sabato 28 marzo 2015

The Nels Cline Singers @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo averlo visto seviziare e martoriare la propria chitarra, in ogni modo umanamente (e non) possibile, tra le fila dei Wilco, l'arrivo di Nels Cline in quel di Savona era un evento al quale non si poteva mancare. Se infatti nella formazione guidata da Jeff Tweedy il cinquantanovenne chitarrista losangelino rappresenta, insieme al puro genio ritmico di Glenn Kotche, l'estrema ala avanguardista, è altresì nella propria “avventura” solista che le sue pulsioni sperimentali paiono non aver freno alcuno, come ben evidenziato da una nutrita serie di album, volti ad abbattere le opprimenti barriere stilistiche e di genere, alla ricerca di una utopica free form, linfa vitale anche del progetto a nome The Nels Cline Singers. Ed è proprio con quest'ultimo che il nostro si presenta sul palco del Raindogs, con una formazione, per giunta, a dir poco stellare. Ad accompagnarlo infatti vi è una sezione ritmica da cardiopalma, ovvero Trevor Dunn (Melvins, Fantomas e Mr. Bungle) al basso elettrico e contrabbasso, e Scott Amendola alla batteria ai quali si è aggregato lo stupefacente percussionista brasiliano Cyro Baptista (John Zorn, Trey Anastasio Band). Un quartetto che per coesione e poliedricità suona al pari di un collettivo dall'organico ben più ampio, grazie anche ad un approccio democratico e universalistico alla materia musicale dove non esistono leader, ed ogni singolo contributo strumentale ha eguale importanza all'interno dell'economia sonora generale. Una democraticità che si avverte fin da un primo impatto visivo, con la strumentazione dei quattro posta in linea, ad occupare nella sua totalità il palco, eliminando, in tal modo, lo scomodo ruolo di frontman, quasi a voler disconoscere una ragione sociale non del tutto veritiera già a priori, vista anche la mancanza di un vero e proprio cantante. Sono infatti gli strumenti a far sentire la propria viva e forte “voce” in un caleidoscopico turbinio di suoni, rumori e pattern ritmici, tra improvvise accensioni rockiste, sulfuree aperture free jazz, tribalismi afro rock e calienti ritmi latini. Una bulimica, inarrestabile emorragia sonora che fluisce inesauribile, in un continuo affastellarsi di inebrianti spunti strumentali, univocamente condotti verso una magistrale costruzione del climax, volta ad irretire gli astanti in una trascendente e vertiginosa digressione avanguardista. E' tuttavia il (free) jazz, nella sua più libera, per l'appunto, accezione, la materia prima che i quattro si “divertono” a plasmare a propria immagine e somiglianza, dando vita ad ispirati episodi quali Thurston County, dove la pulizia del fraseggio montgomeryiano, sulla sei corde, di Cline incontra le dronanti rifrazioni moderniste dei loop “gestiti” di Amendola, e il primitivo percuotere del nutrito armamentario percussivo ad uso esclusivo di Baptista. Quest'ultimo è a dir poco impressionante nella sua varietà poliritmica, districandosi tra i più disparati “oggetti”, siano esse canoniche percussioni che bizzarre e personali ideazioni (vedasi a tal proposito il palloncino sgonfiato vicino al microfono o una catena sbattuta con violenza su un povero, inerte timpano, ndr), senza tralasciare la “semplice” pulsione ritmica di un sostenuto handclapping. Trevor Dunn, dal canto suo, si conferma essere bassista di “un altro pianeta” sia quando le sue dita si muovono veloci sul proprio basso elettrico, sia quando, una volta imbracciato il contrabbasso, fa scorrere l'archetto sulle spesse corde di quest'ultimo. E poi ovviamente vi è Cline, uno spettacolo nello spettacolo, banale a dirlo ma è così. Un uomo per il quale la chitarra non è un mero, semplice strumento, ma bensì un'insostituibile appendice del proprio corpo. Ed è annichilente, a tratti, quando dà libero sfogo alle proprie voglie rumoriste, come al contempo capace di creare autentiche oasi di mistica fluttuazione armonica, quali la suite in cui vengono “accoppiate” Respira e Macroscopic, entrambe contenute nell'ultimo lavoro in studio Macroscope, o i lidi pacificati di una The Angel Of Angels dalla psichedelica rarefazione. E se l'ondivaga Forge, nel suo flemmatico, continuo divenire viene squassata nel finale da traumatizzanti esplosioni elettriche, un vero e proprio assalto all'arma bianca caratterizza invece Cause For Concern, valvola ultima di sfogo della furia iconoclasta dei quattro prima di abbandonare il palco, lasciando il pubblico, letteralmente, a bocca aperta. Il quartetto ricompare, tuttavia, poco dopo, con Cline che esordisce con un sornione “Surprise, we're back!”, prima di guidare i propri compagni in un'ultima, spasmodica esecuzione d'assieme sulle funamboliche note di Canales Cabeza, in quello che potrebbe essere, a tutti gli effetti, considerato uno dei migliori esempi del Cline-pensiero, dove pura improvvisazione e calibrato scrivere pentagrammatico vanno a braccetto, conducendoci in inesplorati territori musicali, attraverso un immaginifico sondare sonoro che avremmo voluto non finisse mai.



