mercoledì 30 ottobre 2013

Intervista a Omid Jazi

(Pubblicata su Extra! Music Magazine)

Protagonista con Onde Alfa, ideale seguito dell’EP Lenea, di uno dei più interessanti esordi discografici
dell’anno in corso, Omid Jazi ha fatto dell’ecletticità la propria cifra stilistica, con la quale abbattere stretti confini di genere, fino a creare un “piccolo mondo immaginario”, dalla caleidoscopica bellezza sonica, dove pop d’autore, sperimentalismo elettronico e spettri psichedelici, paiono convivere in armonia.

Onde Alfa riprende, e amplifica, quanto di buono già traspariva da l’EP Lenea, ma a colpire è senza dubbio il modo in cui è stato concepito. Puoi spiegarci la genesi dell’album?

Mi sono chiuso in studio e mi sono quasi ammalato, era come vivere in una psicosi, tutto fluiva, non so come abbia fatto a rimanere da solo per più di 14 ore al giorno in studio, al buio di una luce al neon blu, per mesi. Ricordo che nonostante questo, provassi gioia.

Nella tua musica paiono confluire due anime soniche ben distinte, una di matrice pop, a tratti quasi cantautorale, dalla pregevole ricerca melodica, ed un’altra sintetica, aperta alla sperimentazione, che fa propri i dettami d’una estetica prettamente elettronica. E’ stato difficile far convivere entrambe all’interno del medesimo processo compositivo? 

No, non è stato difficile, faccio sempre in modo di essere spontaneo. E' lo stesso processo dell'essere spontanei a dover nascere spontaneamente. In quel caso non ci si potrebbe più spendere mezza parola purtroppo. Mentre ora, qualcosa è stato detto.

Se da un punto di vista musicale Onde Alfa possiede un respiro internazionale, a livello lirico è invece l’idioma italiano ad essere protagonista. Come mai questa scelta linguistica? 

Non mi ritengo un esperto in lingua italiana e nemmeno un cantautore. La lingua italiana mi è stata utile come mezzo per giungere ai meccanismi psichici che sottintendono gli stati d'animo. Quando ci chiediamo in che lingua pensi il Papa, non stiamo cercando di capire quale lingua prediliga, siamo più probabilmente affascinati dal meccanismo dualista che percepiamo esistere. La lingua italiana in Onde Alfa è come un pennello per il pittore, il centro focale sono invece i colori, ovvero le emozioni, i suoni. Il mio rispetto per la lingua italiana si manifesta in campi ove non ho di certo la pretesa di essere un esperto, lascio le relazione tra significanti e i significati ai moderni corpi sociali e che ne facciano pure una questione etnica, in ogni caso sarebbe un passo avanti. Non ho mai detto di essere un postino anche se in passato ho fatto il postino.

Come verranno riproposti i brani dell’album dal vivo? Che tipo di live act si troveranno di fronte coloro che verranno ad ascoltarti? 

Questo dipende da molti fattori, per poter rispondere ad una domanda del genere in maniera seria e responsabile dovrei pensare ad una frase diplomatica. Ora ho un progetto preciso in mente. Posso dire che giorno per giorno potrei darti una risposta differente.

Oltre ad essere un valido multi strumentista/compositore, sei anche produttore, ed hai avviato una tua etichetta discografica, l’Hot Studio; di queste due dimensioni artistiche, quale oggi senti maggiormente tua? E in che modo approcci, a livello di produzione, il lavoro di altri gruppi o artisti? 

Quando lavoro su qualche piccola produzione in studio è come se agissi su un mio progetto, lavorare su ogni gruppo equivale a sperimentare ed evolversi, diversamente non avrebbe senso. Creare connessioni tra i musicisti e gli addetti al settore è un passo per poter raccogliere metadati da traslitterare tramite Hot Studio. A volte alcune band passano di qua e nascono interessanti collaborazioni, questa è una cosa bella. Si fonda tutto sul lavoro, quello che dovrebbe essere importante, rimane importante. Questa piccola attività è in fase di crescita e vi invito ora a farne parte come tessuto cibernetico connettivo. Ora è appena uscito l'album di una band che ho prodotto, si chiamano The Ashman e vi invito ad ascoltarli. A breve uscirà il lavoro di un cantautore di Torino a cui ho prodotto il disco, vi invito ad ascoltare anche lui, si chiama Johnny Fishborn.

Hai collaborato, e continui a farlo, con musicisti delle più diverse estrazioni, con quali hai raggiunto una maggior empatia a livello umano e sonoro? 

Per ora con tutti coloro che si sono trovati bene a lavorare con me, il mio macbook e con i miei animali immaginari.

