giovedì 30 gennaio 2014

North Mississippi Allstars - World boogie is coming

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Lo sguardo rivolto al futuro ma con un orecchio teso al passato, a quelle primitive, urticanti sonorità, ancora echeggianti dalle colline del Mississippi; questa la filosofia di “vita musicale” di Luther e Cody Dickinson, titolari, di fatto, del monicker North Mississippi Allstars. Un progetto, quello ideato dai due fratelli di Hernando, capace con un fulminante primo vagito, Shake Hands With Shorty, di rinverdire, grazie ad una ruvidezza al limite del punk, proprio il verbo del blues delle colline. Una lezione appresa,con la benedizione del padre Jim, da autentiche leggende quali Robert Lee Burnside, Junior Kimbrough e Otha Turner, che i due Dickinson, con l'aiuto del corpulento bassista Chris Chew, hanno cercato di tramandare, a loro volta, alle nuove generazioni, sia con una, ormai nutrita, serie di lavori in studio, che con un'estenuante attività on stage. E se il precedente lavoro, Keys To The Kingdom, mostrava un'apertura tanto verso sonorità di più canonica impronta rock, quanto ad acustiche intelaiature rootsy, con World Boogie Is Coming (titolo mutuato da un'espressione coniata dal, purtroppo, prematuramente scomparso genitore), i nostri paiono tornare sui propri passi, in un ulteriore tentativo di modernizzazione dell'ipnotica ossessività dei propri maestri. Una sorta di blues “futurista”, frutto di uno sforzo musicale collettivo e condiviso, con una nutrita schiera di amici, vecchi e nuovi, a dar manforte. Troviamo così Robert Plant impegnato a soffiare con ardore, nelle ance di un'armonica, nella doppietta iniziale composta da una JR, dedicata a Junior Kimbrough, e dal sussultare funky di Goat Meat, affidata all'ugola di Lightning Malcom; oppure Sharde Thomas a screziare, con nere tinte soul, Meet Me In The City, perla del repertorio kimbroughiano, per poi rendere omaggio con il proprio flauto, al suo illustre progenitore, Otha Turner, prima in Shimmy e poi in Granny, Does Your Dog Bite, intercalate, in un medley in puro stile fife and drum, con la dixoniana My Babe. I “pruriti modernisti” dei fratelli Dickinson trovano invece soddisfazione tanto in una rocciosa Boogie, quanto nel nevrotico delirare di Rollin'n’ Tumblin, indemoniati esempi di quel tonitruante blues “futurista” poc'anzi menzionato. Paradossalmente sono gli, al dire il vero sparuti, episodi autografi, a lasciar con l'amaro in bocca, come Turn Up Satan, becera scopiazzatura del recente rifferama auerbachiano, alla base del “tormentone” Lonely Boy. Una nuova boccata d'ossigeno sono invece tanto una splendida rivisitazione di Goin' to Brownsville, tra rullare di tamburi, lamentoso incrociarsi di voci e il bottleneck di Luther a scivolare magistralmente sulle corde, quanto una World Boogie riletta con giovanile veemenza, a rimarcare la bravura dei nostri nel plasmare, a proprio piacimento, la fangosa materia musicale afroamericana. Ribollente calderone hill country blues è invece una Jumper On The Line di burnsidiana memoria, dove, tra le immaginifiche pareti di un vecchio juke joint, spicca il vociare nasale e la grezza sei corde di Kenny Brown. Un album, World Boogie Is Coming, tuttavia compromesso, fortunatamente solo in minima parte, dall'inserimento, spesso forzato, di alcuni piccoli frammenti, parlati o musicalmente abbozzati, i quali appesantiscono, a tratti, la fluidità d'ascolto. Immutata è invece tanto la bontà quanto la solidità della proposta sonora dei North Mississippi Allstars, tesa oggi, più che in passato, a rievocare la viscerale alchimia grazie alla quale vide la luce il loro seminale esordio.

