venerdì 27 giugno 2014

Gina Villalobos - Sola

(Pubblicato su Rootshighway)


"I couldn't write, I couldn't draw, I had no imagination or ability to reflect anymore", così Gina Villalobos descrive il buio periodo di stasi creativa attraversato all'indomani della pubblicazione del suo quarto album, Days on Their Side. Un parto discografico che aveva lasciato come svuotata la songwriter californiana, ritrovatasi a fare i conti con un inaridimento di una vena autoriale fino ad allora dimostratasi più che fervida. Un'involuzione, a livello di scrittura, avvertibile già entro i solchi dello stesso Days on Their Side, sofferente d'una piattezza musicale a tratti esasperante, frutto d'una successione di ballate dalla flemmatica indolenza. Un volontario monocromatismo compositivo ben lungi da quanto lasciato trasparire dai due cangianti capitoli precedenti, Rock'n'roll Pony e Miles Away, guadagnatisi al contrario, con la loro intrigante miscela tra acustiche polveri rootsy e robuste intelaiature elettriche di matrice rockista, diluite con l'ariosità del pop e solari armonie westcoastiane, il plauso della critica. Una Lucinda Williams intenta a reinterpretare il primigenio songbook di Sheryl Crow, avvalendosi, come backing band, dei Jayhawks; ecco ciò che traspariva dall'ascolto dei poc'anzi menzionati lavori in studio, capaci d'imporre la stessa Villalobos quale nuova promessa dell'Americana. Promessa invero disattesa proprio con l'opaco Days on Their Side, dove la nostra sembrava come essersi smarrita in umbratili percorsi umorali, lungo i quali, perlomeno a giudicare dall'odierno Sola, continua tuttora ad arrancare. Sette brevi narrazioni in formato canzone, quelle approntate per l'occasione, attraverso le quali continuare un personale discernimento emotivo, con la propria voce, il cui ruvido graffiare rimanda all'altrettanto roca vocalità di Lucinda Williams, come ideale fulcro narrativo. Intorno ad essa si accentrano gli spunti musicali di un manipolo di validi musicisti, tra i quali spiccano il vecchio sodale Kevin Haaland, alla sei corde elettrica, ed Eric Heywood, già con Son Volt e Ray LaMontagne, alla pedal steel. Proprio lo scorrere sulle corde dello slide di quest'ultimo arricchisce, con gusto ed eleganza, il languore agreste di Come Undone, per poi dettare i tempi nel disteso valzer elettrico di una Wandering By pregna del lirismo della Mary Gauthier più laconica, profondendosi infine in vellutati svolazzi armonici nella conclusiva Walk Away, splendida pur nel suo minimalismo arrangiativo. Con le livide Everything I want e Tears Gone By, cominciano ad avvertirsi invece i limiti strutturali di una forma canzone tendente troppo spesso, nel suo sonnolento svolgersi, verso il tedio. Non va meglio quando la nostra tenta di riappropriarsi della luminescenza country rock degli esordi, vedasi Tailights e Hold On To Rockets, ricorrendo ad un canovaccio, partenza attendista seguita da una straripante esplosione melodica, un po' troppo di maniera. Un ritorno sulle scene, quello della Villalobos, tra poche luci e molte ombre, condotto con il passo incerto di chi ha attraversato un momento difficile, avente lasciato ferite, emotive ed autoriali, non ancora del tutto rimarginate.


mercoledì 25 giugno 2014

Into a cosmic trip - Intervista ad Alessandro Battistini

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)




Dalla guida della roboante automobile hard blues targata Mojo Filter al timone di un antico vascello in rotta verso inesplorate rotte astrali; Alessandro Battistini ci accompagna, tra solari melodie westcostiane e acidi sentori lisergici, alla scoperta delle sue "sessioni cosmiche".


Cominciano dal principio, come è maturata l'idea delle Cosmic Sessions?

È nata all’improvviso, ho scritto Nothing More to Say e ho capito che avevo il desiderio di esplorare nuove strade. Era da un po’ che avevo in testa qualcosa di un po’ più west coast.


Quello che emerge, fin dal primo ascolto, è un approccio, compositivo quanto esecutivo, figlio d'un libero fluire di note e parole. Come si sono svolte le sessioni di registrazione? Che clima si respirava in studio? 

