giovedì 18 ottobre 2012

Wilco live @ Teatro Concordia - Venaria Reale (TO)

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Have a great night with the greatest rock’n’roll band”; ecco, basterebbero le parole di commiato di Andrew Mitchell, chitarrista e cantante degli Hazey Janes, per descrivere al meglio la serata trascorsa in quel di Venaria Reale. D’altronde quale appellativo è più calzante per l’inarrivabile creatura chiamata Wilco se non appunto quello di più grande rock’n’roll band dei giorni nostri? Se la scorsa tranche di concerti in terra italica era stata indicatrice dell’eccelso stato di forma del combo di Chicago, la nuova full immersion nel Belpaese, tre date in tre giorni, ha infatti mostrato ancor di più la perfezione sonora raggiunta dai nostri. Ventotto brani, più di due ore di grande musica senza la benché minima sbavatura né calo di tensione, con sei musicisti, a dir poco eccelsi, ad incantare una platea in estasi; questa la numerologia wilconiana di quella che è stata una delle loro perfomance italiane più belle ed intense. Preludio della serata l’appetitoso antipasto offerto dagli Hazey Janes, interessante combo scozzese, capace di conquistare gli astanti con il loro psych pop venato di alternative country, del quale la lirica voce del già menzionato Andrew Mitchell è sicuramente il tratto distintivo. Tempo di un veloce cambio palco ed alle 21:30 le luci si spengono tra un vero e proprio boato. Neanche il tempo, per Tweedy e soci, di palesarsi sul palco che le note di Misunderstood si spandono nell’aria tra le grida di giubilo del pubblico. D’altronde chi se lo aspettava un inizio così?! Art Of Almost rappresenta invece l’apice sperimentale del combo chicagoano, una fucina di suoni e stridori che nelle sue digressioni strumentali arriva a lambire algidi territori ambient; una sperimentazione che ritroviamo anche in I Am Trying To Break Your Heart, mai forse così perfetta nel suo unire barlumi elettronici con tenui melodie vocali. La struggente leggiadria di Sunken Treasure è, dal canto suo, l’ennesima dimostrazione dell’immenso valore della vena compositiva di Jeff Tweedy, senza ombra di dubbio il miglior songwriter della sua generazione, come peraltro ampiamente testimoniato da un ormai nutrito songbook, saccheggiato in lungo e in largo nel corso della serata. Trovano infatti spazio sia brani tratti dal recente The Whole Love, su tutte Standing O e Born Alone, che le divagazioni verso i territori loosefuriani di Laminated Cat, passando per una sontuosa Impossible Germany, assorta al rango di vero e proprio classico, fino agli spettri alternative country che pervadono Shouldn’t Be Ashamed, tratta dal seminale A.M..I nostri si divertono, e si vede, a cominciare dallo stesso Tweedy, sorridente e partecipe, che scherza e dialoga con il pubblico, incitandolo più volte a urlare a gran voce “Wilco! Wilco! Wilco!”, per poi unirsi anch’egli al coro. Attorno a lui si stringono poi cinque musicisti fuori dell’ordinario, per capacità tecniche e versatilità, che stupiscono ogni volta di più per la compattezza sonora raggiunta. Una corale Jesus Etc, con Tweedy che si allontana dal microfono per fondere la propria voce con quelle di tutti i presenti, è sicuramente il picco emozionale della serata, mentre Handshake Drugs e Heavy Metal Drummer, ormai punti inamovibili delle scalette wilconiane, mantengono alta una tensione emotiva fattasi a dir poco palpabile. Risplende, come sempre, di luce propria Hummingbird, uno di quei brani che risentiresti per ore e ore innamorandotene ogni volta di più, alla quale fa seguito una vibrante Shot In The Arm, che chiude come meglio non si potrebbe la prima parte del concerto. Non abbiamo neanche il tempo di rifiatare che i nostri tornano sul palco per deliziarci con un trittico certamente non per deboli di cuore. Come definire altrimenti la sequenza al cardiopalma di Via Chicago, Passenger Side e California Stars?! La prima è l’ennesimo piccolo grande capolavoro tweediano, per purezza melodica e qualità testuale, le cui divagazioni “rumoriste” ne fanno al contempo ideale manifesto sonoro wilconiano; Passenger Side dal canto suo è uno di quei brani che non dovrebbe mai mancare nelle scalette dei nostri, ma che purtroppo solo ogni tanto fa la sua comparsa dalle polveri del passato, mentre California Stars rende omaggio al mai dimenticato Woody Guthrie, del quale quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Walken e Hate It Here sono due gustosi estratti dai solchi di Sky Blue Sky, prima dell’energica I’m The Man Who Loves You, con Glenn Kotche in piedi sul proprio sgabello a prendersi la doverosa ovazione, che riporta i nostri dietro le quinte. Il pubblico non ci sta e richiama a gran voce i propri beniamini che rientrano in scena per la doppietta beingtheriana di Monday e Outtasite (Outta Mind), concludendo con una debordante Hoodoo Voodoo, dove agli incroci chitarristici di Nels Cline e Pat Sansone, si aggiungono il campanaccio e gli esilaranti balletti del tecnico delle chitarre, tra l’ilarità generale. Ora è davvero finita, i sei salutano il proprio pubblico tra le urla e gli applausi scroscianti. E non possono che tornare in mente le profetiche parole di Andrew Mitchell, poiché abbiamo davvero trascorso una grande nottata con la più grande rock’n’roll band attualmente in circolazione.