Swampcandy - Midnight creep / Noonday stomp

(Pubblicato su Rootshighway)  

Il duo sembra essere diventato, da qualche tempo, l'assetto prediletto da giovani virgulti dediti al "saccheggio" della tradizione musicale americana, bianca e nera che sia, per poi risputarla in faccia all'incauto ascoltatore con febbrile fisicità. E se il connubio chitarra/batteria è sicuramente il più gettonato, vedasi a tal proposito "gentaglia" come Hillstomp e Immortal Lee County Killers, la formula a due ha visto altresì alternarsi i più disparati, improbabili, abbinamenti strumentali. Rientrano in questa, ora non più ristretta, cerchia anche gli Swampcandy, duo, per l'appunto, di Annapolis, Maryland, formato da Ruben Dobbs, chitarra e voce e da Joey Mitchell, autentica one man rhythm section, nel suo padroneggiare, in contemporanea, contrabbasso e grancassa. Meno estremisti, come approccio alla materia tradizionale, rispetto ai succitati "colleghi", i nostri non rinunciano tuttavia ad appropriarsi, rileggendole con lucida follia, di arcaiche composizioni, perlopiù di deltaica provenienza, alle quali vanno ad aggiungersi un pugno di brani frutto della penna dello stesso Dobbs. Delta blues, ragtime e visionarietà folk; questi gli ingredienti di Midnight Creep/ Noonday Stomp, posto su nastro in una doppia sessione di registrazione; la prima svoltasi all'interno di un'antica casa coloniale, mentre la seconda tra le pareti amiche della fattoria dello stesso Dobbs. Una "Paludosa Caramella" che, perlomeno a giudicare, dagli ingredienti poc'anzi elencati, si preannuncerebbe dall'accattivante sapore, ma che purtroppo, una volta "scartata", non sempre riesce a soddisfare il palato, lasciando anzi un retrogusto amarognolo. Certo nel masticare il palustre prodotto dolciario in questione si avvertono sentori di familiare sapidità, pur nella loro moderna edulcorazione, come nell'opener Aberdeen e in Preachin' Blues, devoti omaggi, tra lo stridere del bottleneck e un ossessivo battere percussivo, ai maestri Bukka White e Robert Johnson; o nelle oscillazioni umorali di una Danced On A Mountain lontana parente della primigenia produzione dei fratelli Avett. E se il ragtime dopato Charlie, così come la riesumazione della Future Blues a nome Willie Brown, rimarcano una predilezione per il blues di deltaica foggia, sono al contempo da ascrivere, insieme a Drink Whiskey With Me, invito alcolico dalle waitsiane reminescenze, e al claudicante sproloquiare rootsy di If You See My Baby, tra gli episodi più riusciti del lotto. Al contrario, tanto le ruffianaggini rockiste di Avalon e Yes Love, quanto la funerea tetraggine di una sconclusionata Underhill, irritano invece la sensibilità delle papille gustative, tanto da compromettere, seppur in parte, la "degustazione". Un vero peccato, in quanto gli "ingredienti base" qui utilizzati sarebbero più che genuini, ma il duo sembra non aver ancora trovato le giuste dosi con le quali miscelarli, pregiudicando in tal modo quell'uniformità di sapore della quale la "Paludosa Caramella" per l'appunto difetta.

