martedì 30 luglio 2013

Rose Windows - The sun dogs

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Immaginate una folle jam tra una giovane Grace Slick e i Doors, orfani di Jim Morrison, affiancati, alternativamente, tanto dalla divinatoria forza evocativa di Ravi Shankar, quanto dal rifferama, d’esoterica ruvidità blues, di un Tony Iommi, in libera uscita sabbathiana; ecco, questo è pressappoco quanto troverete contenuto in The Sun Dogs. No, non si tratta di qualche perduto bootleg, ritrovato miracolosamente solo oggi, e recante la testimonianza di un incontro sonoro tra i suddetti, magari sul palco del Fillmore di San Francisco; bensì dell’opera prima dei Rose Windows, combo proveniente, nientemeno, che dalla fu capitale del grunge, Seattle. Un debutto, quello del settetto, che scombussola letteralmente ogni coordinata spazio-temporale, fluttuando in una sorta di atemporalità sonica, nella quale sonorità rock blues di derivazione Seventies, si intrecciano a trame d’acusticità folk, con barlumi melodici, provenienti dall’Estremo Oriente, tra l’antica Persia e l’India, ad irradiare fluorescenze esotiche sullo sfondo. Un’idea sonica, quella alla base dello stesso album, che ha come proprio primario obiettivo, per l’appunto, di viaggiare pentagrammaticamente nel passato, estrapolando suoni, armonie e battiti percussivi, per plasmare poi il tutto in una nuova e vitale forma sonora. A coadiuvare i nostri in questo loro “acid trip”, troviamo in veste di produttori Boris (Earth, Master Musicians Of Bukkake) e Randall Dunn, già impegnato in passato con i Sunn O))), la cui passione per l’antropologismo sonoro ha aperto al gruppo territori d’inesplorata etnicità. Deus ex machina del progetto è il chitarrista Chris Cheveyo, con un passato da post rocker, ed autore di tutte le composizioni qui contenute. Un progetto che ha trovato tuttavia la quadratura del proprio cerchio psichedelico grazie alla voce di Rabia Shaheen Qazi, novella Grace Slick, d’orientale genealogia. Attorno a queste due “figure cardine” si accentra, creando un amalgama di sonica trascendenza, l’apporto strumentale del resto del combo. Un fondere arcaico e moderno, alla ricerca di una luce perduta, che si mostra, nel pieno del suo fascino, nell’estasi sciamanica dell’iniziale The Sun Dogs I: Spirit Modules. E se in Native Dreams sembra di ascoltare i primigeni Black Sabbath di ritorno da un viaggio di ricerca spirituale in India, nello splendore acido della ballata bluesy Walkin’ With A Woman, l’aeroplano jeffersoniano torna a volare a libero in caleidoscopici cieli lisergici. Non solo d’elettricità si nutre però la musica dei nostri, come dimostra la malia folkie di una Season Of Serpents, dove tra arpeggi acustici e soavi trame orchestrali, si respira l’aria del Laurel Canyon. Anello di congiunzione tra trance psichedelica doorsiana ed immaginifiche melodie orientali è invece il raga rock This Shroud, prima che il tutto si stemperi nella conclusiva The Sun Dogs II: Coda, abbacinante raggio di nuova luce folk. Un album, The Sun Dogs, il quale abbisogna di una mentalità musicalmente aperta per essere capito, nonché assaporato nel pieno della sua sublime, quanto straniante bellezza. Pertanto…open your mind and have a nice trip!

