giovedì 18 aprile 2013

Iron and Wine - Ghost on ghost


Capita a volte di ritrovarsi con vecchi amici, persi di vista da tempo, e stentare, vuoi per le primavere trascorse per entrambi, vuoi per i segni lasciati da quest’ultime, a riconoscersi. Questa medesima sensazione, il sottoscritto, l’ha provata nel rincontrare, perlomeno musicalmente, il “vecchio” Samuel Beam. Ben lontano dai sapori agresti del folk degli esordi, il barbuto cantautore della Carolina del Sud, si era infatti presentato in un’inedita veste sonora con lo spiazzante Kiss Each Other Clean. La bassa fedeltà che ne aveva contraddistinto fino a quel momento la produzione artistica era stata soppiantata da un freak funk di matrice futurista, diventato vero e proprio centro nevralgico del modus operandi del nostro. Ma quanti pensavano potesse trattarsi solamente di un episodio isolato, o quantomeno di una sperimentazione effimera, dovranno oggi ricredersi. Più che una divagazione
passeggera dagli abituali sentieri bucolici, il precedente album può essere considerato, tutt’al più alla luce dell’odierno parto discografico, come un punto di svolta nell’avventura musicale a nome Iron And Wine. Un’opera, Ghost On Ghost, ancor più solenne ed elegante; un nuovo caleidoscopico arricchimento delle partiture beamiane, mai forse così pregne di iridescenti colori sonici, tra melliflue divagazioni in chiave jazzy ed assolati effluvi californiani, in una personale rivisitazione del pop orchestrale marchiato Van Dyke Parks. Fanno bella mostra di sé arrangiamenti multiformi, complessi nel loro sviluppo armonico, ma senza tuttavia mai peccare di pomposità, mantenendo tutt’altro al centro della propria narrazione musicale una ricerca melodica di rara purezza. Sotto la sapiente supervisione dell’ormai fidato Brian Deck, ed supportato da uno stuolo di musicisti impeccabili, il songwriting beamiano, libero da vincoli tematici, si cristallizza in piccole gemme d’adamantino splendore. A cominciare dalla solare apertura di Caught In The Briars, con la sezione fiati a soffiare gentile, prima di un’orgiastica sarabanda finale guidata dal pianoforte. Fiati che ritroviamo tanto nel sincopato muoversi di Low Light Buddy Of Mine, quanto nella policromia jazzy di Lover’s Revolution, con Beam nelle inedite vesti del crooner. Una voce quella del nostro che guadagna ulteriormente in espressività e duttilità, mostrandosi in tutta la propria grazia interpretativa tanto nell’estatico ondeggiare di Grass Widows, quanto nella poeticità invernale di una deliziosa Winter Prayers. Piccoli dipinti dalle tenui tinte pop sono invece The Desert Babbler e Joy, la cui malia risiede nell’aereo intrecciarsi di flebili vocalizzi. Un’incresparsi vocale che caratterizza anche il caracollante sbuffare di Grace For Saints And Gamblers, così come la conclusiva Baby Center Stage, magistrale esempio di dilatazione cosmic country. Il tempo ne avrà pur modificato le “fattezze musicali”, ma il buon Samuel Beam rimane sempre un caro vecchio amico capace, ad ogni nuovo incontro, di incantare con le proprie suggestive storie in musica.

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