Threelakes and the Flatland Eagles - War tales

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Una prima “prova di volo”, in compagnia delle “Aquile delle Terre Basse”, Luca Righi, aka Threelakes, l'aveva effettuata già con il precedente EP Uncle T, ma è tuttavia solo oggi che il suo, immaginifico, volare sembra aver raggiunto la propria compiutezza, in un nuovo librarsi in tersi cieli, distaccandosi dai primigeni territori acustici, in direzione di inesplorati, caleidoscopici, orizzonti sonori. Attorniato, ed aiutato, in questa sua icarica impresa, dagli ormai fidati “rapaci musicali”, nonché supervisionato in cabina di regia da Andrea Sologni, il songwriter mantovano, infatti, accentua ulteriormente le proprie potenzialità espressive, canalizzando, al contempo, il proprio lirico narrare verso un unico tema; la guerra. Quella guerra conosciuta tramite i racconti di un nonno fisarmonicista, scappato dai tedeschi con il proprio strumento in spalla, ed oggi esplorata in tutte le sue più diverse accezioni. Ci troviamo pertanto di fronte tanto alla guerra “canonica”, dilaniante e crudele, combattuta fino all'ultimo respiro, quanto a singole, quotidiane, battaglie, forse meno invasive ma capaci anch'esse di lasciare profonde, insanabili ferite. Un vero e proprio “viaggio”, War Tales, tra sbiadite fotografie dai toni seppiati e più vivide istantanee, condotto con lo sguardo attento di un songwriter capace di tradurre in musica, grazie ad un'icastica lucidità testuale ed ad una mirabile capacità negli arrangiamenti, piccole storie di, dolorosa, vita vissuta. Palpabile è anche l'empatia instauratasi tra il nostro e i propri sodali, qui impegnati a costruire, nota su nota, evanescenti geometrie avant folk, intorno all'evocativa, quanto malinconica voce righiana. E se le acquatiche fluttuazioni dell'opener Wild Water rappresentano un solenne preambolo, d'oscura inquietudine, il cammino vero e proprio, lungo sentieri martoriati dalla guerra, ha inizio sulle sussultanti note di The Walk, più tuttavia un correre a spron battuto che un semplice camminare. Il citazionismo dylaniano di The Lonesome Death Of Mr. Hank Williams si limita al solo titolo, per quella che, invero, è una straziante preghiera, richiamante i Lumineers di più mesta rarefazione, di colui che sta vedendo la vita scivolare via dal proprio corpo, martoriato da anni di sfrenata dissolutezza; quel Hank Williams ben conscio che non sarebbero sopravvissuto a questo mondo. To Do, splendida ballata di dolente magniloquenza pare invece figlia dello sghembo folk apocalittico di sua “maestà” Will Oldham, mentre la purezza melodica di March, tessuta dal carezzevole pizzicare delle corde di un ukulele e dal tintinnio di un glockenspiel, viene parzialmente avvolta da ottundenti caligini folkie. Di più stretta osservanza country folk, pur filtrata attraverso la propria, personale, visione della materia, è Horses Slowly Ride, con un banjo a rievocare, con il supporto ritmico circolare di basso e batteria, proprio il galoppare dei cavalli. Ad una Rose d'ovattata fragilità è invece affidato il commiato, dove la voce di Righi viene doppiata dall'eterea vocalità di Francesca Amati, con l'enfatico soffiare della tromba di Emanuele Reverberi sullo sfondo; in un'attesa oasi di pace dopo la cessazione delle ostilità. Un album dal respiro internazionale, War Tales, nonché superba opera di un talento compositivo già pienamente sbocciato, in tutto la propria purezza lirica, al suo esordio sulla lunga distanza.

The Heart and the Void - Like a dancer

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)    

Con un monicker che pare quasi uno spin-off musicale dei propri “colleghi” nu-folkers The Head and the Heart, Enrico Spanu, alias The Heart and the Void, compie con questo Like a Dancer il suo primo passo nel mondo discografico. Un Ep, composto da quattro piccoli episodi sonici, frutto d'un approccio minimalistico, teso a privilegiare scheletriche intelaiature folkie, con la sola chitarra acustica a sostenere la tenue vocalità del titolare. Una voce che diviene vera e propria dispensatrice emotiva, andando a scandagliare le parti più luminose, come gli anfratti più oscuri dell'animo umano, ovvero il Cuore e il Vuoto, come recita, a ragion veduta, la stessa ragione sociale. Registrato nella natia Sardegna, ma masterizzato da Gus Elg presso gli Sky Onion Studio di Portland, Like a Dancer si avvale dei saltuari interventi musicali di Francesco Tocco e Marco Orrù, rispettivamente al rullante e alla tastiera, bravi ad assecondare, con sparuti tocchi melodici e percussivi, l'excursus emozionale di Spanu. E proprio a Portland, culla del movimento indie folk, sembra guardare l'operato del folksinger sardo, complice anche una voce che a tratti ricorda, per malinconica inflessione, quella di Colin Meloy, mente dietro al progetto Decemberists, combo originario proprio della cittadina dell'Oregon. A colpire è senza dubbio la maturità compositiva di Spanu, merce davvero rara in un “debuttante”, e fatta qui confluire tanto nella catarsi amorosa della tormentata, solitaria, ballata The Morning After, quanto nello scarno scalpitare dell'opener For The Little While, con le spazzole di Tocco a strisciare veloci sulla pelle sabbiata del rullante. E se il piglio deciso di Empty House, fa proprie coloriture autunnali decemberistiche, rappresentando al contempo l'episodio maggiormente “arrangiato” del lotto, il commiato è affidato invece al solo Spanu, in una dimessa When Winter Ends, tra le cui caliginose note ci si perde, ci si ritrova, e ci si smarrisce nuovamente. Un piccolo gioiello di spartano raccoglimento nu-folk, “Like A Dancer”, con Spanu a muoversi leggiadro e sicuro, proprio “come un ballerino”, in quattro suggestivi “movimenti” dal fragile incanto.