ThreeLakes and the Flatland Eagles - Uncle T EP

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Nel periodo di maggior formazione psico-fisica dell’essere umano, comunemente denominato infanzia, è necessaria, se non addirittura fondamentale, la presenza di una figura genitoriale, o quantomeno parentale, capace, attraverso i più diversi input sensoriali, di influenzare nel profondo il lento cammino verso la maturità. Un’influenza che può essere esercitata anche, e soprattutto, attraverso la musica, la cui transgenerazionalità ne è da sempre una delle caratteristiche peculiari. Musica, racchiusa spesso tra i solchi di polverosi e vecchi album, che appunto un padre, o il più delle volte uno zio, consegnano in dote quali sorta di sacre reliquie, e il cui estatico ascolto può provocare l’apertura di pertugi verso mondi sonori prima del tutto sconosciuti. E proprio a questi “illuminati” parenti, e in particolare modo alla figura di un ipotetico ed ideale zio, è dedicato   Uncle T, nuovo Ep a nome ThreeLakes, ragione sociale dietro la quale si cela il folksinger mantovano Luca Righi. Messosi in luce precedentemente con un altro Ep, Four Days, registrato in solitaria, il nostro pare oggi abbandonare le passate velleità autartiche riprendendo, proprio dal poc’anzi menzionato extended play, tre brani, rimodellandone, per l’occasione, fattezze e architetture soniche, grazie anche all’attivo contributo delle “Aquile delle Terre Basse”, ovvero Andrea Sologni, Raffaele Marchetti e Lorenzo Cattalani. A rimaner tuttavia ben presente è una marcata matrice alternative folk, tra Mumford and Sons e Decemberists, oggi ulteriormente acuita dal lavorio strumentale dei tre nuovi compagni, teso ad arricchire l’originaria e sparuta, tavolozza sonora con nuove caleidoscopiche tonalità. Traggono giovamento da questo “trattamento” le tre vecchie composizioni, che paiono qui, nel loro dipanarsi tra arcaico e moderno, rinascere a nuova vita. Ne è un più che ottimo esempio The Accordion Player, posta in apertura, sublime nel suo fondere arie acustiche e chiaroscuri d’ascendenza indie folk, dove, su di un misurato intreccio tra corde acustiche ed elettriche, la voce di Righi spicca per malinconica intensità. Il battere palpitante di basso e batteria si erge invece a guida sonica in Gold, tra scuro splendore melodico e straziante poeticità testuale, mentre la conclusiva The Summer I Was Born, vuoi per il magniloquente crescendo ritmico, possiede un ‘impronta quasi mumfordiana, ulteriore segnale di come le nuove sementi soniche abbiano trovato terreno fertile fra i righi dei pentagrammi marchiati ThreeLakes. Aspettando l’uscita di un vero e proprio full lenght, prevista per l’autunno prossimo, Uncle T è senza dubbio una suggestiva istantanea, particolarmente a fuoco, di un progetto in costante crescita qualitativa.

giovedì 18 luglio 2013

Robinson Treacher - Porches

(Pubblicato su Rootshighway)