Steve Wynn @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Tra gli alfieri del Paisley Underground con i seminali Dream Syndicate (con i quali, tra l'altro è tornato, proprio in questo periodo, in studio di registrazione, dopo la fortunata reunion sui palchi di qualche anno fa), e fautore di una carriera solista altrettanto prolifica (sia a proprio nome che in complicità con i Miracle 3), senza contare una nutrita serie di progetti paralleli passati e presenti (da Danny & Dusty in compagnia dell'amico Dan Stuart, al Baseball Project, passando per i Gutterball) Steve Wynn ha vissuto, intensamente, più di trent'anni in musica, spinto da un'inesauribile vena creativa e da una voglia di condivisione mai doma. Un tipo affabile ed alla mano il nostro, forse non del tutto conscio dello status di culto che, giustamente, aleggia intorno alla propria persona. Non vi è spocchia, infatti, nel suo modo di rapportarsi con l'audience che si trova davanti, ma bensì una sentita e partecipe colloquialità, lasciando al contempo ampio spazio alle proprie canzoni. Un songbook in grado, tra l'altro, di allineare un'infinita serie di piccoli capolavori partoriti tanto ai tempi del “Sindacato del sogno” quanto negli anni da solista, ed oggi esplorato con il nuovo, inedito Solo! Electric Tour, emblematico fin dalla nomenclatura, ovvero una lunga serie di appuntamenti live nel corso dei quali avrà come unica compagna di palco la propria sei corde elettrica, che per l'appunto fa bella mostra di sé (insieme ad un'altra “sorella”, ndr) anche questa sera sul piccolo palco del Raindogs. Alle 22:30 un sorridente Wynn si palesa sul palco, in elegante completo grigio e camicia bianca e nera, accolto dagli applausi da un nutrito pubblico di fedeli “discepoli” che lo seguono fin dagli antichi fasti della sua “band madre” e che in più di un'occasione farà sentire, con urla e cori, la propria presenza tanto da divenire alla fine, anch'esso, parte attiva del concerto. Colpito da tanto calore e affetto Wynn non mancherà di ripagare gli astanti riportando alla luce autentiche gemme del proprio songwriting, a cominciare da quelle appartenenti al periodo “sindacale” come l'iniziale Tell Me When It's Over, tramutatasi, per l'occasione, in una scura ballata folk dalle tinte noir, con tanto di armonica younghiana; sciorinando poi, in rapida successione, una caustica My Old Haunts ed una rallentata, seducente When You Smile, fino a veri propri anthem quali Boston e l'inquieta bellezza di una Burn da brividi alla schiena (era sull'immarcescibile Medicine Show), accolte da una vera e propria ovazione collettiva. Medesima accoglienza viene tuttavia riservata al repertorio wynniano post-Sindacato, qui ben rappresentato da ispirati episodi quali le elucubrazioni esistenziali di Sustain (dal suo picco autoriale da solista, Here Comes The Miracle, ndr), le cupe ombrosità di Something To Remember Me By e le implorazioni sentimentali di Love Me Anyway, quest'ultima frutto delle sessioni di registrazioni slovene di Crossing Dragon Bridge (in compagnia di Chris Eckman, ndr). Ben rappresentati sono anche i lavori “condivisi” con i Miracle 3, con le deflagrazioni elettriche di una lacerante California Style e la distorcente furia rockista di Cloud Splitter. E se non manca qualche gustoso “fuori programma”, come l'omaggio a Lou Reed, “uno morto troppo giovane” (parole dello stesso Wynn, ndr), con una commovente Coney Island Baby, si ritorna invece ai “giorni del vino e delle rose” con la tagliente aggressività del brano omonimo, rivisitata attraverso un urticante rifferama diddleyiano, per poi concludere il set con un nuovo omaggio, questa volta a Blind Lemon Jefferson, di una See That My Grave Is Kept Clean, più vicina tuttavia ai putridi bassifondi della New York reediana che al caldo torrido texano. Non fa neanche in tempo a ritornare sul palco il nostro, per i bis, che subito viene accolto da una richiesta (“Merritville! Do you remember it, Steve?!”) prontamente soddisfatta, ed in modo a dir poco eccellente aggiungerei, per poi proseguire con una palpitante Whatever You Please, ed un'ultima gradita sorpresa, la rilettura di Stage Fright della leggendaria Band, quasi a voler esorcizzare, a fine concerto, la paura di salire, da solo su di un palcoscenico. E meno male che il nostro ci aveva presentato, banalmente, la serata come “It's like a folk show but electric”, peccando come sempre, vista anche la vibrante intensità emozionale della performance odierna, fin troppo in modestia, la stessa con la quale, con un sorriso, disegna alla fine del concerto, l'instant alternate cover di Solo! Electric Vol.I, album stampato, proprio per celebrare questo tour, in edizione limitata, e personalizzabile sul momento, in un'estemporanea quanto divertita ultima performance artistica wynniana.







