lunedì 29 aprile 2013

Accents - Growth and squalor

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Nella sua costante evoluzione l’universo indie folk ha visto a più riprese comparire, nel loro siderale passaggio nei pressi dei suoi pianeti principali, nuovi asteroidi sonori. In questa particolare osservazione astro-musicale ci si può pertanto imbattere, molto spesso, in piccoli corpi celesti dall’accecante bellezza, tra i quali spicca senza dubbio quello a nome Accents; progetto a due partorito dalle menti di TJ Foster e Benjamin Hemingway. Già tra i fondatori dei The Cast Before The Break (nei quali oggi milita tuttavia il solo Foster), i nostri tornano ad incrociare il loro cammino musicale, dando vita, con Growth And Squalor, ad una più che riuscita opera prima. Dieci policrome composizioni frutto di un songwriting, quello di Foster, che allontanandosi in parte dagli elettrici profluvi della “band madre”, esplora in questo frangente ambientazioni soniche più intime e raccolte, sintetizzate in misurati arrangiamenti d’evanescenza folkie. Ne sono un cangiante esempio With The Light, con una chitarra acustica di derivazione quasi “cashiana” a marcare il tempo, o il sontuoso distendersi, tra melodiosi intrecci vocali, di Around. Proprio quest’ultimi paiono rappresentare una delle peculiarità della formula sonora del duo, con la voce nasale e acuta di Hemingway che ben si contrappone a quella ben più calda di Foster, alle quali, in più di un episodio, va ad aggiungersi la flessuosa vocalità di Lauren Alexander, loro compagna spesso anche on stage. Armonie vocali che echeggiano, in un brumoso baluginare autunnale, tra gli immaginifici paesaggi agresti di Storms, così come nella lenta ballata The Low, dalla quale emerge maggiormente l’anima indie folk dei nostri. Materia sonica quest’ultima che, nella sua accezione più modernista e sperimentale, ritroviamo anche tra i solchi di Way Out, dove l’equilibrio tra sognanti arie acustiche e spigolosità elettriche raggiunge il proprio zenit. Si avvertono invece reminescenze della passata, e condivisa, esperienza musicale in Routine Movements, che poggia su di un ficcante riff della sei corde elettrica, ulteriormente imbastardito dalla causticità ritmica di basso e batteria. E se Alright With Me ricalca in modo fin troppo sfacciato sonorità Coldplay oriented, i nostri si fanno ampiamente perdonare nel finale con una a dir poco splendida Sorrow; tanto nel suo evocativo incipit, quanto nel marziale crescendo finale, sfociante in una sublime coralità. Non vi resta pertanto che lasciarvi attrarre nell’orbita dell’asteroide Accents, nella speranza che permanga stabilmente nel sistema solare Indie Folk e non si perda, al contrario, negli oscuri meandri dell’attuale universo discografico.

