mercoledì 10 luglio 2013

Black Crowes @ Dieci Giorni Suonati Around Milano - Alcatraz

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


C’era davvero parecchia attesa per il ritorno in Italia dei Black Crowes, alla luce di una scorsa
esibizione sull’italico suolo, due anni fa in quel di Vigevano, che aveva lasciato con l’amaro in bocca più di un presente. Concerto quest’ultimo penalizzato da una congiunzione “astrale” di fattori negativi, quali una durata più che risicata, un’ora e mezza o poco più, e una stessa band non nella sua forma migliore, reduce da un lungo periodo di lontananza dai palchi. Era pertanto logico che molti fan delusi riponessero non poche aspettative in questa nuova calata italiana; una doppietta che avrebbe visto il combo di Atlanta tornare proprio in quel di Vigevano, nuovamente all’interno della
rassegna Dieci Giorni Suonati, per poi replicare il giorno seguente in terra toscana, in occasione del Pistoia Blues Festival. Un “ritorno sul luogo del delitto”, fortunatamente, scampato, in quanto l’intera rassegna vigevanese ha infine abbandonato la suggestiva cornice del Castello Sforzesco, per essere distribuita in varie location all’interno di Milano. Venue, quella adibita all’esibizione del gruppo americano, è l’Alcatraz, gremito in ogni suo più piccolo pertugio. Gettato l’autan preventivamente acquistato per difendersi dalle terribili zanzare vigevanesi, il vero nuovo nemico era rappresentato dal caldo micidiale che, solitamente, attanaglia in questo periodo una città come Milano, problema tuttavia al quale ha brillantemente ovviato l’impianto di condizionamento dello stesso locale.Con una puntualità a dir poco ineccepibile, alle 20:30 si spengono le luci in sala e il sestetto compare prontamente on stage accolto da un pubblico giubilante. Chris Robinson, camicia con maniche arrotolate e barba incolta, ha sempre più le fattezze di un Rock’n’roll Jesus, messianico portatore di un verbo musicale che ha nella sua voce, capace di scavare l’anima con la propria rochezza quanto di redimerla con estasianti vocalizzi al limite del soul, l’ideale mezzo per “convertire” gli astanti. Dietro di lui la spinta pulsante di una sezione ritmica guidata dalla batteria di Steve Gorman, nerboruto picchiatore d’estrazione bonzoniana, alla quale si affianca il preciso basso di Sven Pipien, mentre quasi defilato, nascosto tra organo e piano, trova posto Adam MacDougall, la cui presenza sonora sarà tuttavia ben avvertibile per tutta la durata del concerto. E se sulla bravura alla sei corde di Rich Robinson non vi è nulla da aggiungere, la vera sorpresa della serata si è alfine rivelato Jackie Greene, recentemente entrato a far parte della famiglia Crowes. Con alle spalle una carriera in proprio e un tour acustico in compagnia di Bob Weir e lo stesso Chris Robinson, il chitarrista californiano ha saputo reggere brillantemente il confronto con illustri predecessori quali Marc Ford e Luther Dickinson, contribuendo magistralmente all’economia sonica corviana, tra muscolari riff di grana rock blues e immaginifici barlumi solisti. Neanche il tempo di imbracciare gli strumenti che i nostri mandano letteralmente in delirio l’audience con una cinquina iniziale a dir poco da cardiopalma, a cominciare dalla consueta scarica adrenalinica di una Jealous Again accolta da un vero e proprio boato, passando per il rock’n’roll sporco e stradaiolo di Thick’n’Thin, per riesumare infine gli umori sudisti che trasudavano dal loro, secondo, meraviglioso album, The Southern Harmony And Musical Companion, con una serrata Hotel Illness, ed una torrida Black Moon Creeping, che si tinge nel finale della sacralità di un inno congregazionale. La dolente leggiadria di Bad Luck Blue Eyes Goodbye stempera la tensione rockista accumulatasi fino ad ora, in un vibrante crescendo emozionale, attorno alla sofferta interpretazione vocale robinsoniana. Medicated Goo, estratta dal songbook degli amati, e spesso rivisitati, Traffic, è invece ideale preludio ad una corale Soul Singing, assurto a vero e proprio inno hippie rock, con la platea impegnata in un collettivo singalong. Una dilatata Wiser Time mantiene intatto il proprio ruolo di nevralgico centro sonico dal quale prendono vita le velleità improvvisative del sestetto, in digressioni strumentali capaci di travalicare confini spazio temporali, tanto che chiudendo gli occhi ci si ritrova, come per incanto, in quel di Watkins Glen, anno di grazia 1973, dove sul palco stanno incrociando i propri strumenti, in un’infinita jam in bilico tra psichedelia, blues e Americana, la Band, i Grateful Dead e la Allman Brothers Band. Un calderone sonoro che trova in Chris Robinson un istrionico maestro di cerimonie, impegnato, quando non presta alla causa la propria ugola, a “dirigere” i suoi compagni con enfatici gesti. In un profluvio ininterrotto di interventi solistici, brillano per limpidezza di tocco e forza evocativa, proprio quelli di Jackie Greene, in questo frangente quasi un novello Dickey Betts. Elettricità senza freni che cede tuttavia la scena ad un intermezzo acustico con una She Talks To Angels, dalla cristallina bellezza, ulteriormente valorizzata dagli interventi al mandolino dello stesso Greene, alla quale fa seguito Whoa Mule, la cui scarna tessitura sonora, tra il tribale battere dello djembèe di Gorman e l’intrecciarsi armonico delle voci, possiede l’estatico incanto di un antico spiritual. Nuove aperture alla jam caratterizzano invece Thorn In My Pride dove, in un saliscendi armonico e ritmico, assistiamo ad un caleidoscopico fluire di assoli, con l’armonica di Chris Robinson e l’insinuante organo di MacDougall a ritagliarsi il proprio spazio, prima di ritornare a rutilanti fiammate rock’n’soul con una Remedy punto inamovibile delle recenti set list. Chiude le danze il furioso medley tra il rovente r’n’b reddighiano Hard To Handle e l’accattivante refrain di Hush, frutto della penna di Joe South, con il quale i nostri salutano una platea a dir poco festante. E se il set “regolare” si è chiuso con la rivisitazione di brani altrui, anche l’encore si apre, come ormai tradizione, con un reprise, ovvero una toccante rilettura della stonesiana No Expectations, dove il mandolino di Greene e la chitarra acustica di Chris Robinson trovano un malinconico contraltare nel sofferente scorrere del bottleneck di Rich Robinson; per poi porre definitivamente fine alle “ostilità” con il lisergico e sognante mantra Moving On Down The Line. Due ore di musica eccelsa, tra blues, soul, rock e Americana, forgiata da sei musicisti la cui bravura è pari solo all’affiatamento mostrato sul palco; una serata pressoché perfetta, a testimonianza di come i “Corvi Neri”, dopo un periodo di buio smarrimento, siano tornati a volare, liberi e selvaggi, ad altitudini musicali difficilmente raggiungibili da altre band ad essi contemporanee.


SETLIST:

Jealous Again
Thick’n’Thin
Hotel Illness
Black Moon Creeping
Bad Luck Blue Eyes Goodbye
Medicated Goo
Soul Singing
Wiser Time
She Talks To Angels
Whoa Mule
Thorn In My Pride
Remedy
Hard To Handle / Hush

ENCORE
No Expectations
Moving On Down The Line

Nessun commento:

Posta un commento