Nativo dello stato di New York, Robinson Treacher fin dai suoi primi passi nel mondo discografico - prima come frontman del combo soul rock Delaware Hudson, passando per collaborazioni in odore di alternative country con i Tensleep, fino alla pubblicazione di Chrome, suo primo vagito solitario - ha sempre utilizzato la propria musica quale ideale canale attraverso cui veicolare il proprio stato interiore, in un'intensità emotiva avvertibile sin da un primo ascolto. Se il debutto a proprio nome, il suddetto Chrome per l'appunto, mostrava un songwriting ancora tuttavia acerbo, oscillante in egual misura tra blues, soul e Americana, con il nuovo Porches il nostro acuisce maggiormente l'aspetto emozionale intrinseco alla propria musica, scarnificandone ancor più le architetture sonore, eliminando inutili orpelli ed arrangiamenti tronfi che avevano in parte penalizzato il suo predecessore. Musica, quella odierna, intimistica nella sua sparuta essenzialità, con la chitarra acustica e, soprattutto, l'espressiva voce di Treacher indiscusse protagoniste, assistite solamente dalle corde di un contrabbasso, o dai misurati interventi di una lapsteel, ai quali vanno ad aggiungersi, saltuariamente, minimali battiti percussivi. Sembra registrato proprio sotto uno dei portici menzionati nel titolo, Porches, in un clima raccolto e familiare, ideale dimensione per mettere a nudo le proprie ansie e i propri sentimenti, riversandole infine su di un pentagramma. Vedono così la luce composizioni d'ampio respiro, quali la soulful Good Mind To Keep You (If You'll Stay), dall'ottimo interplay tra le cadenzate pennate della sei corde acustica e il sincopato percuotere di quelle del contrabbasso, o lo struggimento di una One More Soul dalla carezzevole grazia. E se l'opener Hopali è una rivisitazione di un vecchio spiritual, con il solo sostegno di un coro e il battere ritmico di mani e piedi, in un crescente trasporto emotivo, Long Day, Good Night, si snoda invece, come la speculare Wishin, lungo polverosi sentieri country folk, tra il leggero spazzolare di un rullante e i malinconici disegni melodici di una lapsteel. Sono i toni parchi e sommessi a prevalere, come in This Ain't Life, sospesa tra il soave pizzicare dalle sei corde acustica e una voce dal sussurrato lirismo, o in Can't Call You Again, la cui lievità ricorda il soffiare gentile della brezza primaverile. In Gone Baby Gone, bozzetto acustico d'ascendenza folkie, il nostro cede il proprio posto dietro al microfono ad Anna Perkins, la cui prestazione vocale tuttavia non sfigura affatto in un ipotetico paragone con quelle del titolare. Blind Man's Blues, dall'inizio quasi in sordina, è invece una piacevole divagazione strumentale, in bilico tra country e blues, con Treacher impegnato, con buona padronanza, in un limpido fingerpicking. Un patchwork sonoro, quello contenuto tra i solchi di Porches, capace di coinvolgere l'ascoltatore grazie ad un affascinante minimalismo sonoro, che ne è al contempo tratto distintivo.

