venerdì 30 dicembre 2011

AA.VV. - Generazioni, un omaggio al Santo Niente

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se gli Stati Uniti, così come la Gran Bretagna, in passato hanno visto la nascita di personaggi capaci, con la propria opera, di influenzare intere generazioni di musicisti, anche l’Italia non è certo rimasta a guardare, tutt’altro. Soprattutto il panorama rock nostrano, nelle sue più svariate sfaccettature, ha visto l’alternarsi di entità in grado di attrarre alla propria fonte musicale innumerevoli discepoli, tracciando così la via per lo sviluppo delle più varie correnti sonore. A questo ristretto gruppo di capiscuola vanno ascritti di diritto, nonostante la loro seppur breve vita discografica, Il Santo Niente, creatura partorita dalla mente di Umberto Palazzo, tra i più venerati profeti del post-punk made in Italy. Una discografia la loro composta da tre album, dei quali Il Fiore dell’Agave rimane ad oggi l’apice creativo, e due EP, dal peso specifico indubbiamente notevole. Proprio all’estro di Palazzo, è rivolto questo omaggio, tributato dalla crème de la crème del rock alternativo nostrano. Tributo fortemente voluto da Marco Gargiulo, giovanissimo timoniere della Mag-Music che, con la collaborazione della Disco Dada Records, ha approntato un album strutturato con criterio e cognizione di causa. Simona Gretchen & La mela e Newton, Giorgio Canali & Rossofuoco, Zippo, Spiral69, Motel 20099, Devocka, sono solo alcune delle band chiamate a rendere il proprio omaggio alla musica de Il Santo Niente, cercando allo stesso tempo di infondere in essa i propri stilemi sonori, con un occhio e un orecchio alla versioni primigenie. Inizio in grande stile con la ripresa di Junkie ad opera di Simona Gretchen, accompagnata da La mela e Newton, la quale tinge di sfumature dark il brano originale, con le voci femminili a rendere il tutto ancora più suadente e sensuale. Ottimo come sempre Giorgio Canali che, con l’aiuto dei suoi fidi Rossofuoco, rilegge da par suo Luna Viola, smussandone in parte i primitivi spigoli sonori, per una versione dall’alto tasso emotivo. Gli Zippo, dal canto loro, ripercorrono filologicamente il pentagramma di Cuore di Puttana, costruendo una sorta di ponte musicale tra la vecchia e la nuova formazione de Il Santo Niente, della quale Tonino Bosco e Federico Sergente, rispettivamente basso e batteria degli stessi Zippo, fanno ora parte. Ogni singola interpretazione meriterebbe tuttavia di essere menzionata, sia per quanto riguarda l’originalità dell’esecuzione, sia per la capacità espressa dai singoli musicisti di rimandare al contempo alle atmosfere delle opere originali. Degne di nota sono senza dubbio l’energetiche reinterpretazioni di Generazioni e Maelstrom, ad opera rispettivamente di Veracrash e Devocka, così come il trattamento elettronico riservato dagli Spiral69 ad Elvira, trasposta per l’occasione in inglese. I Motel 20099 si divertono invece a riproporre, in chiave indie-rock e con ottimi risultati, Angelo Nero. Questo Generazioni rappresenta un’ideale summa artistica dell’opera de Il Santo Niente, riletta attraverso gli strumenti di una folta schiera di adepti, mossi da una fede viscerale nei propri maestri sonici. Un eccellente punto di partenza, pertanto, per i neofiti della musica di Umberto Palazzo, nonché un piacevole divertissement per coloro che già masticano da tempo la musica della band.