giovedì 23 gennaio 2014

Jack Williams - Four good days

(Pubblicato su Rootshighway)  

Con una carriera in ambito musicale lunga più di 50 anni, tutto si può dire di Jack Williams meno che sia un "giovanotto di primo pelo". Pregevole pizzicatore di corde, tanto elettrificate quanto acustiche, paroliere e songwriter di vaglia, nonché fido accompagnatore, on stage, di artisti quali Tom Paxton, Harry Nilsson e Peter Yarrow, il songwriter originario del South Carolina ha saputo costruire, nel tempo, un percorso di integerrima integrità artistica, ove folk, jazz, rock'n'roll e blues si sono, spesso, avvicendati quanto fusi tra loro. E se i trascorsi a fianco dei succitati "colleghi" paiono legittimare la bontà delle proprie abilità strumentali, le sue avventure in proprio hanno visto alternare a progetti collettivi, una parallela, intimistica, dimensione da folksinger. Ed è appunto quest'ultima ad emergere in Four Good Days, rivisitazione, in chiave acustica, di brani contenuti nei suoi ultimi lavori in studio, con l'aggiunta di alcune composizioni prelevate dalle nebbie del proprio passato, ed altre mai impresse prima d'ora su nastro. Un lavoro d'introspettiva rilassatezza, dove ad essere protagonista è la sei corde acustica dello stesso Williams, nel suo centellinare note intorno ad una voce, arricchita di nuovi, espressivi, colori dal trascorrere del tempo. Ne sono un esempio il carezzevole picking della title track, riflessivo rimembrare sulla propria vita alla soglia dei 70 anni, la delicata ballata westcoastiana Highway From Back Home, narrante le gioie e i dolori di un'esistenza passata sulla strada, nonché le digressioni grassy di una "bromberghiana" Them Things, tinta di nere tonalità gospel da ben calibrati apporti vocali. Coralità che ritroviamo anche in una Sugar Enough, registrata su insistenza della propria moglie, dove, per l'appunto, gli incroci vocali, e il muoversi flessuoso delle dita sulle corde, paiono rimandare alle esplorazioni acustiche cooderiane. D'indubbio splendore sono tanto una Suddenly The Tide abbellita da nuove sublimi armonizzazioni vocali, quanto una You Be The Light trasudante caraibica solarità. Emergono invece dai propri trascorsi in un combo d'elettricità rock, Sleeping In The Streets, qui riproposta in nuova veste che, complice anche il mantico dischiudersi della fisarmonica di Radoslav Lorkovic, rievoca la New Orleans degli ultimi Subdudes; così come A Full Moon On, sincopato esercizio bluesy con tanto d'accompagnamento dei tasti bianchi e neri d'un piano. Unico brano non autografo è una struggente, nel suo evocativo arrangiamento per sole corde e tasti, rilettura di The Night They Drove Old Dixie Down, in ricordo dello scomparso Levon Helm, al quale è peraltro dedicato l'intero album. Nel suo guardare, attualizzandolo, al proprio passato, prossimo e remoto, Four Good Days, rappresenta un'ideale summa dell'opera del songwriter nativo di Lancaster, quanto un valido, primo, approccio alla medesima.