Un animo musicalmente multiforme come il tuo è stato sicuramente forgiato da ascolti passati e presenti. Quali artisti e/o album hanno avuto un ruolo fondamentale nella tua crescita umana nonché artistica? 

Musica popolare persiana come Shajarian a a cui devo molto, la classica di Brahms, Strauss, forse la dark-wave di fine '70 come i Television, i Suicide, i Joy, i Cocteau per l'approccio e alle volte, l'elettronica quando mi sento solo, ad esempio il nuovo album di Trentemøller l'ho appena ascoltato. Ultimamente ricerco musica popolare e religiosa indiana.

Hai origini mediorientali e il tuo stesso nome in persiano significa “speranza”; che speranze ci sono oggi per un giovane, e per di più musicista, in Italia?

Bisogna lavorare con la testa, con le mani e il cuore senza preoccuparsi di ciò che porta o non porta essere giovani o essere musicisti in Italia.

mercoledì 23 ottobre 2013

Federico Cimini - L'importanza di chiamarsi Michele

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Coraggiosa, questo il primo pensiero una volta terminato l’ascolto di L’Importanza di Chiamarsi Michele,
opera prima di Federico Cimini, calabrese d’origine ma da tempo trasferitosi in quel di Bologna. E coraggioso lo è senz’altro un cantautore che, al proprio esordio, decida di cimentarsi in un’impresa compositiva, di non facile attuazione, come quella di un concept album. Una storia, raccontata sotto forma di canzoni, che mette in luce le bellezze, poche, e le brutture, purtroppo parecchie, dell’Italia odierna, dove i più disparati personaggi tentano ogni giorno di (sopra)vivere. Una storia che trae la propria linfa vitale dalla vicenda, reale, di Michele, uomo profondamente deluso dal proprio Paese, tanto da decidere di abbandonare tutto per tentare la fortuna in terra straniera. E proprio al di fuori dei confini nazionali che avviene l’incontro tra quest’ultimo e lo stesso Cimini, che matura l’idea di metterne in musica le tristi peripezie, trasformandolo in un protagonista con il quale, a prescindere dalla provenienza geografica, ognuno di noi può identificarsi. Un viaggio fisico-musicale che si snoda attraverso tredici episodi sonori, o per meglio dire tappe, con un prologo ed un epilogo a sancire una volta di più l’aspetto narrativo dell’opera. Narrazione che dà modo a Cimini di manifestare il proprio estro compositivo, facendolo confluire in un’intrigante patchwork sonoro che, dal folk mediterraneo, con forti rimandi alla propria terra natia, ingloba tanto sonorità prettamente rock, alle quali si aggiungono i solari ritmi in levare dello ska, fino ad una sempre ben presente vena cantautorale che avvicina il nostro tanto all’opera del Cristicchi socialmente impegnato quanto alla scanzonata ironia del proprio conterraneo Rino Gaetano. L’incipit è tuttavia affidato ad una successione di suoni e parole che vanno ad intrecciarsi tra loro, per poi citare le prime due strofe di Promemoria, poesia contro la guerra a firma Gianni Rodari, e punto iniziale di una circolarità narrativa che si svelerà solo alla conclusione dell’opera stessa. E se il trittico di composizioni ad esso seguente svolge la funzione di vero e proprio prologo, mostrando al contempo la varietà di stili e influenze del songwriting ciminiano, è con l’orgia fiatistica di La Rivoluzione in Pigiama che nel protagonista della vicenda, Michele appunto, nasce l’insofferenza nei confronti di un Paese “governato” dai media e da un regime che sbeffeggiano dall’alto la gente “comune”, con quest’ultima incapace di reagire se non con tanto sbandierate quanto inutili rivoluzioni da social network. Un’insofferenza che porterà Michele a trasferirsi all’estero, dove tuttavia ben presto scoprirà come il malcostume italiano sia un male comune, tra l’ipocrisia snobistica ed elitaria di La Gente Che Conta e la voglia di apparire a tutti i costi espressa, su d’un robusto impianto rock di matrice acustica, in Non Essere Nessuno. Da qui la decisione, sulle note di una Lì Con Me che trasuda gli umori musicali del tacco del nostro Stivale, di fare ritorno al natio suolo, per cercare di “combattere” in prima persona per un futuro migliore. La storia tuttavia ha un finale inaspettato, opportunamente denominato Epilogo, dove si manifesta la circolarità narrativa precedentemente menzionata, con gli orribili spettri della guerra che tornano a far tristemente capolino. La conclusiva Ti Amo Terrone è dal canto suo una sorta di elegiaca dedica al personaggio appunto del “terrone”, qui incarnato dallo stesso Michele; una figura troppo spesso stereotipata, capace tuttavia di rappresentare, a seconda della prospettiva, ognuno di noi, perché in fondo quello che accomuna gli italiani è forse proprio l’essere “terroni”. Una penna quella di Federico Cimini che denota un’arguzia ed un’ironia, davvero rare in un giovane esordiente, quest’ultime veicolate con freschezza grazie ad arrangiamenti di ben ponderata vitalità sonica, il tutto in un’opera prima tanto coraggiosa quanto alfine riuscita.