Musée Mécanique - From shores of sleep

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


A sei anni di distanza dal loro notevole debutto, Hold This Ghost, i Musée Mécanique sembrano con il nuovo, e ben più ambizioso, From Shores Of Sleep, voler ulteriormente estendere le già ampie maglie strumentali della propria intrigante proposta sonora. La “creatura” partorita dalle menti dei due songwriters Micah Rabwin e Sean Ogilvie decide infatti di “imbarcarsi” in un immaginifico viaggio per mare, che dalle “sponde del sonno” li porterà a navigare tra l'immensità spumeggiante delle inesplorate acque marine. Ed è proprio l'acqua, con il suo ammaliante sciabordare, ad essere immagine centrale intorno alla quale si sviluppa l'opera in esame. Un continuum musico-narrativo strumentalmente complesso ed articolato, con partiture a tratti di stampo orchestrale, quello approntato dai nostri, ricordante le lunghe suite di progressiva memoria. Barocchismi che si fondono tuttavia con l'arcana purezza melodica del folk, resa in questo frangente ancor più evocativa da enfatiche armonizzazioni vocali, dando vita ad un personale impasto sonoro figlio tanto della ciclicità delle partiture schumanniane che degli echi neo folk dell'odierna Portland, città dalla quale i nostri provengono. Si viene in tal modo lambiti dalle ondulazioni melodiche di brani quali The Open Sea, il cui scheletro armonico si poggia sull'esile, insistito picking di una chitarra acustica, attorniato da un caleidoscopico ventaglio dei più differenti spunti strumentali, tra un soffiare mariachi memore della lezione dei Calexico e le melodie sospese delle Ridge Mountains delle “Volpi di Velluto”; o nel marziale svolgersi di una Cast In The Brine, che pare anch'essa provenire dal sommesso songwriting pecknoldiano. Vena autoriale, quella del duo Rabwin-Ogilvie, che non manca di mostrarsi in tutta la sua maturità espressiva, in magistrali episodi quali una Castle Walls, che non avrebbe sfigurato, con i suoi incroci vocali rimandanti a Crosby, Stills e Nash, ed una dilatata aura armonica in bilico tra musica classica e liquida psichedelia floyidiana, nei dischi a nome Jonathan Wilson; o la cinematica poesia di una paradisiaca Along The Shore, a parere di chi scrive il vertice compositivo dell'intero lavoro. Un album che si chiude sulle quiete note di The Shaker's Cask, magnifica nel suo riuscire ad unire il melanconico afflato cameristico di una piccola sezione di legni ed ottoni, con l'arpeggiare gentile delle corde acustiche e il chiesastico bordone di un organo a canne. L'onirico navigare del quintetto (oltre ai già citati Rabwin e Ogilvie fanno parte della formazione “titolare” anche il batterista Matthew Berger, il “one-man brass section” John Whaley e il polistrumentista Brian Perez, ai quali va a sommarsi una nutrita schiera di ospiti) ha saputo riportare nella natia Portland autentiche, piccole gemme dalla rilucente purezza, scovate in quella che ci auguriamo possa essere solo la prima di molte, future, esplorazioni oceaniche.



The Decemberists @ Magazzini Generali - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)




