston Watson ai tamburi, hanno preso parte alle sedute di registrazione un ristretto manipolo di valenti strumentisti. Come li avete coinvolti nella realizzazione del disco? 

Edward: A Pavia ci siamo trovati in 4, oltre a Chris ed io, Mike Brenner da Philadelphia, che collabora coi Lowlands fin dal primo disco e Winston Watson, amico di vecchia data di Chris dai tempi di Tucson. Il disco lo abbiamo registrato in 2 giorni fondamentalmente...dal terzo giorno abbiamo lavorato a qualche overdub. A Mike era venuto in mente un Sax per due pezzi e Pavia ha un sassofonista eccezionale che è Andres Villani. Una telefonata ed è arrivato col sax e le infradito. Stefan Roller, chitarrista tedesco amico di Chris, era sul Garda in ferie (ovviamente!) ed è venuto a trovarci un giorno in studio e ha registrato una parte spettrale per “Me and the devil”. Richard Hunter, armonicista USA nostro amico dai tempi di The Last Call, lo abbiamo coinvolto per dare un pò di colore e ritmo conoscendo benissimo le sue qualità. Ha registrato la sua parte negli states come anche David Henry che ci ha mandato una parte di Cello stupenda per “Hay Into Gold”. Lui lo conosco dai tempi di The Last Call e ha registrato per noi tutti gli archi del prossimo disco dei Lowlands. Fenomenale.


Registrazioni effettuate presso una sperduta fattoria nella campagna di Pavia, lo “Studio in the barn”. Ci potete raccontare cosa è accaduto, in questo arcaico luogo, durante quei giorni d'agosto dello scorso anno? 

Chris: Il granaio era usato come sala prove da alcune band locali ed è gestita da Furio Sollazzi, leggendario batterista pavese che ultimamente suona in una band tributo ai Beatles. Anche se c’era un tappeto e numerosi strumenti era tanto granaio quanto sala prove. Ragnatele gigantesche, gli uccelli sotto al tetto e tracce di topi ovunque. Mancava solo il fieno! Per fortuna Ed e sua moglie lo hanno ripulito prima del nostro arrivo...fondendo il loro aspirapolvere!!


La naturale prosecuzione della “vita” di un album in studio è la sua riproposizione dal vivo. Vi vedremo quindi calcare, presto, i palchi insieme? E se sì, avete già pensato come strutturare un ipotetico concerto condiviso 

Chris: Sia a me che a Edward piacerebbe moltissimo suonare questi pezzi live con Winston e Slo Mo ma il costo di portarli in Europa per delle date potrebbe essere un ostacolo finanziario. Ed e io potremmo anche suonare questo repertorio con altri musicisti ma per ora non ci sono date pianificate.


Alla luce delle vette artistiche raggiunte con Me and the Devil, possiamo aspettarci anche una nuova collaborazione tra le pareti dello studio di registrazione? 

Chris: Collaborerei con Ed di nuovo, senza pensarci su un secondo. E’ solo una questione di timing...e il tempo sembra svanire di questi giorni. Spero che troveremo il modo di sederci e scrivere di nuovo assieme e di fare un altro disco assieme.


Tornando a parlare di songwriting, se chiedessi ad ognuno di voi di indicarmi un brano, appartenente al songbook dell'altro, del quale avrebbe voluto essere l'autore, quale sarebbe?

Chris: There’s a world tratta da Gypsy Child
Edward: California (Into the Ocean) da Bumbling home from Star


Dagli Stati Uniti al Sud della Germania, dove da anni ormai risiedi; in ognuno di questi paesi, Chris, sembri aver trovato stimoli per comporre e creare, come del resto avvenuto in questa tua nuova sortita italiana. Che differenze culturali, ma soprattutto musicali, hai riscontrato tra i tre diversi paesi? 

Chris: Sono stato in Germania per più di 12 anni e, nonostante abbia scoperto varie band locali, il grosso di quello che ascolto viene dagli Stati Uniti o dal Regno Unito. Culturalmente gli Europei hanno standard differenti riguardo alla loro “qualità di vita”. Lo stile di vita e lavorativo è un pò più rilassato rispetto agli States ed è per questo, anche, che mi ci trovo cosi bene. Non credo che il luogo geografico in cui vivo abbia un impatto sul mio stile musicale...anche se ripensandoci, ora sto suonando in una band che fa Krautrock...forse devo rivedere questa mia posizione!