domenica 20 ottobre 2013

Laura Veirs - Warp and weft

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

La maternità sembra davvero aver giovato, anche artisticamente, a Laura Veirs; se al primogenito era, idealmente, dedicato il precedente Tumble Bee, scintillante divertissement contenente brani d’ascendenza folk, destinati ad un pubblico infantile, oggi con la nascita del suo secondo pargolo, vede, infatti, la luce anche il nuovo album della songwriter di Portland. Figlio della sua recente produzione, Warp And Weft può essere visto come il naturale prosieguo del discorso sonoro imbastito tre anni fa con l’ottimo July Flame. Abbandonando in parte la componente freak che ne aveva contraddistinto gli esordi, la Veirs ha trovato oggi la quadratura del proprio cerchio musicale in un alternative folk più “adulto”, dai toni e tratti gentili, lievemente screziato da piccoli squarci elettrici e minimali digressioni sperimentali. Una maturazione sonica mossasi parallelamente a quella come donna e madre, come si evince da un’analisi delle liriche odierne, intrise delle paure e delle ansie, così come della gioia e della speranza, che la nascita di una nuova vita reca con sé. Con il consorte Tucker Martine ormai presenza fissa, tanto al bancone di regia quanto dietro i più disparati strumenti percussivi, Warp And Weft vede, come il precedente Tumble Bee, l’alternarsi di un piccolo manipolo di “vecchi amici”. Tra quest’ultimi spicca senza dubbio la presenza di Neko Case, a tinteggiare ulteriormente di tonalità pastello una radiosa Sun Song, costruita su di un abbacinante impianto elettroacustico, ad opera di banjo, pedal steel ed una piccola sezione d’archi, con il pizzicare gentile delle corde di nylon, della chitarra della stessa Veirs, a far da contraltare al superbo intrecciarsi della sua voce con l’evanescenza di quella della Case. Maggior spazio all’elettricità viene invece concesso tanto nel solenne crescendo armonico di America, dura disamina sulle contraddizioni dell’odierna società americana, quanto in That Alice, sentita dedica all’amata figura di Alice Coltrane che, per il marcato incedere, ricorda tuttavia i brani di maggior irruenza rock della recente produzione, in combutta con la sei corde “remmiana” di Peter Buck, dei propri concittadini Decemberists. Fioriscono in una tranquilla oasi acustica, piccoli, tenui, boccioli come l’acquerello, d’ondulante leggiadria, Shape Shifter, o l’omaggio all’artista Howard Finster di Finster Saw The Angels, per sole chitarra, fisarmonica e pedal steel, con kd Lang alle backing vocals. E se i brevi intermezzi strumentali, Ghosts Of Louisville e Ikaria, paiono i frutti d’uno sperimentale raccolto sonico, in Sadako Folding Cranes, scritta in memoria di Sadako Sasaki (bambina giapponese sopravvissuta al disastro nucleare di Hiroshima, ma morta di leucemia dieci anni dopo a causa delle radiazioni) e dei suoi origami per la pace, riecheggiano fluttuanti melodie orientali, ulteriormente enfatizzate, nella coralità finale, dalla trascendente vocalità di Jim James. La carezzevole Ten Bridges sembra invece librarsi leggiadra sulle ali d’una farfalla dalle iridescenze folkie, verso gli inesplorati cieli musicali della conclusiva, sontuosa, White Cherry, che fa propri gli stilemi del jazz modale, rileggendoli attraverso l’ottica modernista veirsiana, in un dissonante, quanto al contempo armonioso, connubio tra soffiare coltraniano, morbidi tappeti pianistici e suggestioni cameristiche, il tutto su di un flessuoso lievitare percussivo. A rifulgere di luce propria, sono tuttavia tanto la perizia compositiva dell’occhialuta musicista di Portland, mai forse così ispirata come oggi, quanto la sua stessa voce che, con la consueta flebile malia, sa insinuarsi lenta, sotto pelle, per giungere infine a lambire gli anfratti più reconditi dell’anima. Un’artista da amare incondizionatamente Laura Veirs, con la certezza che difficilmente spezzerà il nostro cuore musicale, ma lo saprà altresì riscaldare con il rilucente splendore di piccole gemme come, appunto, Warp And Weft.