«We know, we know, we belong to ya. We know you built your lives around us. And would we change? We had to change some. We know, we know we belong to ya. We know you threw your arms around us in the hopes we wouldn't change but we had to change some. You know, to belong to you... », si presenta così Colin Meloy sul palco dei Magazzini Generali, intonando, in solitario, le prime strofe di The Singer Addresses His Audience, traccia d'apertura dell'ultima fatica discografica dei “suoi” Decemberists. Una sorta di lettera aperta ai propri fan; un timido confessare la propria volontà di cambiare, musicalmente e non, pur essendo ben consci delle speranze e delle aspettative riposte in loro dai fan medesimi, ed al contempo quasi scusandosi, ma specificando che, in fondo, «we did it all for you». Un empatico legame quello tra il combo di Portland e l'audience italiana che non solo non sembra essere stato intaccato dai paventati “cambiamenti”, così come da una lontananza dai palchi nostrani durata la bellezza di otto anni, ma anzi, a giudicare dalla folla festante che ha invaso questa sera il club milanese, risulta essere più saldo che mai. D'altronde i nostri, fin dagli esordi, ci hanno abituato alle più folli digressioni soniche, complice anche l'eclettismo di una penna, quella meloyiana, capace di tratteggiare con uguale maestria piccoli acquerelli dalle seppiate tinte Americana e dalle agresti tonalità del folk albionico, così come schizofrenici scarabocchi indie rock e sontuosi barocchismi progressive, in una personalissima cifra stilistica in costante mutamento, ben rappresentata, questa sera, da una set list capace di attingere da tutta la loro, ormai copiosa, discografia. Se la succitata The Singer Addresses His Audience, nel suo incontenibile crescendo strumentale, una volta che sul palco fanno la loro comparsa anche i “compagni d'armi” del barbuto Meloy, è stato incipit pressoché perfetto per catturare l'attenzione della platea, la toccata e fuga nella Athens dei Rem con una spigliata Calamity Song e la giga “riveduta e corretta” d'una irresistibile Rox In The Box, la conquistano definitivamente. E se Colin Meloy, anacronisticamente abbigliato come un personaggio di un libro di Edgar Allan Poe, si dimostra improbabile quanto al contempo carismatico frontman, privo di sbavature è l'apporto strumentale datogli dal resto della band, sia che si tratti del tumultuoso rollio ritmico della batteria di John Moen e del basso/contrabbasso di Nat Query, quanto del pigiare sui tasti dell'organo e della fisarmonica di Jenny Conlee e del versatile picking sulle corde, elettriche ed acustiche, di Chris Funk, senza tuttavia dimenticare il sostegno vocale delle due brave coriste. Una coralità d'esecuzione fondamentale nel ricreare, anche in concerto, le spesso intricate partiture decemberiste, come nella suggestiva triade A Bower