lunedì 19 dicembre 2011

Gionata Mirai - Allusioni

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Coraggioso, questo è il primo aggettivo che viene spontaneo associare ad Allusioni, piccola gemma sonora a nome Gionata Mirai. Il leader dei Super Elastic Bubble Plastic, nonché chitarrista del Teatro degli Orrori, ha infatti confezionato un album, che rappresenta un profondo e netto taglio con quanto fatto in passato. Abbandonando le sonorità dei suoi progetti principali, il nostro ha portato avanti una propria intima ricerca sonora, effettuata con la sola compagnia della propria fedele dodici corde.
Risultato di questa esplorazione musicale interiore è appunto Allusioni che, nella sua seppur breve durata, riesce a condensare al suo interno molteplici influenze, in un caleidoscopico viaggio acustico tra le sonorità e le emozioni più diverse. Prendendo infatti spunto da opere di visionari quanto geniali chitarristi come John Fahey, solo per citare il più rappresentativo, Mirai ci accompagna in un excursus musicale tra aerei arrangiamenti, sinuosi esercizi di fingerpicking e plumbee inflessioni acustiche. L’estro faheyiano è solo il punto di partenza per digressioni sonore verso melodie richiamanti opere di artisti come Bert Jansch o l’Incredible String Band, nonché le bucoliche atmosfere folk delle quali esse sono intrise. C’è spazio anche per sonorità più cupe e claustrofobiche, che tendono tuttavia ad aprirsi verso eterei arpeggi quasi barocchi. Ciò che colpisce è la bravura tecnica di Mirai sul proprio strumento, tanto da farlo diventare parte integrante del proprio sé, nonché sua unica e profonda voce musicale, attraverso la quale canalizzare un alquanto ispirato songwriting.
E’ un disco sicuramente non immediato Allusioni, oltre che atipico all’interno della scena musicale italiana, ma proprio per questo rappresenta una splendida quanto gradita sorpresa. Citando le parole dello stesso Mirai, poste in copertina; “Forse vale la pena esserci (e aggiunge il sottoscritto, ascoltare con attenzione) anche solo per vedere come va a finire”.

giovedì 15 dicembre 2011

Laura Marling - A creature I don't know

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Ci sono ben pochi esordienti in grado di suscitare un tale scalpore come avvenuto per il debutto di Laura Marling, Alas I Cannot Swim. La giovane musicista, allora solo 18enne, fu infatti capace di conquistare immediatamente critica e pubblico, complice un album dalla bellezza adamantina, emanante arie antiche, provenienti direttamente dalla tradizione musicale britannica. Un lavoro che mostrava una cantautrice già matura, dal talento compositivo cristallino, tanto da ispirare parallelismi con veri e propri giganti del folk albionico come Sandy Denny e Nick Drake. A molti l’altisonante paragone potrebbe risultare fuori luogo, ma è invece proprio dai solchi tracciati da questi ultimi che la Marling si muove, andandosi ad inserire di diritto tra i maggiori esponenti della scena folk revival britannica. Il secondo album in studio, I Speak Because I Can, dimostrava una volta di più che la Nostra non era un fuoco di paglia, bensì una splendida realtà. Un talento in crescita esponenziale, come peraltro confermato da A Creature I Don’t Know, sua ultima e affascinante creatura discografica. Un album dai toni tenui e soffusi, intriso di liricità folk, del quale elementi portanti sono la voce e la chitarra acustica della Marling. Ad accompagnare la cantautrice, troviamo dietro al banco di regia niente meno che Ethan Johns (produttore in passato per artisti del calibro di Ryan Adams e Ray LaMontagne), che cuce addosso alle canzoni suadenti e avvolgenti arrangiamenti. Esempio perfetto di questo lavoro congiunto è l’opener The Muse, folk arcaico dall’andamento swingante, dove la voce e la chitarra della Marling vengono attorniate da una sezione ritmica che suona in punta di piedi alla quale si aggiungono precisi interventi di piano e banjo. Elementi che ritroviamo anche nella successiva I Was Just A Card, che parte in sordina per poi aprirsi in tutta la sua bellezza, grazie anche ad un azzeccato uso degli archi. L’eterea ballata Don’t Ask Me Why è invece una sorta di viaggio attraverso paesaggi musicali tanto cari al folk vecchio stampo, con l’espressiva voce della Marling come guida. Salinas prende invece spunto dalla lettura di una biografia di John Steinbeck, per spostare l’asse musicale verso assolati lidi americani. Soffusa è la toccante Rest In My Bed” che si avvicina alle malinconiche atmosfere di matrice drakeniana. L’intensa My Friend e l’agreste Sophia si mantengono invece nel solco acustico che dalla tradizione musicale britannica arriva sino ai giorni nostri. Semplicemente da brividi è Night After Night, per sola voce e chitarra, capace di incantare dalla prima all’ultima nota. Le vere perle dell’album sono tuttavia The Beast e la conclusiva All My Rage. La prima parte quasi in sordina per poi espandersi in un trascinante crescendo elettrico, mostrandoci un’anima diversa dell’artista, la cui voce in questo frangente sembra rimandare ad una giovane Patti Smith; mentre la seconda tra banjo, violini e percussioni unisce elementi tradizionali con architetture sonore debitrici nei confronti del new folk di gruppi come Mumford and Sons.
Un piccolo capolavoro questo A Creature I Don’t Know, dalla struggente bucolicità e dalle seducenti melodie, che sono sicuro saprà affascinare più di un ascoltatore. Nella perfida Albione continuano a nascere straordinari talenti e Laura Marling è uno di questi.