lunedì 20 gennaio 2014

Chris Eckman - Harney County

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Un viaggio, quello tra la polvere dell'Oregon, intrapreso da Chris Eckman più di vent'anni fa, ammaliato dalla lettura di Owning It All, memoir ad opera di William Kittredge, e celebrazione proprio di quella suadente quanto crudele porzione di territorio statunitense. Un viaggiare, nell'arida immensità desertica, che sembra aver segnato nel profondo il songwriter originario di Seattle tanto da far confluire le emozioni provate in una prima composizione, Death At Low Water, apparsa in Life Full Of Holes, album registrato in coppia con Carla Torgerson nell'ormai lontano 1995. Alla polvere statunitense non sembra tuttavia essere bastato questo primo “soffio autoriale” per essere scacciata, tanto da ritornare prepotentemente a vorticare, in tempi recenti, tra i solchi dell'ispirato Travels In The Dustland, ultima meravigliosa opera della creatura eckmaniana chiamata Walkabouts. Nel frattempo la voglie esplorative del nostro non si sono placate, acuendosi ulteriormente, fino ad estendersi ad un altro deserto, quello africano, visitato ancora lo scorso anno grazie al nuovo capitolo discografico a nome Dirtmusic, quanto al lavoro in cabina di regia per Chatma, gemma di african blues marchiata Tamikrest. E' tuttavia Il ricordo di quel primo viaggio ad Harney County a spingere Eckman a tornare in quei luoghi, per dar vita ad un album volto ad essere la vivida trasposizione, su pentagramma, proprio di quella sfaccettata vastità territoriale, tra cime sferzate dal vento, pianure paludose, fatiscenti costruzioni e carcasse d'auto. Luoghi di cruda inospitalità dove, tra inverni nevosi ed estati torride, l'esistenza umana appare insignificante, ma al contempo pregni d'una bellezza atemporale difficile da esplicare. Tutto questo viene impresso nelle otto “fotografie sonore”, dalle tinte scure, contenute in Harney County; otto immaginifici movimenti all'interno di un mondo buio e spettrale, con la voce e la chitarra acustica di Eckman quali sommessi compagni di cammino. Registrato in quel di Praga, in compagnia del contrabbassista Ziga Golob, nella smisurata ampiezza d'una sala capace di contenere un'orchestra di più di 80 elementi, Harney County trova la propria forza nel suo voler rinunciare ad inutili orpelli o eccessive stratificazioni sonore, prediligendo scheletrici arrangiamenti acustici, quasi a voler ricreare in tal modo l'alienante senso di solitudine provato dallo stesso Eckman, nel suo libero girovagare, in quei luoghi. Minimali sono infatti gli apporti esterni, tra i quali gli interventi percussivi di Milan Climfe, come nella desolata fascinazione dell'opener Nothing Left To Hate, o quelli della sei corde elettrica di Paul Austin, ad ammantare di tenue livore elettrico The Carnival Smoke. E se la penetrante Requiem For The Old Skool Heavy, nel suo algido, sincopato muoversi ricorda la produzione walkaboutsiana, l'animo da storyteller di Eckman emerge in tutto il proprio tenebroso lirismo tanto in Katy Cruel, quanto nella scarnificata magnificenza di Sound Of No Return. La più serrata Many Moons si avvale invece, tra crepitanti fragori elettrici, del soffiare distorto dell'armonica di Terry Lee Hale, prima che il tutto si affievolisca nella conclusiva, polverosa ballata Ghosts Along The Border, impreziosita dall'apporto vocale della propria consorte Anda. Un album, Harney County, attraverso il quale addentrarsi sicuri alla scoperta di un disabitato mondo perduto, lungo il sentiero tracciato da un songwriter d'ineccepibile maestria compositiva.

sabato 11 gennaio 2014

AAVV - Loves you more: a tribute to Elliott Smith

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)  