Scene, Won't Want For Love e The Rake's Song, estrapolate dall'ambiziosa “opera rock” The Hazards Of Love, in una ipnotica spirale tra magniloquenza prog, riverberi spettrali e l'esasperata, acida lentezza di un rifferama sabbathiano, con Meloy a dirigere (sulle note della medesima The Rake's Song) il pubblico, dividendolo per sezioni, in uno strampalato battimani collettivo, per poi sorridere, divertito, nel constatare come di fatto abbiano applaudito ad una storia sanguinaria e crudele (ovvero quella, narrata nella canzone medesima, di un libertino che si macchia dell'assassinio dei suoi tre figli, ndr). I testi criptici e spesso cruenti sono d'altronde uno dei “marchi di fabbrica” dell'occhialuto songwriter, e del suo raccontare dickensiano, dai grotteschi tratti gotici, dal quando prendono vita atemporali personaggi contorti e deviati. Scrittura che da un'enigmatica astrusità narrativa riesce tuttavia a passare con disinvoltura ad un'adamantina purezza melodica elettroacustica, come testimoniato dalla contagiosa frenesia remmiana di Make You Better, dalla stranita mestizia di Better Not Wake The Baby e da un piccolo gioiello di soavità folk quale The Wrong Year, tutte provenienti dal recente What A Terribile World, What A Beautiful World, per poi raggiungere il proprio apice nella splendida riproposizione di Down By The Water, una delle, molte, perle scaturite dai solchi tradizionalisti di The King Is Dead. Una polverosa patina Americana che avvolge anche la baldanza antimilitarista di 16 Military Wives prima di far ritorno a più ardimentose trame strumentali con il sussultare armonico e gli umorali saliscendi di una dilatata suite comprendente i tre “episodi” di The Crane Wife, per poi concludere il set con l'ascensionale ballata A Beginning Song. Invocati a più riprese, i nostri tornano tuttavia sul palco per deliziarci, un'ultima volta, con l'incanto folk di una June Hymn dalla dylaniana fragilità acustica, e la rissosa storia di vendette tra marinai dell'ubriaco sea chanty The Mariner's Revenge Song, ultimo, ilare siparietto comico in cui uno statuario Chris Funk si improvvisa addirittura modello, aizzando, con il suo sfilare, il pubblico ad urlare “come una balena”, ovvero come il maestoso cetaceo che inghiottirà, infine, l'immaginario galeone decemberista, in un'apoteosi che vedrà tutti i Magazzini Generali sperticarsi in urla ed applausi, ampiamente meritati, per i cinque di Portland. Che altro aggiungere? Beh, per dirla alla decemberista...what A Beautiful Concert!



SET LIST

The Singer Addresses His Audience 
Calamity Song 
Rox In The Box 
Here I Dreamt I Was an Architect
Better Not Wake The Baby 
The Wrong Year 
The Gymnast, High Above Ground
A Bower Scene
Won’t Want for Love (Margaret in the Taiga) 
The Rake’s Song 
Down By The Water
Make You Better
16 Military Wives
The Crane Wife 1, 2 &3
A Beginning Song 