mercoledì 10 luglio 2013

Black Crowes @ Dieci Giorni Suonati Around Milano - Alcatraz

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


C’era davvero parecchia attesa per il ritorno in Italia dei Black Crowes, alla luce di una scorsa
esibizione sull’italico suolo, due anni fa in quel di Vigevano, che aveva lasciato con l’amaro in bocca più di un presente. Concerto quest’ultimo penalizzato da una congiunzione “astrale” di fattori negativi, quali una durata più che risicata, un’ora e mezza o poco più, e una stessa band non nella sua forma migliore, reduce da un lungo periodo di lontananza dai palchi. Era pertanto logico che molti fan delusi riponessero non poche aspettative in questa nuova calata italiana; una doppietta che avrebbe visto il combo di Atlanta tornare proprio in quel di Vigevano, nuovamente all’interno della
rassegna Dieci Giorni Suonati, per poi replicare il giorno seguente in terra toscana, in occasione del Pistoia Blues Festival. Un “ritorno sul luogo del delitto”, fortunatamente, scampato, in quanto l’intera rassegna vigevanese ha infine abbandonato la suggestiva cornice del Castello Sforzesco, per essere distribuita in varie location all’interno di Milano. Venue, quella adibita all’esibizione del gruppo americano, è l’Alcatraz, gremito in ogni suo più piccolo pertugio. Gettato l’autan preventivamente acquistato per difendersi dalle terribili zanzare vigevanesi, il vero nuovo nemico era rappresentato dal caldo micidiale che, solitamente, attanaglia in questo periodo una città come Milano, problema tuttavia al quale ha brillantemente ovviato l’impianto di condizionamento dello stesso locale.Con una puntualità a dir poco ineccepibile, alle 20:30 si spengono le luci in sala e il sestetto compare prontamente on stage accolto da un pubblico giubilante. Chris Robinson, camicia con maniche arrotolate e barba incolta, ha sempre più le fattezze di un Rock’n’roll Jesus, messianico portatore di un verbo musicale che ha nella sua voce, capace di scavare l’anima con la propria rochezza quanto di redimerla con estasianti vocalizzi al limite del soul, l’ideale mezzo per “convertire” gli astanti. Dietro di lui la spinta pulsante di una sezione ritmica guidata dalla batteria di Steve Gorman, nerboruto picchiatore d’estrazione bonzoniana, alla quale si affianca il preciso basso di Sven Pipien, mentre quasi defilato, nascosto tra organo e piano, trova posto Adam MacDougall, la cui presenza sonora sarà tuttavia ben avvertibile per tutta la durata del concerto. E se sulla bravura alla sei corde di Rich Robinson non vi è nulla da aggiungere, la vera sorpresa della serata si è alfine rivelato Jackie Greene, recentemente entrato a far parte della famiglia Crowes. Con alle spalle una carriera in proprio e un tour acustico in compagnia di Bob Weir e lo stesso Chris Robinson, il chitarrista californiano ha saputo reggere brillantemente il confronto con illustri predecessori quali Marc Ford e Luther Dickinson, contribuendo magistralmente all’economia sonica corviana, tra muscolari riff di grana rock blues e immaginifici barlumi solisti. Neanche il tempo di imbracciare gli strumenti che i nostri mandano letteralmente in delirio l’audience con una cinquina iniziale a dir poco da cardiopalma, a cominciare dalla consueta scarica adrenalinica di una Jealous Again accolta da un vero e proprio boato, passando per il rock’n’roll sporco e stradaiolo di Thick’n’Thin, per riesumare infine gli umori sudisti che trasudavano dal loro, secondo, meraviglioso album, The Southern Harmony And Musical Companion, con una serrata Hotel Illness, ed una torrida Black Moon Creeping, che si tinge nel finale della sacralità di un inno congregazionale. La dolente leggiadria di Bad Luck Blue Eyes Goodbye stempera la tensione rockista accumulatasi fino ad ora, in un vibrante crescendo emozionale, attorno alla sofferta interpretazione vocale robinsoniana. Medicated Goo, estratta dal songbook degli amati, e spesso rivisitati, Traffic, è invece ideale preludio ad una corale Soul Singing, assurto a vero e proprio inno hippie rock, con la platea impegnata in un collettivo singalong. Una dilatata Wiser Time mantiene intatto il proprio ruolo di nevralgico centro sonico dal quale prendono vita le velleità improvvisative del sestetto, in digressioni strumentali capaci di travalicare confini spazio temporali, tanto che chiudendo gli occhi ci si ritrova, come per incanto, in quel di Watkins Glen, anno di grazia 1973, dove sul palco stanno incrociando i propri strumenti, in un’infinita jam in bilico tra psichedelia, blues e Americana, la Band, i Grateful Dead e la Allman Brothers Band. Un calderone sonoro che trova in Chris Robinson un istrionico maestro di cerimonie, impegnato, quando non presta alla causa la propria ugola, a “dirigere” i suoi compagni con enfatici gesti. In un profluvio ininterrotto di interventi solistici, brillano per limpidezza di tocco e forza evocativa, proprio quelli di Jackie Greene, in questo frangente quasi un novello Dickey Betts. Elettricità senza freni che cede tuttavia la scena ad un intermezzo acustico con una She Talks To Angels, dalla cristallina bellezza, ulteriormente valorizzata dagli interventi al mandolino dello stesso Greene, alla quale fa seguito Whoa Mule, la cui scarna tessitura sonora, tra il tribale battere dello djembèe di Gorman e l’intrecciarsi armonico delle voci, possiede l’estatico incanto di un antico spiritual. Nuove aperture alla jam caratterizzano invece Thorn In My Pride dove, in un saliscendi armonico e ritmico, assistiamo ad un caleidoscopico fluire di assoli, con l’armonica di Chris Robinson e l’insinuante organo di MacDougall a ritagliarsi il proprio spazio, prima di ritornare a rutilanti fiammate rock’n’soul con una Remedy punto inamovibile delle recenti set list. Chiude le danze il furioso medley tra il rovente r’n’b reddighiano Hard To Handle e l’accattivante refrain di Hush, frutto della penna di Joe South, con il quale i nostri salutano una platea a dir poco festante. E se il set “regolare” si è chiuso con la rivisitazione di brani altrui, anche l’encore si apre, come ormai tradizione, con un reprise, ovvero una toccante rilettura della stonesiana No Expectations, dove il mandolino di Greene e la chitarra acustica di Chris Robinson trovano un malinconico contraltare nel sofferente scorrere del bottleneck di Rich Robinson; per poi porre definitivamente fine alle “ostilità” con il lisergico e sognante mantra Moving On Down The Line. Due ore di musica eccelsa, tra blues, soul, rock e Americana, forgiata da sei musicisti la cui bravura è pari solo all’affiatamento mostrato sul palco; una serata pressoché perfetta, a testimonianza di come i “Corvi Neri”, dopo un periodo di buio smarrimento, siano tornati a volare, liberi e selvaggi, ad altitudini musicali difficilmente raggiungibili da altre band ad essi contemporanee.