venerdì 26 aprile 2013

Eels @ Alcatraz - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se si dovesse, in un ipotetico gioco di associazioni mentali, trovare l'equivalente animale degli Eels,
più che le anguille, suggerite peraltro dal loro stesso nome, non avrei esitazione nel dire il camaleonte. E camaleontica lo è davvero la creatura di Mr E, capace, di volta in volta, di mutare le
proprie fattezze e colorazioni soniche, nell'assecondare i folli umori musicali di quest’ultimo. Il concerto di questa sera ne è stata l'ennesima prova con i nostri ad infiammare l'Alcatraz con più di un'ora e mezza di robusto garage rock venato da forti sentori bluesy. Ad accoglierci è stato tuttavia un inatteso intermezzo, con Puddles, vero e proprio gigante agghindato da pagliaccio, ad intonare, con voce possente, una serie di improbabili cover, supportato da una ballerina, dalle sembianze scimmiesche, intenta a lanciare banane in platea. Un siparietto in puro "Everett style", stuzzicante antipasto in attesa del vero opening act della serata, ovvero Nicole Atkins. Tocca infatti alla cantautrice del New Jersey, scaldare musicalmente gli animi dei presenti, con un breve set per sola chitarra elettrica e voce, equamente bilanciato tra brani autografi e composizioni altrui. E se dai primi, emerge un songwriting di buon livello, con i secondi a mettersi in luce è la forza interpretativa della Atkins, in particolar modo nella struggente rilettura della orbisoniana Crying. Giusto il tempo che la cantautrice lasci il palco, ed ecco che finalmente la "palestra rock" eelsiana può aprire i battenti. Su di un palco quantomeno spoglio, entrano infatti Mr E e soci agghindati in puro Adidas style, con tute e scarpe da ginnastica, e occhiali da sole d’ordinanza. A ribadire che quello di stasera sarà un concerto muscolare oltre che di sostanza, è una formazione ad alta gradazione rock; un quintetto formato, oltre che dallo stesso Mr E alla sei corde elettrica, da altri due chitarristi, The Chet e P-Boo, e da una nerboruta sezione ritmica affidata al basso di Honest Al e a quel pazzo pestatore di tamburi che porta il nome di Knuckles. Everett, posto su di un palchetto sopraelevato, può pertanto liberare l'anima più grezza ed animalesca del proprio alter ego musicale, che pare regredire addirittura ad uno stadio da primate, nella danza tribale in apertura di Peach Blossom, uno dei tanti estratti dal nuovo album che sentiremo questa sera. Lavoro quest'ultimo che verrà a dir poco saccheggiato, come nell’adrenalinico trittico iniziale, con una Bombs Away all’anfetamina, con tanto di bastone della pioggia listato a lutto per i recenti attentati di Boston, e una doppietta Kinda Fuzzy - Open My Present, che dispensa distorti profluvi elettrici. Altro capitolo discografico particolarmente toccato sarà Hombre Lobo, quasi un "gemello cattivo" dell'ultimo Wonderful Glorious, prima con i vocalizzi ululanti di una Tremendous Dynamite, in una crescente quanto allucinata sarabanda sonica, poi con le avviluppanti trame blues da terzo millennio di Prizefighter. Blues che, nella sua fusione con il rock di matrice Seventies, caratterizza anche le rivisitazioni pentagrammatiche altrui, tanto nell'infuocata Oh Well, dal repertorio dei Fleetwood Mac, dove, tra stacchi e ripartenze, un Mr E, di maracas munito, aizza gli