ENCORE 

June Hymn
The Mariner's Revenge Song



                             

sabato 21 marzo 2015

Distance, Light & Sky - Casting Nets

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Se si dovesse ricercare, in ambito musicale, un moderno epigono del mitologico Re Mida, la scelta, perlomeno per chi scrive, ricadrebbe senza remora alcuna su Chris Eckman. Dal suo scranno in quel di Lubiana, il nostro sembra infatti, e con disarmante naturalezza, riuscire a tramutare in oro qualsiasi produzione sonora nella quale, direttamente o indirettamente, è coinvolto. Basterebbe portare ad esempio, tralasciando volutamente la straordinaria epopea a nome Walkabouts, i suoi più recenti parti artistici, siano essi pubblicati sotto una ragione sociale condivisa (vedasi a tal proposito il progetto multi-etnico Dirtmusic, ndr) che a proprio nome (lo splendido Harney County dello scorso anno), senza dimenticare l'altrettanto prezioso lavoro, in cabina di regia, svolto dal nostro in più di una produzione pubblicata sotto il marchio Glitterhouse e Glitterbeat (etichette tra l'altro facenti capo ad egli stesso, ndr). Non esula da tale bontà creativa e qualitativa anche il nuovo collettivo progetto a nome Distance, Light & Sky, in compartecipazione con la songwriter anglo-olandese Chantal Acda (con anch'essa all'attivo due notevoli lavori a proprio nome, ndr) e il percussionista Eric Thielemans (membro del collettivo EARR, oltre che già partner ritmico della Acda medesima, ndr). Un lavoro di scrittura a tre, quello alla base di Casting Nets, loro prima opera d'assieme, attraverso il quale personalità musicali sulla carta profondamente diverse, tanto per passate esperienze, quanto per background, si combinano tra loro, dando vita ad una corale unione d'intenti, in cui l'umbratile songwriting di Eckman si sposa, idealmente, al più etereo tratto della penna della Acda, con la baritonale, scura voce del primo a duettare con il flebile, seducente fascino della vocalità della seconda. Un suggestivo inseguirsi e incontrarsi di fonemi su di un dimesso fondale sonoro intessuto dal risuonare delle corde, acustiche ed elettriche, delle chitarre, dal picchiettare sui tasti bianchi e neri di un pianoforte e da ben centellinati artifici percussivi, il tutto sotto l'attenta supervisione di Phill Brown (già dietro ai cursori per l'immarcescibile Spirit Of Eden dei Talk Talk, giusto per citarne uno). Un flusso sonoro dalla vibrante scarnificazione elettroacustica, in un parco gioco d'incastri vocale e strumentale, quindi, come si evince sin dall'iniziale Son, ballata dalla drammatica fragilità, o nel crepuscolare incanto della title track, figlia illegittima della desolazione desertica del succitato Harney County. E se il tratto peculiare dell'intero lavoro rimane il congiungersi tra le due voci, anche quando queste ultime guadagnano solitariamente il “proscenio”, regalano momenti di notevole impatto emozionale, come nella deliziosa catarsi folk di This Place, affidata in toto all'incantevole voce della Acda o nell'oscurità straziante di una drammatica Western Avenue, complice il magnetico talking eckmaniano, per poi tornare a sublimarsi, in un nuovo fondersi vocale, nella purezza lirica di Still On The Loose. È da assaporare lentamente Casting Nets, gustandolo nota dopo nota, parola dopo parola, lasciandosi catturare dalle “reti soniche” abilmente gettate da tre musicisti i cui singoli potenziali uniti in un inedito, comune sentire hanno saputo dar vita ad un lavoro d'indubbio spessore.