SETLIST:

Jealous Again
Thick’n’Thin
Hotel Illness
Black Moon Creeping
Bad Luck Blue Eyes Goodbye
Medicated Goo
Soul Singing
Wiser Time
She Talks To Angels
Whoa Mule
Thorn In My Pride
Remedy
Hard To Handle / Hush

ENCORE
No Expectations
Moving On Down The Line

giovedì 4 luglio 2013

Rekkiabilly - Banana Split

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Per preparare un’ottima banana split occorrono nell’ordine; l’oblungo frutto ovviamente, abbondanti dosi di gelato dei più variegati sapori, alcune cucchiate di panna fresca e come guarnizione scaglie di cioccolato o di mandorle, a piacimento. Si ottiene in tal modo un dessert tanto gustoso quanto rinfrescante, proprio come la musica dei Rekkiabilly. Il combo pugliese appronta, per questa sua seconda fatica discografica, denominata appunto Banana Split, una trasposizione in musica del celeberrimo dolce d’origine statunitense, pur senza rinunciare ad un pizzico d’italianità. Un’ampia gamma d’ingredienti sonori, dalla surf music al rockabilly, dal country allo swing, vengono miscelati nelle giuste dosi per creare una stuzzicante base musicale guarnita infine da un tessuto lirico nell’italico idioma. L’album si apre tuttavia con una riproposizione dello strumentale
Six By Six, di Earl Van Dyke, fulgido esempio dell’era , e del suono, Motown, che i nostri qui rinvigoriscono e attualizzano, rielaborandolo in una sorta di ideale biglietto da visita sonico. Sembra invece di ritrovarsi di fronte ad uno resuscitato Fred Buscaglione nella successiva L’Astronauta, con quest’ultimo impegnato in una delirante jam con l’orchestra di Roy Paci, tra torrido soffiare mariachi, una sei corde elettrica d’estrazione rockabilly, ed una sezione ritmica che pulsa inarrestabile. Proprio a quella del mai troppo compianto “duro” torinese assomiglia, a livello timbrico, la voce di Dario Mattoni, chitarrista nonché frontman del quintetto, come traspare dalla medesima title track, che puzza di alcool, sigarette e vetusto swing anni ’50, o da una Lulù Swing nella quale il genere menzionato dallo stesso titolo si apre verso notturne atmosfere jazzate. Notte, Notte, Notte, a metà strada tra Louis Prima e i Ladri di Biciclette, racconta invece, con l’apporto ritmico del piano dell’ospite Pierpaolo Vitale, della voglia di far tardi dei musicisti, quasi una condanna. Altrettanto frenetica, tra fulminei stacchi e ripartenze, è il country’n’roll di Mezzanotte di Fuoco, mentre il lato più introspettivo della musica dei nostri emerge nella quasi noir Il Compare, tra insinuanti interventi fiatistici e una sezione ritmica dalla fumosa percussività. E se La Pensione è un nuovo, mosso, episodio in salsa surf-rockabilly, tra gioiosità musicale e lirismo quasi impegnato, in Questo è il Rock’n’Roll, assistiamo ad una divertente disamina del vivere suonando un genere del quale, parecchi anni or sono, un ragazzotto di Tupelo fu incoronato re. Il commiato è affidato infine ad una trasposizione in italiano di Burn Toast And Black Coffee, dal songbook di Mike Pedicin, diventata per l’occasione Toast E Caffè Arrosto, con la tromba di Rudy Latorre e il sax di Lidia Bitetti a guadagnare prepotentemente il centro della scena. Non pigiate tuttavia il tasto stop una volta concluso il brano, in quanto alla fine del minutaggio “convenzionale” ha inizio un divertissement strumentale emblematico dello shakeraggio musicale del combo barese, un ibrido tra funk e swing tutto da ascoltare. Una Banana Split d’italica fattura quella preparata dai Rekkiabilly che, per freschezza e bontà, non nulla d’invidiare a quelle servite ancor oggi oltreoceano.