SETLIST:

Misunderstood
Art of Almost
Standing O
I Am Trying To Break Your Heart
I Might
Sunken Treasure
Born Alone
Laminated Cat (aka Not For The Season)
Impossible Germany
Shouldn’t Be Ashamed
Jesus, Etc.
Whole Love
Handshake Drugs
War On War
Always In Love
Heavy Metal Drummer
Dawned On Me
Hummingbird
Shot In The Arm

Encore:

Via Chicago
Passenger Side
California Stars
Hate It Here
Walken
I'm the Man Who Loves You

Encore 2:

Monday
Outtasite (Outta Mind)
Hoodoo Voodoo

mercoledì 17 ottobre 2012

Pokey LaFarge and the South City Three - Live in Holland

(Pubblicato su Rootshighway)


Paiono personaggi del Furore steinbeckiano, Pokey LaFarge e i suoi South City Three, quattro hobo in viaggio su di un treno merci verso l'assolata California, in una nuova, neanche poi tanto, immaginaria Grande Depressione. E dal passato i nostri attingono sonorità e tematiche, rileggendole attraverso un ruspante impasto acustico a base di jazz primigenio, western swing, ragtime e country blues. Se i precedenti lavori in studio, avevano mostrato la freschezza della loro proposta musicale, è dal vivo che il quartetto riesce ad esprimere al meglio le proprie potenzialità, come ben immortalato in questo Live in Holland. Una venue sountuosa, il Paradiso di Amsterdam, quattro musicisti in grande spolvero, una manciata di trascinanti canzoni, ed un pubblico in delirio; questi gli ingredienti di quella che è una perfetta fotografia del loro odierno live show. Se figura centrale intorno alla quale ruota l'intera esibizione è il sempre più istrionico Pokey LaFarge, i South City Three non si limitano tuttavia al mero accompagnamento, ritagliandosi in più d'un occasione il proprio spazio. Adam Hoskins può così dare sfoggio della propria tecnica chitarristica, mentre il pulsare insistente del contrabbasso di Joey Glynn crea il tappeto ritmico perfetto per le evoluzioni all'armonica di Ryan Koening che, destreggiandosi anche alla washboard e al rullante, è l'autentico jolly del trio. L'inizio del concerto è a dir poco scoppiettante, con l'energica ripresa di Devil ain't lazy, vecchio brano marchiato Bob Wills, alla quale fa seguito una vibrante Can't be satisfied, con Koening a soffiare con forza dentro il suo piccolo strumento. Se Fan it è un tuffo nella tradizione western swing, stemperando in parte gli accesi toni della serata, già con l'esuberante Pack it up e il boom chicka boom di Walk your way out of town si ritorna su di ritmi sostenuti, prima di una Two-faced Tom, al cui "call and response" partecipa tutto il pubblico. Il fantasma di Jimmie Rodgers fa invece la sua comparsa, insieme a quelli della Memphis Jug Band, in una splendida In the graveyard, con un'intensa interpretazione vocale, al limite del recitato, del buon Pokey, che si ripete nell'alcoolica Drinkin whiskey tonight. Cairo, Illinois è una superba ballata dal retrogusto country folk, mentre si rifà all'old time music Claude Jones, tra il metallico picchiettare della washboard di Koening ed un kazoo affidato alle labbra di Pokey. Kazoo che ritroviamo anche nell'apocalittica coralità di Hard times come and go, prima di giungere al tripudio finale di una La la blues, diventata ormai un piccolo classico. Una musica, quella del quartetto del Missouri, senza tempo, che pare trovare sulle assi del palcoscenico la sua vera ragion d'essere. D'altronde la loro, citando lo stesso Pokey LaFarge, "it's not retro music, it's American music that never died". Anzi, è più viva e arzilla che mai.