astanti a far sentire il proprio calore, quanto nella malia psichedelica di una Itchycoo Park, a marchio Small Faces. E se i nostri si dimostrano a proprio agio nel maneggiare robusto materiale d'antan, non mancano i momenti di maggior rarefazione sonica, come l’eterea impalpabilità di Accident Prone, o il lento ciondolare folk rock, quasi dylaniano, di On The Ropes, con il resto del gruppo a seguire il proprio frontman con calibrata perizia. Una band in realtà tramutatasi in un’autentica famiglia, tanta è l'empatia che lega i singoli musicisti, che a più riprese si prodigano in affettuosi abbracci. Un rapporto ulteriormente cementificato dal tempo trascorso insieme sui palchi di mezzo mondo, come nel caso di Mr E e The Chet, compagni on stage da più di dieci anni. E quale modo migliore di sancire quest'unione musicale se non un vero e proprio matrimonio artistico? Ecco quindi P-Boo, vestire l’inedito ruolo di sacerdote e porre la fatidica domanda a The Chet; "Vuoi tu The Chet prendere il qui presente Mr E come tuo leader e frontman?" e ad una risposta affermativa di quest'ultimo, la medesima domanda viene rivolta al secondo; "E vuoi tu Mr E prendere il qui presente The Chet come tuo chitarrista solista?". Alla risposta affermativa di Mr E l'unione tra i due viene infine suggellata con la stretta di mano segreta degli Eels, mentre Knuckles intona una sdolcinata e middleriana Wind Beneath My Wings, prima di lasciarsi andare ad un roboante assolo nella delirante Go Knuckles! che termina con un abbraccio collettivo, al centro del palco, tra le risate e gli applausi del pubblico. Non vi è solo il presente nella scaletta eelsiana odierna, ma piccoli scampoli di un passato glorioso emergono a tratti, tra il freak rock di The Sound Of Fear, una Fresh Feeling cantata da tutti i presenti, fino alla ripresa di una deviata Souljacker Part I, dove pare che insieme ai nostri vi sia, a jammare, un Bo Diddley in pieno trip lisergico. E se il passato è glorioso, il presente lo è altrettanto con una Wonderful Glorious a chiudere il set principale. Neanche il tempo di lasciare il palco però che Mr E e soci tornano in scena per deliziare gli astanti prima con lo sferragliare country'n'roll I'm Your Brave Little Soldier, e poi con sublime medley tra My Beloved Monster e Mr E's Beautiful Blues, due tra i pezzi più amati della prima produzione del songwriter della Virginia. E dopo cotanto ben di Dio, che altro ci si potrebbe aspettare? Beh, si sa, Mr E è tipo imprevedibile ed ecco infatti i cinque ripresentarsi on stage per una cupa e straniante Fresh Blood, estrapolata ancora dal recente Hombre Lobo. Si accendono le luci in sala, e il pubblico inizia a sciamare verso l'uscita, convinto che ormai il concerto sia terminato, quando ad un tratto dal palco fluiscono le note di Dog Faced Boy. Maledetto Mr E, ce l'hai fatta di nuovo!! In una folle corsa verso il palco riesco ad arrivare tra le prime fila giusto per godermi gli ultimi scampoli dell'ironica ed autocelebrativa Go Eels!, con tanto di Puddles, che si aggira sul palco brandendo un cartello recante la scritta "Zitti, andate a casa!". Ora è davvero finita e possiamo pertanto seguire il consiglio clownesco, consci tuttavia di aver assistito a quello che Mr E stesso aveva, più che giustamente, descritto come un naturale e spettacolare evento.