The New Students - When The West Wind Blows

(Pubblicato su Rootshighway)


Secondo esame per le "matricole" di stanza a Brooklyn, con "un piede nel Ventunesimo Secolo, ed un altro poggiato saldamente nella musica tradizionale americana d'ascendenza bianca", come loro stessi si definiscono. Tradizione folk che ritroviamo, oggi, anche in When The West Wind Blows. Complici un songwriting a "quattro mani", ovvero quelle dei polistrumentisti Justin Flagg e Matthew Gelfer, e una strumentazione prevalentemente acustica, sebbene rinvigorita da una canonica sezione ritmica; debitrici entrambi nei confronti della lezione impartita proprio dalla suddetta. Una caleidoscopica, fluida progressione di note quindi, capace di dar vita a puntati, spediti bluegrass quali l'opener Bar Room Blues e Bushman's Holiday, come a malinconici country tune (una nelsoniana Pictures), passando per evanescenti momenti di morbidezza acustica, quali la rarefatta The West Wind o una Joanna dalla pastorale confessionalità folk. Tratto peculiare dei nostri è, tuttavia, l'intrecciarsi armonico delle voci, come si può evincere nella cangiante solarità calypso di Lovely Day, nell'afflato cameristico di Winter, con la presenza, aggiuntiva, di una piccola sezione d'archi, o nella conclusiva, palpitante coralità di Calvary Hill. Un album senza dubbio gradevole, al contempo contraddistinto da alcuni buoni spunti autoriali, anche se la strada per "laurearsi" presso l'antica e prestigiosa "University of American Folk Music", è, per le nostre "matricole", ancora lunga.




Police Dog Hogan - Westward Ho!

(Pubblicato su Rootshighway)


"A british way to Americana", ecco descritto, in poche ma esaustive parole, il modus operandi degli inglesi Police Dog Hogan, "dopolavoristi" di lusso (il banjoista Tim Dowling, per esempio, è apprezzato columnist del Guardian), giunti, con l'odierno Westward Ho!, prodotto dal bassista della Oysterband, Al Scott, alla loro terza prova sulla lunga distanza. La nutrita compagine londinese, guidata dal cantante e chitarrista James Studholme, non ha mai nascosto, fin dai suoi esordi, una profonda infatuazione per sonorità d'ascendenza Americana, seppur rivedute e corrette, all'ombra amica della Union Jack, in una personale formula, suggestivamente denominata urban bluegrass, equamente composta da rustica sgangheratezza country, sprazzi melodici figli del folk albionico, ed incontenibile furoreggiare irish. Ne sono esempi lampanti tanto le frenetiche West Country Boy e From The Land Of Miracles, ovvero i Pogues a spasso tra gli Appalachi, quanto l'istrionico ciondolare country di un'irresistibile One Size Fits All. Non mancano tuttavia episodi di maggior raccoglimento, vedasi a tal proposito una dimessa Buffalo, o l'acustico pizzicare grassy delle corde in Ethan Frome, mentre l'atipica Home, in compartecipazione con i Platform 7, band formata da ex carcerati, bizzarro quanto intrigante folk-rap, rimane tra gli episodi più riusciti di un lavoro tanto genuino quanto convincente.



