mercoledì 26 febbraio 2014

Boy and Bear - Harlequin dream

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L' Ayers Rock come le Blue Ridge Mountains? Il bush australiano simile all'agreste campagna inglese? Territori geograficamente distanti tra loro, anzi agli antipodi, eppure accomunati da un humus musicale della cui fertilità sembra aver trovato giovamento quella semenza indie folk capace, nel recente passato come ai giorni nostri, di produrre abbondanti, variopinti, frutti sonori. E se le produzioni agro-musicali statunitensi ed albioniche hanno da tempo visto assegnare loro il marchio DOP, la “vergine” Australia solo ultimamente ha avviato una coltivazione di prodotti autoctoni, nati da semi d'importazione, ma cresciuti assorbendo il proprio nutrimento dal terreno in cui sono stati piantati. Uno dei frutti più maturi di questa produzione “down under” sono senza dubbio i Boy and Bear, venuti alla luce nel 2009, come creatura solista del cantate, chitarrista Dave Hosking ma tramutatisi presto in un progetto collettivo, e fautori, due anni più tardi, di un debutto, Moonfire, guadagnatosi tanto il plauso della critica quanto i più diversi premi a livello locale, aprendo loro le porte di un tour mondiale, tra importanti festival e opening act per, tra gli altri, Laura Marling e Mumford and Sons. Un viaggiare “on the road” dal quale Hosking ha saputo trarre ispirazione, annotando sul proprio taccuino quanto visto, ascoltato e vissuto su e giù dal tour bus. Appunti, piccoli bozzetti e frammenti testuali riversati, una volta tornato in patria, tra i solchi di quello che sarebbe diventato Harlequin Dream. Registrato sotto l'egida di Phil Ek, presso gli Albert Studios, il secondo vagito del combo aussie sembra tuttavia distaccarsi, perlomeno in parte, da quell'aura rock impregnante il debutto, in favore di stratificate trame alternative folk, rischiarate da una luminescente solarità pop. Un melodismo d'idilliaca purezza, arrangiamenti sontuosi ma mai ridondanti, e una voce, quella di Hosking, d'agrodolce espressività, nonché autentico tratto distintivo della proposta sonora dei nostri. Un canovaccio, quello alternative folk, che i cinque australiani rileggono con un occhio alla sua stesura originaria, senza tuttavia scadere nella pedissequa imitazione dei propri predecessori, grazie anche ad un personale approccio alla materia sonica in questione. Ne sono un esempio la sapiente costruzione del climax alla base di Old Town Blues, irresistibile nella sua incalzante progressione armonica; o come la title track, dove si avverte maggiormente il certosino lavorio compositivo di Hosking e soci, in un riuscito esempio di raffinatezza poppish, tra inserti cameristici, cantato in falsetto, e il soffiare anni '80 d'un sax nel finale. Cangianti cromatismi indie pop colorano anche Three Headed Woman e Bridges, pur controbilanciate da pervasive impennate elettriche, scongiurando in tal modo stucchevoli concessioni alla “melassa mainstream”. Rannuvolamenti elettrici addensatisi anche intorno alle ondulazioni elettroniche delle scure deviazioni sperimentali di Back Down The Black. A dir poco splendida, nel suo raccoglimento folkie è, al contrario, A Moment's Grace, bucolica ballata costruita sulla fragilità acustica del fingerpicking sulle corde di un banjo e della chitarra, appena scalfito da un lieve soffiare fiatistico e dalla morbida liquidità di un organo. Un modus operandi, quest'ultimo, che ritroviamo, seppur rinvigorito da un robusto rotolare ritmico, in una End Of The Line d'euforica esuberanza country. Sembra invece provenire dal wilconiano Sky Blue Sky, l'opener Southern Sun, tra citazionismo tweediano e fraseggi della sei corde elettrica degni del miglior Nels Cline, prima del commiato affidato al sonnolento ciondolare di una vellutata Arrow Flight. Pregevolmente composto, registrato e prodotto, Harlequin Dream possiede tutti i numeri per replicare, in patria e non, il successo del suo predecessore, facendo altresì ulteriori proseliti, grazie ad una brillantezza melodica di solenne magniloquenza.

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