venerdì 18 ottobre 2013

Tony Joe White - Hoodoo

(Pubblicato su Rootshighway)

Ritiratosi in una tranquilla tenuta nelle vicinanze di Nashville, tra coyote, lupi ed uccelli, Tony Joe White sembra tuttavia non aver perso il piacere di imbracciare la propria sei corde, complice anche un'ispirazione che, stando alle sue stesse parole, "torna spesso a trovarlo". Un processo creativo libero da ogni costrizione di sorta, nell'attesa che siano, appunto, le idee a palesarsi, magari nei pressi di un fiume, o la sera sul portico di casa. Una rilassatezza compositiva che ha contraddistinto d'altronde gran parte dell'operato discografico del chitarrista di Oak Grove, nonché il proprio modo di suonare, quel flemmatico swamp funk diventatone la, più che riconoscibile, cifra stilistica. E lungo la medesima direttrice vengono oggi incisi i solchi di Hoodoo, con una copertina, raffigurante il nostro davanti ad un rustico front porch, a rimarcarne l'odierna, bucolica, quotidianità, ed un titolo, a rievocare, dal canto suo, il magico tribalismo della propria, e mai dimentica, terra d'origine, la Louisiana. Registrato in una vecchia casa in legno, adibita durante la Guerra Civile a studio medico, secondo la filosofia del "buona la prima", Hoodoo trova proprio nell'immediatezza priva di fronzoli, quanto nel libero fluire creativo, le sue peculiarità, impresse su nastro in nove, ruvide, composizioni. Brani spesso dilatati in durata, dove a risaltare è, ovviamente, la sei corde del titolare, tra classico, melmoso, languore ed una più marcata, e distorta, visceralità, ben sostenuta da una monolitica sezione ritmica, e alla quale fanno altresì da contraltare il fluido spandere dell'organo e il grasso soffiare d'una armonica; come nell'opener The Gift, richiamante, liricamente, il crocicchio di johnsoniana memoria, con la voce di White, resa ancor più profonda e scura dalle ormai settanta primavere trascorse, quale ideale narratrice. Le ferite aperte dai trascorsi cataclismi naturali hanno, invece, influenzato la genesi tanto dell'ondivaga tetraggine di The Flood, a ricordare l'inesorabile, e distruttivo, fluire del fiume in piena, quanto di Storm Comin', tra nervosi fuzz e lampi di pura distorsione, in un'ideale rappresentazione degli elettrici bagliori d'un imminente uragano. E se Alligator, Mississippi presenta un'amena località nella quale è, perlomeno, sconsigliato soggiornare, in Who You Gonna Hoodoo Now?, la paludosità swampy del nostro incontra invece l'ipnotico reiterare dell'hill country blues marchiato Junior Kimbrough. Di derivazione hookeriana è l'autobiografica 9 Foot Sack, con White a sciorinare i ricordi della propria infanzia su di un solido boogie, mentre il rarefatto livore di Gypsy Epilogue viene ulteriormente enfatizzato dagli intarsi melodici dell'organo e di un, inaspettato, violoncello. Un album pregno tanto d'elettrica spigolosità, quanto denso, oscuro, d'una lentezza a tratti esasperante, ma capace, tuttavia, di crescere, ascolto dopo ascolto, mostrandosi infine in tutta la propria avviluppante fascinazione.