SETLIST:

Bombs Away
Kinda Fuzzy
Open my Present
Oh Well
Tremendous Dynamite
Accident Prone
On the Ropes
Peach Blossom
Prizefighter
The Tornaround
New Alphabet
Fresh Feeling
The Sound of Fear
Wind Beneath My Wings / Go Knuckles
Itchycoo Park
Souljacker Part I
Wonderful Glorious

Encore1

I'm your Brave Little Soldier
My Beloved Monster - Mr E's Beautiful Blues

Encore2

Fresh Blood

Encore3
Dog Faced Boy
Go Eels

sabato 20 aprile 2013

Quinzan - Venì, venì e mi amore

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Contadino biologico, vignaiolo e musicista, Pietro Bandini pare vivere in profonda simbiosi con la propria terra, quella Romagna amata, coltivata, ed infine anche cantata, prima in un esordio a proprio nome, e poi sotto lo pseudonimo di Quinzan, in due album, U ‘n Piov e Lòm a Merz (quest’ultimo aggiudicatosi tra l’altro il premio MEI quale miglior disco dell’anno della propria regione), caratterizzati da liriche in forma dialettale. Sulla medesima scia si pone anche Venì, Venì e Mi Amore, che riesce nel non facile intento di racchiudere in un’unica tavolozza i colori musicali di una regione, l’Emilia Romagna per l’appunto, da sempre pregna delle più disparate sonorità. Un album caratterizzato da un profondo lavoro di ricerca etnomusicologica, in una pentagrammatica
esplorazione di arcaici canzonieri popolari, recuperando e musicando vecchie filastrocche e perduti brani tradizionali; ampliando al contempo il raggio uditivo del proprio “orecchio indagatore”, verso più moderni spartiti, in una trasposizione vernacolare di composizioni di illustri “colleghi”, nostrani e non. Ad aiutare, musicalmente, il nostro, troviamo un folto ensemble di musicisti, il cui contributo strumentale è oltremodo fondamentale nello creare trame musicali d’altri tempi. L’intero album è, nell’intenzione dell’autore, impostato come un’escursione sonora all’interno di un singolo giorno, dal risveglio fino allo scendere della notte, in un bucolico spaccato di vita quotidiana, con la voce dello stesso Quinzan come unica narratrice. Una giornata che ha il suo inizio, ovviamente al mattino, prima incontrando Giovan Trabiccola, in una giocosa filastrocca dove, sul saltellante percuotere dei tasti del pianoforte e delle lamelle del glockenspiel, Quinzan gigioneggia vocalmente, accompagnato da un coro di bambini; poi facendo visita ad una fanciulla, in attesa del proprio amato, in Venì, Venì e Mi Amore, dove la terra romagnola viene sferzata dalle polverose arie del border americano, in un “liscio desertico”, che ricorda quanto fatto, in tempi recenti, dai suoi conterranei Sacri Cuori. Spicca per splendore In Paradìs, impeccabile rivisitazione in romagnolo della morrisoniana Jackie Wilson Said, alla quale replica poco più avanti la cavalcata folk Quinzan e Piripaja, composta sulla musica della Camouflage di ridgwayiana memoria. Se Il Grillo e La Formica si rifà alla tradizione bandistica, con la festosa presenza di una vera e propria banda, quella dei Musicanti di San Crispino; nel lento valzer In Priest si respirano, sulle note del violino e del clarinetto, profumi balcanici. L’opera di “romagnizzazione” quinzaniana non risparmia neppure il cantautorato nostrano, tanto che il nostro si diverte a far propria l’irresistibile Per Un Basin (che qui diventa Per Un Basì), estrapolata dal surreale repertorio dell’immenso Enzo Jannacci. Con il progredire dell’ascolto si susseguono anche le varie fasi della giornata, fino ad arrivare ai primi chiarori della sera, ed a una ninnananna, Din Don, dove il dolente scorrere del bottleneck di Mirko Monduzzi incontra gli arabeschi sonori della fisarmonica, con Quinzan a duettare con l’incantevole voce di Luisa Cottifogli. L’appropinquarsi delle tenebre viene invece salutato da Serena Bandoli nel declamatorio incipit di La Nòt, vespertina ballata elettrica nata sulle parole dell’omonima poesia del santarcangiolese Nino Pedretti; prima di un ultimo omaggio, con Stuglè, in compagnia dei Radìs, al comune suolo natio. Una passeggiata musico-temporale che, non solo affascina, grazie alle proprie incantevoli ed intriganti melodie, ma al contempo instaura nell’ascoltatore il desiderio, una volta conclusasi questa “giornata in musica”, di risvegliarsi nuovamente in una Romagna d’altri tempi ma mai forse così, almeno musicalmente, vicina.