mercoledì 14 dicembre 2011

The Black Keys - El Camino

C'erano una volta, in uno sperduto paese di nome Akron, due giovani ragazzi; il primo, Dan, dalla sfrenata passione per la musica e per la chitarra in particolare, mentre il secondo, Patrick, un improbabile quanto bizzarro incrocio tra un nerd e Buddy Holly. Ciò che univa questi due ragazzi era un'insana venerazione nei confronti di un bluesman, Junior Kimbrough, tanto da spingerli a formare un duo, nel quale far confluire il ruvido blues di quest'ultimo, con l'urgenza espressiva tipica del garage rock. Registrato un primo demo, trovato in Black Keys un nome pressochè perfetto, e firmato per la mitica Fat Possum, i due cominciarono a portare la loro musica in lungo e in largo per gli Stati Uniti, su di uno scassato ma fedele furgone. Dopo i primi successi di critica e pubblico, il futuro sembrava essere roseo per i nostri, fino a quando non incontrarono sulla loro strada un oscuro personaggio, tal Danger Mouse, il quale ne soggiogò il talento, tramutandoli sì in due affermate rockstar, ma allo stesso tempo privandoli della loro primitiva e grezza anima bluesy. Non aspettatevi tuttavia un finale lieto, non siamo in una fiaba dei fratelli Grimm, qui non vi sono eroi senza macchia o arditi cavalieri capaci di sconfiggere il malvagio Danger Mouse, liberando così il duo dalla sua gabbia dorata. Il perfido produttore mantiene tuttora saldamente nelle proprie mani lo scettro del potere, come peraltro si può evincere dall'ascolto di El Camino, ultima uscita discografica marchiata Black Keys. Con questo nuovo lavoro i nostri eroi si perdono ulteriormente nelle intricate trame del labirinto sonoro ideato dallo stesso Danger Mouse, tra ammiccamenti quasi pop e suoni spesso tronfi e ruffiani. Se l'obiettivo di El Camino era quello di accrescere ulteriormente la fama del duo, bisogna dire che esso assolve degnamente al proprio compito. Tutto pare pensato, studiato, scritto e suonato per poi essere riproposto nelle grandi arene, a cominciare dall'opener e primo singolo Lonely boy. Quest'ultima ha il suo punto di forza in un pressochè irresistibile riff di chitarra nonchè in un refrain killer capace di mietere vittime fin dal primo ascolto. Un deciso cambiamento di sonorità si avverte già con la successiva Dead and gone, che vira verso lidi cari a Joe Strummer e ai suoi Clash, ai quali la chitarra pare ispirarsi, prima che l'intero brano venga rovinato da un irritante uso delle voci. Gold on the ceiling cerca di fondere le atmosfere hard blues degli esordi con squarci psichedelici e sonorità più moderne, in quello che alla fine risulta comunque essere un intrigante pastiche sonoro. Little black submarines pare arrivare dall'esordio solista di Auerbach, e prendendo spunto dalla zeppeliniana Stairway to heaven, ne ricalca l'impianto strumentale, iniziando quasi in sordina, acustica, per poi esplodere nel finale in un elettrico tourbillon sonoro. I vecchi Black Keys tornano nuovamente a fare capolino in Money maker, sporco ed incalzante garage rock, materia nella quale i nostri dimostrano ancora di saper eccellere, come peraltro ribadito dalla successiva Run right back, seppur penalizzata da ulteriori iniezioni moderniste. Hell of a season riprende in parte le sonorità di Lonely boy senza però possedere l'appeal di quest'ultima. Definire oscene Sister e Stop stop sarebbe far loro un complimento; la prima un hard funk senza capo nè coda, mentre la seconda è da ascrivere tra i brani più insulsi ascoltati quest'anno, complice anche un ritornello che sfocia verso certa faciloneria pop. Nova baby ha un che di strokesiano, rubacchiando a piene mani dal catalogo musicale di Casablancas e soci, risultando alla fin fine piacevole e poco più. La conclusiva Mind eraser nulla aggiunge e nulla toglie all'economia dell'album; un onesto e robusto rock dalle reminescenze blues, senza infamia nè lode. Quello che balza subito all'orecchio, dopo l'ascolto dell'intero disco, è tuttavia un generale appiattimento musicale, una banalizzazione della formula sonora che da sempre aveva caratterizzato l'opera del duo di Akron. Vittime sacrificali sono senza dubbio la voce e la chitarra di Auerbach, mai come in quest'occasione addomesticate, svuotate e tenute quasi a freno; così come l'operato dietro ai tamburi di Carney, il cui drumming tanto furioso quanto originale pare essere solo un lontano ricordo, sostituito da un insipido e scontato accompagnamento ritmico. Gran parte della colpa è, a mio avviso, da ascrivere all'operato, dietro al banco di regia, di Danger Mouse, il quale è riuscito ancora una volta a deturpare quello che potenzialmente poteva essere un disco più che discreto, seppur privo del carattere e della personalità dei primi lavori. Speriamo almeno che on stage i nostri riescano a far riemergere la loro primordiale e infuocata anima blues, da veri animali da palcoscenico quali sono. Sono comunque certo che El Camino saprà mietere consensi sia di critica che di pubblico, come peraltro testimoniato dal sold out dell'unica data italiana del duo. A chi scrive piace, malgrado ciò, ritornare con la mente agli inizi della favola del duo di Akron, quando i nostri erano ancora due giovani e imberbi ragazzi della profonda provincia americana, che giravano su di un vecchio furgone con la musica di Junior Kimbrough a tutto volume. E ora scusatemi, ma andrò ad ascoltarmi nuovamente quel piccolo gioiello che era e rimane Thickfreakness.  