martedì 2 luglio 2013

Ugo Gangheri & Nomadia - L'ammore e l'arraggia

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Sedici affermazioni senza alcuna paura né pudore, sedici disperazioni accolte a braccia aperte, sedici frontiere abbattute; sedici come i piccoli ceselli melodici che vanno a comporre L’Ammore e l’Arraggia, secondo album del cantautore napoletano Ugo Gangheri, ed ideale prosieguo del suo esordio, datato 2009. Se infatti la sua opera prima, Ccà Nun Ce Stanno Liune, era stata pubblicata in sostegno di un progetto di Amref, anche per questa sua nuova fatica Gangheri dona la propria, feconda, penna in favore della medesima associazione umanitaria; unitasi per l’occasione ad Amnesty International, in una campagna di sensibilizzazione legata alla maternità e alle sue problematiche nei paesi più sottosviluppati del mondo. Campagna alla quale andranno interamente devoluti i proventi ricavati dalle vendite dello stesso album, a rimarcare ulteriormente le radici benefiche del progetto. Un album pregno di una musicalità dal mediterraneo incanto, ruotante intorno, come si evince sin dal titolo, a due sentimenti apparentemente in antitesi tra loro, quali l’amore e la rabbia, in questo frangente tuttavia fulcri emotivi intorno ai quali si muovono i sedici episodi sonici partoriti da Gangheri. Accompagnato dai fidi Nomadia, il nostro tesse calde e sinuose melodie, facendo ricorso, dal punto di vista lirico, al proprio “lessico quotidiano”, ovvero quel dialetto napoletano, strettamente legato alla sua scrittura musicale. Scrittura che si dimostra quanto mai ispirata, tanto nel suo dar vita ad una mirabile sintesi tra classica acusticità cantatutorale, d’ascendenza folk, e parche quanto mai invasive incursioni sintetiche, quanto nell’attualizzare sonorità da sempre permeanti la città partenopea, dando vita ad una nuova ed interessante concezione di cantautorato napoletano. E’ l’introspezione a prevalere, con esili arrangiamenti acustici ad avvolgere l’espressiva voce di Gangheri, pur tuttavia non mancando momenti di più variegata ed intrigante movimentazione sonora. A suggello di un’ottima quanto precisa prestazione strumentale di un gruppo, i Nomadia, per l’appunto, ormai rodato ed affiatato, giungono in aiuto del nostro anche i contributi esterni di un nutrito stuolo di ospiti, tra i quali troviamo Erriquez, in libera uscita dalla Bandabardò, un Enzo Iacchetti protagonista di un declamatorio quanto sentito intermezzo recitato, ed il vecchio amico e compagno di passate esperienze musicali, Giobbe Covatta, da tempo impegnato in prima persona quale testimonial proprio della stessa Amref. Risultato di questo sforzo “collettivo” è un doppio album da assaporare nella sua interezza, aprendosi a un mondo musicale, quello creato dai pentagrammi gangheriani, capace di dispensare non poche emozioni. Il mio consiglio, più che spassionato, è pertanto di far vostro questo L’Ammore e l’Arraggia; non solo le vostre orecchie ne trarranno beneficio, ma al contempo avrete dato un, forse piccolo ma altresì fondamentale, contributo in favore di una senza dubbio importante opera di sensibilizzazione umanitaria.