giovedì 18 aprile 2013

Iron and Wine - Ghost on ghost


Capita a volte di ritrovarsi con vecchi amici, persi di vista da tempo, e stentare, vuoi per le primavere trascorse per entrambi, vuoi per i segni lasciati da quest’ultime, a riconoscersi. Questa medesima sensazione, il sottoscritto, l’ha provata nel rincontrare, perlomeno musicalmente, il “vecchio” Samuel Beam. Ben lontano dai sapori agresti del folk degli esordi, il barbuto cantautore della Carolina del Sud, si era infatti presentato in un’inedita veste sonora con lo spiazzante Kiss Each Other Clean. La bassa fedeltà che ne aveva contraddistinto fino a quel momento la produzione artistica era stata soppiantata da un freak funk di matrice futurista, diventato vero e proprio centro nevralgico del modus operandi del nostro. Ma quanti pensavano potesse trattarsi solamente di un episodio isolato, o quantomeno di una sperimentazione effimera, dovranno oggi ricredersi. Più che una divagazione
passeggera dagli abituali sentieri bucolici, il precedente album può essere considerato, tutt’al più alla luce dell’odierno parto discografico, come un punto di svolta nell’avventura musicale a nome Iron And Wine. Un’opera, Ghost On Ghost, ancor più solenne ed elegante; un nuovo caleidoscopico arricchimento delle partiture beamiane, mai forse così pregne di iridescenti colori sonici, tra melliflue divagazioni in chiave jazzy ed assolati effluvi californiani, in una personale rivisitazione del pop orchestrale marchiato Van Dyke Parks. Fanno bella mostra di sé arrangiamenti multiformi, complessi nel loro sviluppo armonico, ma senza tuttavia mai peccare di pomposità, mantenendo tutt’altro al centro della propria narrazione musicale una ricerca melodica di rara purezza. Sotto la sapiente supervisione dell’ormai fidato Brian Deck, ed supportato da uno stuolo di musicisti impeccabili, il songwriting beamiano, libero da vincoli tematici, si cristallizza in piccole gemme d’adamantino splendore. A cominciare dalla solare apertura di Caught In The Briars, con la sezione fiati a soffiare gentile, prima di un’orgiastica sarabanda finale guidata dal pianoforte. Fiati che ritroviamo tanto nel sincopato muoversi di Low Light Buddy Of Mine, quanto nella policromia jazzy di Lover’s Revolution, con Beam nelle inedite vesti del crooner. Una voce quella del nostro che guadagna ulteriormente in espressività e duttilità, mostrandosi in tutta la propria grazia interpretativa tanto nell’estatico ondeggiare di Grass Widows, quanto nella poeticità invernale di una deliziosa Winter Prayers. Piccoli dipinti dalle tenui tinte pop sono invece The Desert Babbler e Joy, la cui malia risiede nell’aereo intrecciarsi di flebili vocalizzi. Un’incresparsi vocale che caratterizza anche il caracollante sbuffare di Grace For Saints And Gamblers, così come la conclusiva Baby Center Stage, magistrale esempio di dilatazione cosmic country. Il tempo ne avrà pur modificato le “fattezze musicali”, ma il buon Samuel Beam rimane sempre un caro vecchio amico capace, ad ogni nuovo incontro, di incantare con le proprie suggestive storie in musica.

lunedì 15 aprile 2013

The Bean Pickers Union - Better the devil

(Pubblicato su Rootshighway)