lunedì 12 dicembre 2011

Mark W. Lennon - Home of the wheel

(Pubblicato su Rootshighway)

E' proprio vero che spesso le più belle sorprese ce le riservano non nomi blasonati, ma giovani e sconosciuti talenti. A rafforzare ulteriormente questa mia convinzione giunge ora questo Home of the Wheel, opera prima di Mark W. Lennon. Nativo del North Carolina ma trasferitosi a Los Angeles, il nostro è quel che si dice un emerito sconosciuto, uno degli innumerevoli songwriters che affollano il panorama musicale americano, dai quali tuttavia riesce a distinguersi grazie ad una penna alquanto ispirata, già affinata con un precedente EP, Down the Mountain, datato 2009. E' però con questo suo primo full lenght che il cantautore ha la possibilità di mettere in luce tutte le sue qualità, a cominciare da una voce capace di infondere positività anche a composizioni intrise di tristezza e malinconia, alla quale si unisce un'accurata ricerca testuale che, prendendo spunto dalla propria storia familiare, traccia una sorta di ponte letterario tra gli anni della Grande Depressione e i giorni nostri. Arco temporale che viene setacciato anche dal punto di vista sonoro, andando ad attingere a quel vasto calderone musicale che è la musica americana, estrapolandone i tratti distintivi, con i quali comporre un variegato mosaico sonoro. Collante indispensabile per questo fine lavoro di cesellatura è Marvin Etzioni (già membro dei Lone Justice nonché produttore per artisti come Steve Earle e Lucinda Williams), il quale oltre a sedersi dietro al banco della regia, da il proprio contributo suonando mandolino, chitarra e piano. Un mosaico sonoro quello di Lennon che, partendo dal folk guthriano, attinge prima alla fonte del cantautorato dylaniano, per poi assorbire gli umori country del giovane Gram Parsons, fino ad arrivare a inglobare sonorità più prettamente moderniste e tendenti al rock. Prendiamo per esempio l'opener The River Stays the Same o la corale Cold Mountain Steel, le quali sembrano provenire dai solchi del capolavoro dylaniano Desire, complice anche la presenza del violino di Scarlett Rivera, che alla realizzazione di quel disco aveva preso parte. Home of the Wheel si sviluppa su di un parco arrangiamento acustico, lasciando ampia libertà d'espressione alla bella voce del nostro. California calling è invece country fino al midollo e fa sua la lezione impartita da Gram Parsons, con la steel guitar di Bryan Dobbs sugli scudi, e la delicata voce di Sally Jaye ad intrecciarsi con quella di Lennon. Blues Forever (In Your Eyes) entra di diritto tra le migliori ballate ascoltate quest'anno, semplice ma di grande fascino, così come Before the Fall, che ha dalla sua anche un azzeccato refrain. Dai toni più soffusi e scuri è Sad Songs, che partendo da un tappeto sonoro per soli contrabbasso e batteria, si apre nel finale grazie agli interventi di un liquido organo. La pianistica Look for the Walls, conquista per il suo andamento sgangherato, strizzando l'occhio a certe sonorità mainstream, senza però venirne sopraffatta. La tirata These times better, in odore di bluegrass, torna a correre lungo i binari della tradizione musicale americana, così come Paper Doll, per sola chitarra acustica e mandolino, nella quale il lato folkie di Lennon torna ad incantarci. C'è spazio anche per elementi tipicamente rock che vengono fatti confluire nella conclusiva Stop&Go. Un debutto coi fiocchi quindi, che lascia ben sperare per il futuro di un songwriter, del quale sono sicuro sentiremo ancora parlare.