Veronica and the Red Wine Serenaders - The Mexican Dress

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«Old stories for modern times», recava ben stampigliato in copertina la precedente release, di coppia, firmata Veronica Sbergia e Max De Bernardi, quasi a voler descrivere, fin dal titolo ed in modo più che esaustivo, quanto contenuto tra i propri solchi. Storie antiche, per l'appunto, tra tribolazioni, sofferenze, patemi amorosi e disastri naturali, economici e sociali, dalle origini incerte, perse tra i meandri più oscuri del tempo. Storie tramandate oralmente fino ai giorni nostri, di generazione in generazione, spesso con l'accompagnamento di uno scalcinato strumento a corde o di una vetusta quanto improbabile percussione, e figlie dirette della cultura afroamericana. Un patrimonio culturale al quale Veronica Sbergia e i suoi Red Wine Serenaders si sono sempre accostati con profondo rispetto, sin dal loro omonimo esordio, passando per il “collettivista” D.O.C., fino all'opera a due poc'anzi citata, facendo propri vecchi tradizionali, d'ascendenza nera e bianca, mostrando non solo una notevole conoscenza di una materia sonora “straniera”, quanto al contempo ragguardevoli abilità tecniche ed interpretative. Un percorso non scevro di riconoscimenti e soddisfazioni, tanto che i nostri hanno più volte attraversato, con i propri strumenti al seguito, l'Oceano, quasi a voler “riportare a casa” una musica indissolubilmente legata al territorio statunitense. Un legame, quello con il suolo americano, oggi ancor più saldo, visto che la loro ultima fatica discografica ha visto la luce, in parte proprio aldilà del medesimo Oceano Atlantico. Frutto di una proficua raccolta fonti, tramite Musicraiser, The Mexican Dress è stato infatti posto su nastro in quel di Seattle, per poi essere completato presso i nostrani studi SuonoVivo. Risultato di queste registrazioni “transatlantiche” è uno dei lavori più maturi e riusciti tra quelli pubblicati fino ad oggi dai nostri, in un nuovo, atemporale viaggio in musica tra ragtime, folk, pre-war blues, early jazz, spiritual e inedite reminiscenze irish, nell'America di inizio Novecento. Se Veronica Sbergia si conferma, una volta di più, quale frontwoman dalla comprovata, ammaliante bravura, non da meno sono i suoi due “compagni” ovvero Max De Bernardi (suo compagno, per davvero, nella vita), alle corde più diverse e Dario Polerani al contrabbasso, pressoché fondamentali nel costruire arcaiche trame acustiche, alle quali contribuiscono, in aggiunta, gli apporti strumentali di alcuni, selezionati, ospiti, tra i quali spicca, per peso specifico, Denny Hall. E se abbiamo già decantato le lodi delle abilità interpretative dell'italico trio, in The Mexican Dress, trovano sfogo, per la prima volta, anche inediti sbocchi autoriali, concretizzatisi in alcuni, riusciti, episodi autografi, quali la title track, delizioso, movimentato swing, ideale per “scacciare i blues danzando”, o la strascicata folk ballad Crying Time, con la seducente voce della Sbergia a conquistare anima e cuore degli ascoltatori. De Bernardi, uno dei pochi “pizzicatori” di corde nostrani per il quale l'appellativo di virtuoso è quantomai calzante, dal canto suo pone la propria firma sul solitario strumentale The Resurrection Of The Honey Badger, con il bottleneck, nel suo metallico scivolare, ad omaggiare il leggendario Blind Blake, quanto a ricordare il più ispirato, e tradizionalista, Ryland Cooder. Omaggio, quello a figure mai dimenticate dell'epopea musicale afroamericana, che coinvolge anche Victoria Spivey, della quale viene ripresa Dope Head Blues, supplichevole blues datato 1927, e Bo Carter, in una Banana In Your Fruitbasket affidata alla ruvida voce di De Bernardi, passando per la riproposizione, in una versione a dir poco corale, del tradizionale Paul And Silas, il cui arrangiamento chitarristico, di stampo ragtime, vuole invece celebrare l'opera del mai dimenticato “Reverendo” Gary Davis. Degni di menzione sono anche i brani portati in dote dalla penna del summenzionato Hall, in particolare la splendida Curse The Day, dove si respira l'aria della verde Irlanda, complice anche il mantico comprimersi di una uillean pipes, ad aprire nuovi sentieri verso, prima mai battuti, territori sonori, e sicuramente, visti i risultati qui ottenuti, da esplorare nuovamente in futuro. Chiude l'album una ghost track d'eccezione, Baby Please Loan Me Your Heart, sconosciuto brano del banjoista Papa Charlie Jackson, nel quale De Bernardi imbraccia, sulle orme di quest'ultimo, un banjo a sei corde, duettando magistralmente con il clarinetto di Joel Teep. Un “vestito messicano” quello intessuto, con cura, da musicisti sì nostrani ma dalla caratura internazionale, le cui tonalità d'antan non solo non temono l'inesorabile trascorrere del tempo, ma altresì, grazie al loro cangiante patchwork cromatico-musicale paiono essere adatte per tutte le stagioni, presenti e future.