Un cosmopolitismo che ti accomuna allo stesso Edward, nato in Inghilterra da madre inglese e padre italiano, e cresciuto nella summenzionata Pavia. Una provincia, quella pavese, caratterizzata da una fervente scena musicale, con elemento aggregante il palco dello Spaziomusica, nella quale si sono, in passato, formate alcune delle più interessanti realtà italiane in ambito Americana, e non, tra le quali spiccano proprio i tuoi Lowlands. Oggi questa scena è rimasta immutata e pulsante come un tempo, oppure, complice la recente crisi socio-economica, qualcosa è cambiato?

Edward: Sono cresciuto tra Italia, Francia ed Inghilterra. Dopo un periodo in Australia sono tornato in Italia e ho scelto Pavia sopra Milano. Era il 2003 e solo allora ho scoperto la scena Pavese. Avendo scelto di vivere li ho iniziato a portare molti dei miei amici musicali a Pavia a suonare, era un modo per tenere un contatto diretto con un mondo musicale più ampio. Sono venuti i Marah, i Lucero, Gli You Am I, Tex Perkins, Rod Picott, Dayna Kurtz, Magnolia Electric Co,...molti altri. Spaziomusica mi permetteva di farli suonare li. Spaziomusica è un locale leggendario...non è un caso che a Pavia ci sia una scena vivace e varia (anche se purtroppo disgregata per molti versi). Quel palco ha accolto talmente tante band di qualità che i musicisti locali hanno preso lezioni dai migliori. In questi 10 anni ho conosciuto musicisti locali eccezionali, alcuni di questi sono diventati amici: Mandolin Bros., Rude Mood (oggi Terlingo & Sacchi Quintet), Gnola Blues Band, Green Like July, News for Lulu, Luca Milani, gli Emily Plays, Stephane TV... la scena resta vivace e varia, dal Roots all’indie. Mi pare che la crisi economica stia colpendo un pò tutti, dal gestore del locale, chi ci suona e chi va a vedere i concerti. I soldi che girano sono sempre meno e devi scegliere. Affitto, le bollette, la benzina, la famiglia...devi scegliere come spendere tempo e soldi. E la musica indipendente, quella non delle major, ne risente sicuramente. I musicisti stessi non brillano in quanto a voglia di creare una scena mista ed aiutarsi a vicenda. Spesso è ognuno per se. Peccato. Ci sono eccezioni e sono preziose. Personalmente mi sento onorato di suonare in quel locale e di conoscere questa scena. Sono stato accolto benissimo a Pavia. Sperando in tempi migliori per tutti.


A proposito di palchi, recentemente Chris sei tornato a suonare dal vivo con il tuo vecchio sodale Dan Stuart, vi è la possibilità di rivedervi ancora insieme on stage, e perché no in studio, in un futuro prossimo? 

Chris: Andrei in Tour e farei dischi di nuovo con Dan in un batter d’occhi. Deve solo chiamare e io ci sarò. Mi piacerebbe.


Dal canto tuo, Edward, sei invece reduce, con i Lowlands, da un concerto esaltante allo Spazio Teatro 89 di Milano, immortalato in un cd/dvd di prossima uscita, nel corso del quale avete presentato alcuni brani inediti. Si profila pertanto una, non lontana, pubblicazione anche di un nuovo lavoro in studio? Ci puoi dare qualche anticipazione delle novità in casa Lowlands?

Edward: Proprio oggi pomeriggio sto ascoltando i mix finali del nuovo disco dei Lowlands “Love Etc..” che uscirà ad Ottobre. E’ un disco folk, con fiati e archi...una cosa più swingata che rockeggiante...sperando di non alienare troppe persone. E’ un disco che volevo fare fortemente. La Rise Up di Pavia ce lo ha finanziato e stanno cercando anche di aiutarci con i live. Lo abbiamo inciso nei 5 gg successivi al live unplugged di cui parli (Che dovrebbe uscire in live CD/DVD prima della fine dell’anno sempre prodotto dalla Rise Up). Faremo un concerto elettrico in apertura di Priviero all’Alcatraz di Milano il 26 Ottobre dopo di che porteremo in giro “Love Etc..” in 8/10 date in piccoli teatri da 200 posti. Un tour acustico sulla falsariga dell’unplugged con i pezzi nuovi a supporto.