Se con Potlatch, l'esordio del 2007, il "Sindacato dei raccoglitori di fagioli" aveva ottenuto rigogliose messi dalla coltivazione di terreni di natura alternative country, con il nuovo Better The Devil, pare invece essere tornato a metodi agricoli più arcaici, andando a dissodare vecchi appezzamenti country e folk. Ideale humus lirico è poi la vena compositiva di Chuck Melchin, quanto mai fertile, nel suo dar vita a piccole storie di disperazione, speranza e redenzione che, sottoposte all'innaffiatura strumentale degli altri "raccoglitori", hanno modo di dischiudersi in tutta la loro bellezza melodica. A cominciare dall'insinuante Magnolia, nella quale si respira l'aria delle campagne del West Virginia, con pedal steel e hammond ad enfatizzare ulteriormente questa agreste sensazione di spazialità. Burning Sky invece sposta l'asse delle coordinate musicali verso il border messicano, in una sarabanda sonora condotta dallo strascicato spazzolare della batteria, e da una polverosa sei corde elettrica, con la propria corrispettiva acustica a ricamare speziate armonie tex mex. E' tuttavia nei toni dimessi, di più pura estrazione country, che i nostri paiono esprimersi al meglio, grazie ad una vocalità, quella dello stesso Melchin, calda ed espressiva. Quest'ultimi permeano composizioni quali Numb, dove ad una chitarra acustica "tweediana" spetta il compito di tessere un'evocativa linea melodica, resa ancor più avvolgente dall'ottimo interplay tra hammond e violino; o l'accorata Jolene, tutta giocata sull'intreccio acustico tra le corde della medesima chitarra e quelle del mandolino, con sullo sfondo timidi spettri elettrici. Su ben altri ritmi si attesta invece Ditch che, dopo un incipit attendista, si tramuta in un movimentato country'n'grass, nel quale il banjo guadagna le luci delle ribalta, bissando il tutto poco più avanti, nella ruralità old time di Tranquility. Torna a far propri stilemi più classicamente country la slow ballad Sometimes I Just Sits, che pare guardare all'opera del "rossocrinito" countryman texano; proprio quel Willie Nelson con il quale, a livello vocale, il buon Melchin presenta più di un'affinità. Lydia's Lullaby, come evidenziato dallo stesso titolo, è invece una carezzevole ninnananna, costruita su di uno scheletrico impianto strumentale acustico, con solamente due chitarre ad accompagnare la voce di Melchin, sorretta da sparuti contributi corali, e dal flebile scorrere dell'archetto del violino. Come peraltro avviene nel conclusivo, ed intimistico, commiato Cameo, dove il violino viene tuttavia sostituito da una languida pedal steel. E' un piccolo artigiano della canzone country folk Chuck Melchin, e Better The Devil, oltre a mostrarne una volta di più le ottime doti da songwriter, conferma il "Sindacato dei raccoglitori di fagioli" come una ben più che solida realtà. Non vi resta quindi che iscrivervi a questa sigla sindacale e raccogliere così i gustosi frutti coltivati da Melchin e soci.
 