giovedì 17 ottobre 2013

Malacoda & Michel - Al di là della notte

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L’oscurità della notte come culla sonica nella quale far crescere un’esplorazione lirico-musicale, che dal cantautorato nostrano arriva a lambire sonorità moderniste, in bilico tra rock, rumorismo elettronico e vero e proprio field recording, il tutto condensato in un amalgama sonoro intrinsecamente legato a quelle atmosfere notturne alla base dello stesso processo compositivo. Una musica per l’ora tarda, ideale compagna di cammino di un’umanità, alla ricerca del proprio riscatto, tra bar vuoti e strade deserte, sotto l’implacabile sferzare della gelida pioggia autunnale. Un viaggio di “redenzione” che si snoda su di uno scuro tappeto sonoro intessuto da Michel Rigati e Francesco “Malacoda” Grassiccia, titolari del progetto nonché coautori delle otto tracce qui presenti, i quali si dividono democraticamente tra chitarra, pianoforte e microfono. Vedono la luce in tal modo composizioni di tetra fascinazione, quali La Baia, che fonda la propria bellezza armonica su di un gentile arpeggio di chitarra acustica, punteggiato dal lieve battere dei tasti del pianoforte e dal flauto pastorale di Sara Ceccarelli, fino a stemperare il tutto nel finale con il solo rumore della risacca marina. Del medesimo tenore sono la pianistica sofferenza di Cronaca Nera, appena venata da mai invasivi inserti elettronici, così come l’ariosità di Il Cappello, sintomatica di come il cantautorato di stampo “tradizionale” rimanga pur sempre il punto di partenza per le digressioni avanguardiste del duo toscano. Queste ultime si manifestano in particolar modo nella tetra title track, tra ossessivi riff chitarristici e i neri intarsi melodici del pianoforte. Maggior attenzione all’aspetto ritmico viene invece rivolta tanto nell’opener Nadir, quanto nella conclusiva L’Incantatore Di Serpenti, dove variegati inserti percussivi arricchiscono di reminescenze orientali una quasi opprimente causticità elettrica. Un esordio che denota una buona capacità di scrittura ed arrangiamento, complice anche un filo narrativo sempre ben presente, in queste otto piccole storie di crepuscolare speranza, perché d’altronde al di là della notte vi è sempre un nuovo giorno.