Dieci anni sono passati dalla tragica, prematura, dipartita di Elliott Smith; dieci lunghi anni nel corso dei quali il ricordo del songwriter, originario del Nebraska, non si è mai affievolito, da entrambe le parti dell'Oceano. Numerosi infatti gli attestati di stima e le cerimonie musicali in suo onore succedutesi nel corso degli anni, fino al recente concerto celebrativo, al Glasslands di Brooklyn, in occasione proprio del decennale della sua scomparsa, alle quali va oggi ad aggiungersi Loves You More, splendido album tributo, tutto italiano. Un opus sonico, quello smithiano, che con i suoi introspettivi acquerelli acustici, dalle grigie tinte malinconiche, ha enormemente influenzato il panorama musicale ad esso contemporaneo, e la cui eco si può avvertire nei lavori di molti artisti odierni. Proprio per questo è nata l'idea in Davide Lasala dei Vanillina, di convocare all'Edac Studio, quindici artisti, molto diversi tra loro, assegnando ad ognuno un brano tratto dal songbook a nome Smith. Sessioni di registrazioni informali, spesso in presa diretta, secondo la logica del “buona la prima”, registrando il tutto su di un nastro magnetico,con computer e moderni ritrovati tecnologici confinati al di fuori dello studio. Quindici riuscite, nella loro quasi totalità, rivisitazioni, aiutate sicuramente dal clima disteso e colloquiale instauratosi, come si può peraltro evincere dal bellissimo documentario a cura del regista Fabio Capalbo, allegato all'album stesso. Apre le danze una magnifica rilettura, dalla lieve acidità lisergica, di Waltz n2 ad opera di Dellera, dove spiccano gli svolazzi armonici del violino di Rodrigo D'Erasmo, suo “compagno sonico” negli Afterhours. Dietro al monicker Black Black Baobab si celano invece Nicholas Restivo e Roberta Sammarelli dei Verdena, qui alle prese con le allusioni “tossiche” di una Needle In The Hay (pur tuttavia smentite al tempo dallo stesso autore), estratta dal secondo, omonimo, album di Smith, che vede il suo primigenio scheletro acustico, rinvigorito da robuste “iniezioni” d'elettrica marzialità. Sempre dall'opera omonima arriva una The White Lady Loves You More (altro esempio della presunta allusività junkie che sembrava pervadere l'intero album) magistralmente interpretata, tra evocative, dronanti, stratificazioni sonore, dai Jennifer Gentle. Opta invece per l'utilizzo dell'italico idioma, Edda, in una riuscita riproposizione di Angeles, da Either/Or, così come le difficoltà relazionali di Between The Bars, trasformata in un tetro, arcaico, sussurro per voce e banjo, da Mr Henry. E se Nicolas Falcon dimostra di cavarsela egregiamente con una Somebody I Used to Know puntellata dal tintinnio d'un piano elettrico, i C+C=Maxigross infondono la propria baldanza indie in una Son of Sam in bilico tra rilassatezza acustica e contorte palpitazioni psichedeliche. Ovviamente è presente anche Miss Misery, brano, inserito nella colonna sonora del lungometraggio Will Hunting, che è valso a Smith una candidatura all'Oscar, qui riproposta dai Vanillina, in una straziante versione più vicina alla Seattle del grunge che alla Los Angeles smithiana. Un doveroso, quanto riuscito, omaggio, Loves you more; un atto di smisurato amore verso un artista dall'immarcescibile talento compositivo, la cui assenza pesa ancor oggi come un macigno.

mercoledì 8 gennaio 2014

Big Fox - Now

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Dopo aver riscosso ampi consensi da parte della critica, con il proprio, omonimo, esordio, pubblicato nel 2011, ed aver aperto alcuni concerti delle connazionali First Aid Kit, la cantautrice svedese Charlotte Perers, aka Big Fox, torna, oggi, a far parlare di sé, con Now. Nove esili composizioni, registrate nella natia Malmö, dalle quali traspare una lirica eleganza, in un parco fluire di delicate melodie di stampo folk pop. Una malinconia autunnale sembra pervadere il plumbeo, piccolo, mondo musicale della Perers, tra l'estatico battere dei tasti del pianoforte e le chiaroscurali fluttuazioni melodiche di un violoncello. Una sorta di rifugio segreto, Now; un'oasi dove, al riparo dei freddi venti svedesi, lasciarsi andare ad intime confessioni, che in nessun altro luogo si avrebbe il coraggio di proferire. Parole sussurrate, ma non per questo prive di una loro epica poeticità, ancor più acuita da minimali arrangiamenti strumentali. Vedono così la luce gemme soniche quali l'opener Shadows, d'ombrosa grazia acustica, dove un pianoforte, affidato alle mani della stessa Perers, e l'archetto di un violoncello si muovono all'unisono, o l'eterea Days Come/Go, dalle aperture armoniche quasi cameristiche. E se Cheer You Up è avvolta da una pastorale velatura folkie, la title track, con una voce maschile a far da controcanto a quella della cantautrice, ricorda il sublime intrecciarsi vocale tra Lisa Hannigan e Damien Rice. Non mancano gli episodi di più stretta matrice pop, come la solarità tenue di Girls, una Calm Down ornata da drappeggi jazzy, o la più mossa Romantic Movie Love, ben lontani tuttavia dalle zuccherose stucchevolezze dell'odierno mainstream. La lunga ballata pianistica The Storm, ci riporta invece entro le sicure mura del personale rifugio, di confidenzialità folk, della svedese, per un commiato d'immaginifico splendore. Un album d'intimistica fragilità, Now, merito tanto di lievi trame strumentali quanto, soprattutto, dell'incantevole voce della Perers, in grado di toccare corde emozionali tra le più profonde e nascoste.