lunedì 8 aprile 2013

Billy Bragg - Tooth and nail

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L’integrità artistica, nonché umana, par oggi essere qualità quanto meno rara, perlopiù in un mercato, quello discografico, dove lo svendersi al miglior offerente è l’unico modo di ottenere un seppur effimero successo. Esula fortunatamente, da quanto poc’anzi affermato, Billy Bragg, artista che sull’integrità ha modellato invece un’intera carriera musicale, tra attivismo politico e impegno civile, ormai quasi trentennale. Anni passati a cantare della e per la gente, unendo ad un impeto al limite del punk, la canzone di protesta d’estrazione folk, sulle orme di un maestro, Woody Guthrie, la ombra sonora da sempre lo accompagna. Un cammino musicale arduo e irto di ostacoli, ma non avaro di gratificazioni; ultima, in ordine di tempo, il progetto cui Mermaid Avenue, che vedeva il bardo di Barking impegnato, in compagnia dei Wilco, a riportare alla luce alcune liriche, proprio del tanto amato Guthrie, rimaste, orfane delle sette note, sepolte in polverosi archivi. Album, quelli nei quali si è cristallizzato il progetto, di enorme valore storico-musicale, tanto nel loro gettare nuova luce sull’opera del cantore di Okemah, quanto nel riappropriarsi di quel caleidoscopico ventaglio sonoro che è la musica statunitense. Un’esperienza quest’ultima che deve aver segnato profondamente il buon Bragg, al punto da spingerlo, nella stesura del nuovo ed autografo Tooth And Nail, a persistere nella medesima direzione. Lontano dalla rabbia battagliera e dai clangori elettrici degli esordi, Bragg pare infatti mettere a nudo la propria anima da folksinger, traendo ispirazione, tra agresti melodie, tanto dalla classica ballata folk, quanto dal country e dal blues. Ad aiutare il nostro troviamo, in cabina di regia, nientemeno che Joe Henry, produttore di comprovata bravura, il quale appronta il consueto parterre de roi di musicisti dove, alla perizia tecnica, alle corde più disparate, di Greg Leisz, si affiancano il tocco delicato sui tasti bianchi e neri di Patrick Warren, e il mai invasivo percuotere della batteria di Jay Bellerose e del basso di David Piltch. Risultato di cotanti apporti strumentali è un tessuto musicale dai toni seppiati, di matrice acustica, letteralmente cucito intorno ad una voce, quella di Billy Bragg, mai così autentica e profonda nel suo cantare delle esperienze accumulate in una vita, vissuta sempre intensamente. Il proprio rapportarsi con la vita stessa, l’amore e la spiritualità, questi gli argomenti che imperniano testi di straordinaria intensità lirica, in un riflessivo scavare all’interno del proprio Io. Vedono così la luce brani di adamantina bellezza come il raccoglimento folkie di January Song, la placida slow country ballad Chasing Rainbows, fino alla dimessa melanconia di Goodbye, Goodbye. Al centro della narrazione vi è quel folk da sempre ideale veicolo sonoro attraverso il quale esprimere sentimenti e frustrazioni, come avviene nella spirituale Do Unto Others, sorta di personale reinterpretazione biblica in chiave ragtime, o nel lento ciondolare di una Handyman Blues al limite dell’ironia. Pregevoli poi i contributi testuali portati in dono da Joe Henry, tanto nel livido languore di Over You, con un Leisz a dir poco magistrale nel far scorrere il proprio bottleneck, quanto nello splendore melodico di una Your Name On My Tongue, a metà strada proprio tra la Mermaid Avenue e il Van Morrison delle “settimane astrali”. Una grazia sonora che accompagna anche una rilettura, con il cuore in mano, di I Ain’t Got No Home, uno dei brani più toccanti, quanto purtroppo di ancor tremenda attualità, tra quelli partoriti dalla penna di Woody Guthrie, del quale Bragg si conferma come il più valido erede. Se No One Knows Nothing Anymore, è un puro esercizio in stile Americana, con un’apertura nel finale verso rarefazioni cosmic country; sprazzi del passato combattente, perlomeno a livello sonoro, sembrano invece riaffiorare nella compattezza ritmica, venata da minimali sprazzi elettrici, di There Will Be A Reckoning, per poi tornare a stemperarsi nei toni smorzati di un, seppur ottimistico, commiato, affidato ad una Tomorrow’s Going To Be A Better Day, con tanto di spensierato fischiettio. Nel pieno della propria maturità Billy Bragg pare volersi mostrare per ciò che è veramente, un uomo nella sua più disarmante semplicità; il quale ha forse accantonato la propria irruenza combattiva, ma la cui anima è tuttavia ancor illuminata da una luce, quella della speranza, mai sopita; perché, nonostante tutto, “domani sarà un giorno migliore”.

mercoledì 3 aprile 2013

Intervista a Viva Lion!

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Abbiamo incontrato Daniele Cardinale per parlare della sua opera prima, “The Green Dot", capace di racchiudere, in sole cinque canzoni, l’intero universo sonoro di un’artista tutto da scoprire.

A leggere la tua biografia hai avuto un passato da indie rocker, quando è avvenuta la “folgorazione sulla via del folk”?

Nessuna folgorazione, direi piuttosto una grande influenza da alcuni side projects di indie rocker, di artisti che provengono dalle scene emo, punk e hardcore nordamericane. La folgorazione, se vuoi, è avvenuta in Canada.

C’è qualche artista, o album, in particolare, che ti ha influenzato o ha aiutato a far emergere la tua anima da folksinger?

Ce ne sono molti, e non tutti provengono dal folk. “Harvest” di Neil Young, “Killed or Cured” di The New Amsterdams, “Bring Me Your Love” di City and Colour. The Weakerthans, Grey Kingdom, Bon Iver, Sunparlour Players e mille altri.

”The Green Dot” è un concept su di una relazione, a distanza per la precisione, come è nata e si è sviluppata quest’ idea?

Vita vissuta. Ero tornato a vivere a Roma e stavo con una ragazza di Los Angeles. Facevamo avanti e indietro e le scrivevo canzoni che parlavano di noi, 4 sono diventate quello che ora è “The Green Dot” Ep, il punto verde, quello della webcam del mio MacBook.