giovedì 10 ottobre 2013

Ry Cooder and Corridos Famosos - Live in San Francisco

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se la ritrovata vena compositiva di Ry Cooder ha permesso, nell’arco dei soli ultimi due anni, di poter assaporare una “doppietta” di lavori in studio quali l’ottimo Pull Up Some Dust And Sit Down e l’altrettanto ispirato Election Special, ‘manifesto politico-sonoro’ pubblicato in concomitanza con le elezioni presidenziali americane, il nostro è sempre stato, al contrario, avaro nel rilasciare testimonianze della propria attività concertistica. Un solo documento dal vivo fa infatti capolino tra le fitte maglie di una discografia egualmente divisa tra album a proprio nome, colonne sonore e collaborazioni tra le più disparate. Registrato il 14 e 15 dicembre 1976, presso la Great American Music Hall di San Francisco, ed emblematicamente denominato Showtime, rimane tuttora fulgida testimonianza tanto della perizia sulle sei corde del chitarrista di Santa Monica, quanto fedele fotografia di un itinerario sviluppatosi sulle più differenti strade sonore, sì indissolubilmente legato alla tradizione musicale del proprio paese, tanto bianca quanto nera, ma con un orecchio rivolto in più d’un occasione oltre il confine, verso quel Messico dai caldi colori musicali, per spingersi infine tanto verso la solarità della musica hawaiiana, quanto attraverso l’Oceano, alla ricerca dell’ancestrale e poliritmico percuotere africano; il tutto grazie ad una mai sopita curiosità etnomusicologica, elemento peculiare della stessa estetica cooderiana. Una contaminazione tra le più differenti culture che ha dato vita, fin dal proprio esordio discografico, ad un amalgama sonoro diventato un vero e proprio trademark del nostro, permeante lo stesso Showtime, in uno strabiliante connubio in musica tra Stati Uniti e Messico.Ed oggi, ben 37 anni dopo, viene finalmente dato alle stampe quello che, a tutti gli effetti, può esserne definito la naturale prosecuzione; non solo perché Ry Cooder ha optato per un ritorno sul “luogo del delitto”, la Great American Music Hall, chiamando per l’occasione a raccolta anche due vecchi “pards”, Flaco Jimenez e Terry Evans, già con lui sul quel palco 37 anni prima, quanto per la riproposizione di alcuni dei brani che costituivano l’ossatura live di allora, e che oggi paiono assurgere a nuova vita. Incurante delle 66 “primavere” trascorse il nostro dimostra anzi come il proprio delizioso tocco, sulle corde dell’amata chitarra elettrica, non abbia perso l’espressività e la potenza evocativa di un tempo, incantando letteralmente ad ogni singolo accordo o fraseggio. A colpire è nondimeno l’istrionismo di Cooder, tanto nelle sue, talvolta esilaranti, presentazioni dei singoli brani, quanto nell’interagire sia con la platea che con i membri della propria band. Quest’ultima, viste le dimensioni, è in realtà un vero e proprio collettivo, capace di assecondare il proprio “capo banda” in maniera egregia, ed annoverante tra le proprie fila, oltre ai già citati Jimenez e Evans, le voci di Arnold McCuller e Juliette Commagere, affiancati dalla solida sezione ritmica affidata al basso di Robert Francis e alla batteria di Joachim Cooder, alla quale si aggiungono i variopinti contributi armonici e percussivi del combo messicano noto come La Banda Juvenil. Una nutrita schiera di musicisti quindi, presenti già sul recente album in studio, Pull Up Some Dust And Sit Down, tanto che non sorprende ritrovare, inclusi nella scaletta, due brani estrapolati proprio da quest’ultimo. L’incipit del concerto è tuttavia un tuffo negli anni Ottanta, tra i solchi di quel Borderline dal quale il nostro recupera una Crazy ‘Bout An Automobile d’irrefrenabile vitalità, complice un vibrante riff chitarristico e l’apporto tanto delle idilliache voci di Evans e McCuller, quanto degli interventi fiatistici della Banda, ad impregnare il tutto d’umori soul, altresì acuiti in una Why Don’t You Try Me d’energica spavalderia rhythm and blues. E se il primo tuffo al cuore si avverte con una Boomer’s Story che si dischiude lentamente in tutta la propria elegiaca bellezza, per sublimarsi in un finale a cappella da mozzare il fiato, l’ironia beffarda di Lord Tell Me Why, sorta di gospel funk modernista nonché prima concessione alla produzione recente, mostra come la “penna cooderiana” equivalga in peso specifico la propria abilità d’arrangiatore ed interprete.Sfido poi a trattenere una lacrima di commozione quando il nostro presenta lo storico compagno di avventure, Flaco Jimenez, il cui accordion ci accompagna, sulle note di Viva Seguin, al di là del confine messicano, per poi tornare a guardare a quella “paradisiaca meta” chiamata California, in un medley con la guthriana Do Re Mi, già presente su Showtime, a rimarcare il profondo legame con il folksinger di Okemah. Se una sfavillante e gioiosa School Is Out, così come una Wolly Bully al limite dell’orgiastico, ripescata dal songbook di Domingo Zamudio aka Sam the Sham, alzano il tasso ritmico della serata, le “corde emozionali” degli astanti vengono scalfite da una The Dark End Of The Street d’inusitato splendore, con le voci di Evans e McCuller ad inseguirsi in pindarici vocalizzi, per infine unirsi in eccelse armonizzazioni, arricchite ulteriormente dai sontuosi interventi solistici della chitarra e dell’accordion. Strumento quest’ultimo protagonista anche in El Corrido De Jesse James, ispirato alla leggendaria figura dell’outlaw, con i fiati mariachi della Banda a soffiare con forza, prima di abbandonarsi allo struggimento “ranchero” di Volver Volver, affidata alla suadente voce di Juliette Commagere. Una nervosa Vigilante Man è un ulteriore omaggio a Woody Guthrie e alla, purtroppo drammatica, attualità della sua opera, con un Cooder quasi posseduto alla chitarra, prima di lasciar scorrere libero il proprio bottleneck lungo le sei corde, ben sostenuto dal substrato ritmico di basso e batteria. La chiusura è affidata invece ad una corale Goodnight Irene, una delle tante gemme incise da Huddie Ledbetter, nonché ideale commiato su di un leggiadro tempo di valzer. Saranno occorsi pur 37 anni, ma il documento sonoro che oggi abbiamo tra le mani descrive al meglio la storia e la vita artistica di un musicista capace di trascendere con la propria bravura confini stilistici e di genere, assorbendo come una spugna suoni e ritmi dei più vari per poi rileggerli con una perizia ed un gusto attualmente ancora senza eguali. Un live album la cui perfezione può tranquillamente essere riassunta con le parole pronunciate dallo stesso Cooder dopo l’ennesima prestazione vocale da manuale di Evans e McCuller……”Fantastic, fantastic”.