venerdì 12 ottobre 2012

Bosio - L'abbrivio

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Un progetto, quello a nome Bosio, a conduzione pressoché familiare, con le proprie radici ben affondate nel fertile underground musicale ligure. Proprio da quest’ultimo arrivano infatti i due fratelli Bosio, Pietro ed Enrico, entrambi facenti già parte di alcuni interessanti combo indie quali Numero6 e En Roco. Esperienze sicuramente importanti quest’ultime, che hanno aiutato la maturazione, soprattutto in Pietro, di una necessità di mettersi in proprio, per dare libero sfogo ad una fervida vena creativa. Senza abbandonare il proprio strumento “naturale”, il basso, Pietro imbraccia la chitarra acustica e si posiziona per la prima volta davanti al microfono, imprimendo su nastro le proprie idee musicali, lasciate per troppo tempo a riposare. A dar man forte al fratello troviamo la sei corde di Enrico, anche al banjo, il quale arruola per questa nuova avventura il batterista “greco” Giorgios Avgerinos, già suo compagno nelle fila degli En Roco. Il progetto si assesta pertanto in un’ideale dimensione a tre, allargandosi tuttavia fino ad inglobare i contributi strumentali di una nutrita schiera di amici. Da un lungo lavoro di scrittura ed arrangiamento vede la luce L’Abbrivio, opera prima del trio, dalla quale tuttavia traspaiono già nitidamente tutte le peculiarità sonore del progetto. Fondamenta su cui si basa quest’ultimo è senza dubbio un’assoluta spontaneità sia a livello musicale che testuale, nel tentativo di abbattere i rigidi paletti estetici fissati dall’odierna discografia, tesi ad ingabbiare un’artista entro questo o quell’altro genere musicale. Una musica quella dei nostri lasciata pertanto libera di sgorgare, senza vincoli di sorta, tra improvvisazione ed “errori voluti”, senza tuttavia trascurare una maniacale attenzione per la melodia. Materia musicale di difficile catalogazione quindi, capace di passare, nel solo arco dei tre pezzi iniziali, dall’uptempo di Non So Più Bene Da Quando, dove una voce che ricorda tanto il Rino Gaetano giovanile che “l’allegro ragazzo morto” Davide Toffolo canta della dolorosa fine di un amore; all’indie folk sporcato di Lontano, per giungere alla feroce critica al mondo ecclesiastico di No Vatican, No Taliban, i cui sprazzi melodici vengono soffocati da una cupezza sonica di matrice post rock. Se il lento svolgersi di Che Fare? sembra frutto delle passate esperienze musicali del trio, Polvere 6 fa invece proprio il jangle sound dei primi REM. Lo sghembo country folk di Modo e Modo pare, dal canto suo, evocare fantasmi oldmaniani, mentre le variopinte stratificazioni di Casa piccola (a F.B.), mostrano una volta di più quanto sia già maturo il songwriting dei fratelli Bosio. Figlia dell’alternative folk “principesco” è anche la conclusiva Verrà La Pioggia, la cui iniziale introspezione sonora è squarciata a più riprese da saette elettrificate. Speriamo solo che l’ottimo slancio, frutto di questo “abbrivio”, non si esaurisca in poche falcate, ma che sia solo la scattante partenza di una lunga e sfrenata corsa sonora.