Fin dallo stesso titolo sono inoltre evidenti i rimandi computeristici. Che rapporto hai, sia come persona che come musicista, con quest’ultimo e con la tecnologia in generale?

Non sono un freak della tecnologia ma andiamo molto d’accordo. Uso costantemente il mio laptop soprattutto per comunicare con il Nordamerica e gli amici ormai sparsi in tutto il mondo. Più tecnologia c’è, meglio è. Sempre che sia l’essere umano a gestirli e che siano a servizio del bene comune.

Quello che doveva essere un EP “solitario” si è tuttavia evoluto in un lavoro collettivo grazie anche alla presenza di una “famiglia allargata” di musicisti. È stata una scelta ponderata o figlia delle circostanze?

È stata una scelta naturale: ho sempre pensato che condividere sia meglio che competere. Roads Collide, Gipsy Rufina, Megan Pfefferkorn, i Velvet e tutti gli altri sono, o sono diventati, ottimi amici.

Tra gli ospiti presenti spicca per bellezza il contributo di Megan Pfefferkorn in Goodmorning/Goodnight, come siete arrivati a questa collaborazione?

Ho conosciuto Megan a Settembre dell’anno scorso in California, quando sono andato a suonare insieme a Claudio Falconi dei Grannies Club, ormai parte integrante di Viva Lion!. Abbiamo suonato insieme all’House of Blues di Los Angeles e al Joshua Tree Park, e da subito si è creata grande sintonia. E’ bravissima e ha grande talento. Io e Claudio abbiamo suonato anche una sua canzone e credo che collaboreremo con lei ancora in vista del full album.

Decisamente bizzarra è la scelta di inserire una rivisitazione di Footloose: che tipo di approccio utilizzi solitamente con la materia sonora altrui?

Mi piace moltissimo stravolgere canzoni, riarrangiare in chiave acustica ad esempio Blietzkrieg Bop dei Ramones o 99 problems di Jay-Z (che suoniamo dal vivo nella versione country di Hugo). E mi piace chi lo fa, dalle versioni punk delle hit pop americane alla versione di Julia Stone di Bloodbuzz Ohio dei The National. Ma non ho risposto alla tua domanda, mi son fatto prendere dall’entusiasmo. L’approccio è stravolgere e dimostrare che arrangiamenti completamente diversi di una canzone producono risultati altrettanto validi.

Colpisce l’assenza di una vera e propria batteria o di percussioni per così dire convenzionali, pur essendo ben percettibile un sottile substrato ritmico. Ci puoi parlare di questo “sperimentalismo percussivo”?

Abbiamo utilizzato il corpo umano e il legno del pavimento dello studio. Mani, piedi, buste, oggetti trovati in studio, un po’ per mantenere il mood acustico, un po’ perché non c’è un batterista in Viva Lion!

Hai vissuto in Canada e hai tenuto concerti anche negli Stati Uniti; hai notato un diverso modo, da parte del pubblico, di rapportarsi alla tua musica rispetto ad un’audience italiana?

Negli Stati Uniti ho riscontrato più partecipazione. Ho notato, ma parlo della California, una certa predisposizione al divertimento, a partecipare. I canadesi sono molto ‘quiet’, tranquilli.

Progetti per il futuro? Dal vivo continuerà il sodalizio con Claudio Falconi o opterai per una dimensione solitaria?

Progetti: ho iniziato a lavorare al full album e stanno arrivando nuovi concerti in Italia. Claudio vive a Los Angeles da due mesi e ci resterà per un bel po’. Suoneremo insieme a Giugno in California e Colorado, mentre in Italia lo ha sostituito Marco Lo Forti degli Autoreverse. A volte invece suono da solo.

(La foto di Daniele Cardinale aka Viva Lion! è di Stefano Delìa)