lunedì 7 ottobre 2013

Omid Jazi - Onde Alfa

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se l’EP Lenea, pubblicato lo scorso anno, era stato un primo, nonché riuscito, tentativo di intraprendere una propria, personale, strada artistica, al di fuori della ragione sociale condivisa Water in Face e della collaborazione live con i Verdena, oggi, con Onde Alfa, Omid Jazi arriva all’attesa prova sulla lunga distanza. Prova che mantiene intatte le buone onde sonore caratterizzanti il suo predecessore, del quale può essere vista come diretta discendente, e con il quale possiede più di un tratto in comune, a cominciare da alcune composizioni già edite nel precedente, e qui nuovamente riprese. Onde sonore, quelle odierne, che paiono muoversi parallelamente a quelle che titolano lo stesso full lenght, ovvero quelle onde alfa tipiche della veglia ad occhi chiusi e degli istanti precedenti l’addormentamento. Qui sta infatti la peculiarità compositiva del nuovo lavoro del musicista modenese, partorito per l’appunto, nella sua quasi totalità, nel primo sonno, in una sorta d’introspettiva fotografia onirica del proprio io. Frutto di questa esplorazione ipnagogica sono scatti d’enorme fascinazione emotiva, volti a mostrare un mondo interiore che è al contempo tanto oggetto quanto veicolo della narrazione sonica. “Scatti” che hanno trovato alfine la propria trasposizione fisica, tra i righi e gli spazi cartacei, in una piccola sala prove, sperduta tra nell’immensità della pianura emiliana. Qui, in compagnia del proprio fedele Mac Book, e dei più disparati, ed inusuali, strumenti, Omid Jazi, ha dato libero sfogo al proprio estro creativo, fino a forgiare una fusione tra analogico e digitale che della propria proposta sonora è senza dubbio peculiarità. Un album dalla mappatura musicale alquanto complessa ed eterogenea, essenzialmente pop, nell’accezione migliore del termine, ma al contempo venato da sintetiche escursioni sperimentali. Un maelstrom, nel cui perenne vorticare, trovano spazio algida estetica elettronica, sublime ariosità melodica di stampo beatlesiano, trip d’acida psichedelia d’antan e l’ossessiva litania punk dei CCCP. Esemplificativa di tale contaminazione è l’opener L’Aura, nelle sue architetture synth pop irrobustite da pervasive scariche elettriche, frutto di una sei corde distorta, che ritroviamo, ad innalzare un nuovo muro di suono, in Ossitocina, ripresa, insieme allo sghembo ciondolare electro di Taglia Le Paranoie, dalla precedente release. Un gusto per la melodia, di derivazione Sixties, affiora invece tanto nelle trame lennoniane di Orsetto Polare, tra misticismo freak e esotiche sottotrame percussive, quanto in una Percorso Della Salute, dove assistiamo ad un fluttuante volo, in un cielo dalle variopinte tonalità lisergiche, dei primigeni Radiohead, per poi “atterrare” in territori prettamente pop di quella piccola gemma di sontuosità compositiva denominata Indaco. E se Giulietta Ha Le Chiavi, nel suo declinare il verbo sonico jadiano, a metà strada tra sperimentalismo modernista e canonicità pop, faceva già, anch’essa, bella mostra di sé in Lenea, dai medesimi solchi “leneani” si sviluppa lo ieratico misticismo modernista di Pensiero Magico. L’anima più ruvida e grezza del nostro emerge invece nel nevrotico rifferama di Tira Con l’Arco, così come in Memoria Allocata, electro punk che fa proprio l’ipnotico salmodiare di Giovanni Lindo Ferretti. Un mondo, quello prodotto dalle onde alfa jadiane, che riflette appieno la multiforme personalità di un musicista capace di “giocare” con suoni e parole, regalando al contempo vivide emozioni.