lunedì 1 ottobre 2012

Grimoon - Le Déserteur

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Un progetto transnazionale quello marchiato Grimoon, nato e cresciuto tra l’italica Venezia e la francese Rennes, il quale arriva oggi, con Le Déserteur, al suo quarto album in poco meno di nove anni d’attività. Una prolificità, quella del collettivo italo-francese, attestatasi sin dagli esordi su di standard qualitativi piuttosto elevati, e capace al contempo di allargare il proprio campo d’azione verso altre discipline artistiche. L’aspetto visivo è infatti uno degli elementi fondanti dell’estetica grimooniana, come peraltro dimostrato dai loro live act, nei quali l’armonizzazione tra immagini e suoni dà vita a quello che lo stesso gruppo definisce concerto-cinema. Dal punto di vista strettamente sonoro invece, ci troviamo di fronte a una sempre maggior apertura musicale che, dal primigenio folk psichedelico è arrivata ad esplorare le tetre foreste soniche odierne, addentrandosi in ambienti vicini allo slowcore dei Black Heart Procession. Proprio con quest’ultimi i Grimoon paiono aver stretto un fruttuoso sodalizio, affidando in quest’occasione la produzione dell’album a Pall Jenkins, che della band americana è una delle menti, che va così a sostituire il collega Scott Mercado, dietro al banco di regia per il precedente Super 8. Ritroviamo comunque entrambi anche tra i solchi di Le Déserteur, impegnati a rafforzare con il proprio contributo ritmico lo spettro sonoro del gruppo. Tratto distintivo della proposta grimooniana rimane tuttavia l’adozione, a livello testuale, dell’idioma francese, la cui elegante musicalità acuisce ulteriormente l’immaginifico svolgersi delle composizioni. Merito senza dubbio anche dell’evocativa voce di Solenn Le Marchand, a metà strada tra la chanson francaise e una vocalità campbelliana dalle tinte dark, alla quale si alterna l’altrettanto espressivo canto del chitarrista Alberto Stevanato. Echi dei primi lavori si possono ancora udire nell’opener Les Couleurs De La Vie, folk pastorale intriso di oscurità noir, o nel lento slowcore psichedelico di Draw On My Eyes, unica concessione testuale alla lingua inglese. Le Montagne Noire è invece una funerea danza condotta da uno stridente violino, intorno al quale si ergono algide mura elettroniche, così come nella fluttuante Les Demons Du Passè, onirico viaggio per chitarra acustica, synth e accordion. Paiono invece rifarsi alla lezione impartita dagli Arcade Fire la serrata Souvenirs o il lirismo di Monument Aux Deserteurs, il cui conclusivo crescendo sinfonico pare provenire proprio da una delle ultime composizioni di Win Butler e soci. E’ però nelle alchimie sonore della conclusiva Tango De Guerre, seducente intreccio tra apocalittici bagliori elettrici e tortuose melodie latine, che i Grimoon mettono in luce tutta la propria voglia di sperimentazione, alla continua ricerca di nuove idee e soluzioni soniche. Una sperimentazione quella del combo italo-francese in evoluzione costante quindi, che in futuro non mancherà di riservare nuove gradite sorprese, ma che nell’immediato si concretizza nella solida certezza di Le Déserteur.