Balmorhea @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Abitare ai “confini dell’impero musicale”, lontani dai grandi circuiti live, significa mettersi l’anima in pace e macinare chilometri su chilometri per poter assistere a concerti assolutamente “alieni” per una piccola realtà di provincia come Savona. Eppure dopo un lungo torpore musicale la cittadina ligure in questi ultimi mesi è ritornata a nuova vita artistica, complice anche la riapertura del Raindogs, ultimo ed unico baluardo della musica di qualità. E tra i tanti nomi presenti nella prima parte della programmazione riluceva senza dubbio per peso specifico quello dei Balmorhea. Il collettivo texano, le cui redini sono tuttavia sempre saldamente nelle mani del chitarrista Michael Muller e del pianista Rob Lowe, è ancora fresco della pubblicazione del loro quinto lavoro in studio,Stranger, uscito lo scorso anno, e da molti considerato quale l’album di una, seppur lieve, svolta sonica. Certo il minimalismo post-folk cameristico che ne aveva contraddistinto l’opera fin dagli esordi rappresenta ancora lo scheletro dell’opera sonica a nome Balmorhea, con una capacità evocativa oggi ulteriormente acuita da spigolose volute elettriche e da fluttuanti policromie sintetiche. A questo ha contributo l’allargamento della line-up, fino al recente assestamento a sestetto; assetto quest’ultimo che ha indubbiamente permesso una maggiore versatilità armonica, nonché inedite opportunità compositive. Ed è proprio con questa formazione che i nostri si presentano questa sera sul palco del Raindogs, che stenta a contenere una tale ricchezza strumentale, tanto da relegare contrabbasso e violoncello a lato dello stesso; soluzione quest’ultima che si rivelerà tuttavia vincente, accentuando anche visivamente, la componente cameristica del combo. Compito di aprire la serata spetta tuttavia a JBM sigla dietro la quale si cela Jesse Merchant, canadese di nascita ma newyorkese d’adozione, con all’attivo due buoni album, ed opening act dei texani per tutto il loro tour europeo. Un set in solitaria, equamente diviso tra chitarra acustica ed elettrica, spesso con il leggero battere di una grancassa e di un hihat, con l’opportuna aggiunta di un tamburello, quale unico supporto ritmico. Dotato di una voce di notevole caratura espressiva e fautore di una musica dall’umbratile fragilità, quanto di uno scarnificato livore elettrico, JBM ha saputo strappare più di un consenso, grazie a un pugno di composizioni in bilico tra crepuscolare alternative folk e cantautorato di più canonica ascendenza. Giusto il tempo di un veloce cambio palco ed ecco che i sei “protagonisti” della serata si manifestano sul palco, tra gli applausi di un più che numeroso pubblico, segno anche di come la loro “fama sotterranea” sia notevolmente accresciuta anche nel nostro Paese. Una formazione “allargata”non solo dal punto di vita numerico ma anche strumentale, visto il corposo armamentario presente sopra e sotto il palco. Strumentazione divisa equamente tra “canonicità” rock e una sezione d’archi d’orchestrale provenienza, a cui si aggiungono le più diverse percussioni. Quello che colpisce, sia dal punto di vista sonoro che visivo, è la versatilità di ognuno dei membri del gruppo, capace di passare con disinvoltura, spesso all’interno del medesimo brano, da uno strumento all’altro, pizzicando o percuotendo, alla bisogna, in modo più che egregio. Pur essendo notevole l’importanza nell’economia sonora del combo del binomio Lowe-Muller, la vera forza dei Balmorhea risiede tuttavia proprio nel collettivo, nonché appunto nella poliedricità dello stesso, grazie alla quale la musica è libera di viaggiare, su di una mappa priva di castranti paralleli e meridiani musicali, dilatandosi e contorcendosi verso le più disparate derive soniche. Certo il “cervello” della creatura Balmorhea rimangono i due succitati “leader”, a dividersi tra piano elettrico, chitarre e ukulele il primo e tra basso e chitarre il secondo, ma fondamentale è l’apporto dei propri compagni, a cominciare dal violino di Aisha Burns, protagonista tanto negli episodi di maggior movimentazione sonica quanto in suggestivi ricami d’ascendenza barocca, affiancato in quest’ultimo dallo scivolare degli archetti del violoncello di Dylan Rieck e del contrabbasso di Travis Chapman. Autentico “cuore pulsante” è infine Kendall Clark il cui drumming tanto preciso quanto febbrile ne fa l’ideale propulsore ritmico per le divagazioni strumentali dei nostri. Una musica dalla doppia anima quella degli odierni Balmorhea; la prima figlia d’un approccio modernista tra delay, riverberi ed proteiforme elettricità, su mai invasive trame sintetiche, la seconda d’atmosferica ascendenza, tra oasi cameristiche e misticismo folk. Il tutto fuso in una perfomance di palpabile intensità, con un’immaginaria linea guida a legare tra di loro i singoli brani presentati, dando così vita ad un ipnotico continuum sonico di cinematica fascinazione. Spiccano senza dubbio per ieratica bellezza, tanto una Settler, in cui le due anime, poc’anzi menzionate, paiono aver trovato terreno ideale sul quale convivere, quanto una Untitled tutta giocata sul tappeto melodico del piano, sul quale si libra l’incalzante volteggiare degli archi, e gli impeccabili incastri ritmici della batteria a far da collante, con il suggello delle armonizzazioni vocali di Lowe, Muller e della Burns, in una crescente coralità. Dal recente Stranger vengono estrapolate, tra le altre, la visionarietà post rock di una vigorosa Artifact, ed una Pyrakantha, che grazie anche all’ukulele, affidato questa volta alle mani della Burns, ingloba arie quasi caraibiche, in una sorta di rivisitazione balmorheaiana del Van Dyke Parks solista. Il pubblico ammutolito per quasi tutta la durata della perfomance tributa il giusto omaggio ai sei che, ritornati sul palco per gli encore, deliziano gli astanti con un brano inedito, a suggellare una splendida serata, dispensatrice di “onde positive”. Una musica immaginifica, d’eterea sfuggevolezza, da ascoltare in silenzio, lasciandosi trasportare sull’ondeggiare armonico che si spande nell’aria. Più che un concerto, quella di stasera è apparsa appunto quale un'esperienza acustico-visiva, al limite della trascendenza, ad opera di sei musicisti la cui bravura è inversamente proporzionale alla loro giovane età.