Ho impostato il lavoro in studio perché fosse il più naturale possibile. Speravo che ogni musicista si sentisse libero per riuscire a dare alle canzoni quello spirito un po’ jam/free tipico di una certa musica di stampo sixties.


Nei Mojo Filter, oltre ad essere frontman e chitarrista, rivesti anche il ruolo di compositore, che differenze hai riscontrato, proprio a livello di songwriting, tra queste due esperienze musicali così diverse? 

Quando ho iniziato a scrivere ”Cosmic Sessions” ho seguito poche direttive e una di queste era dare al progetto un taglio più folk rispetto ai pezzi dei Mojo Filter; per questo ho cercato di scrivere delle canzoni con strutture più libere; in “The Roadkill Songs” avevamo cominciato a introdurre un po’ di psichedelia con Theremin e percussioni e con “Cosmic Sessions” ho voluto calcare la mano su questo aspetto.


Sonorità, quelle permeanti le “sessioni cosmiche”, figlie della California della fine degli anni Sessanta – inizio Settanta, tra echi del Laurel Canyon e la psichedelia immaginifica di Haight-Ashbury. Quasi inevitabile, quindi, che molti ti abbiano paragonato a Jonathan Wilson, fautore di due album attestatisi sulle medesime coordinate stilistiche. È un accostamento che ti lusinga oppure potrebbe, secondo te, risultare solo un, fuorviante, tentativo di catalogare la tua musica? 

Sicuramente l’accostamento mi lusinga molto; apprezzo moltissimo il lavoro di Jonathan Wilson, così come quello di Chris Robinson con i Brotherhood, trovo che in questo momento siano i due artisti che più si avvicinano a quello che vorrei fare io; mi piacciono le lunghe improvvisazioni e le parti strumentali che in certi momenti diventano quasi ambient; trovo che i loro dischi siano dei veri e propri trip musicali.


Notevole, oltre all'intrecciarsi delle corde elettroacustiche dei più diversi strumenti, è il lavoro svolto sulle armonizzazioni vocali. Che peso specifico hanno queste ultime nell'economia generale dell'album? 

Si, le armonizzazioni in “Cosmic Sessions” sono sicuramente più importanti che nei miei lavori precedenti, pensavo ai Buffalo Springfield, a certe cose dei Byrds e, nel mio piccolo, anche ad alcuni arrangiamenti della fase psichedelica dei Beatles; avrei voluto ricorrervi anche per alcuni arrangiamenti dei dischi dei Mojo Filter, ma tendo a non mettere niente su disco che poi non si possa riproporre anche dal vivo.


Alle registrazioni hanno preso parte anche alcuni ospiti di vaglia, tra i quali spicca senza dubbio Antonio Gramentieri, chitarrista nonché mente dei nostrani Sacri Cuori, e abituale frequentatore di polverose sonorità Americana e torridi ritmi desertici. Come si è integrato il particolare, evocativo fraseggio della sua sei corde all'interno di un brano come “The Wise Rabbit”? 

Quando Antonio ha sentito il demo di The Wise Rabbit mi ha detto che gli ricordava alcune cose dei Traffic e che gli avrebbe fatto piacere provare a metterci qualche chitarra. Devo dire che il risultato mi è piaciuto tantissimo perché, come suo solito, è riuscito a trovare immediatamente il suono e il mood giusto per enfatizzare il lato acido e malato della canzone.


Altra presenza di spessore è quella di Jono Manson, già frequentato in passato con i Mojo Filter, il quale non solo presta la sua voce alla splendida “Home”, ma ha svolto anche il missaggio del disco nel suo Kitchen Ink Studio, in quel di Santa Fè. Sei soddisfatto del suo lavoro? È quello che avevi in mente, a livello di suono, quando hai concepito l'album? 


In realtà Jono questa volta si è “limitato” a fare il master e come sempre ha fatto uno splendido lavoro; lui è uno di quegli artisti che riesce a rendere tutto più semplice e naturale, sia dal punto di vista artistico che da quello tecnico di produzione e registrazione; trovo che nella musica questa sia una dote imprescindibile. Il mixaggio e le riprese sono state fatte da Matteo Tovaglieri dell’Ncore Studio che si è dimostrato la spalla ideale; anche lui adora gli anni Sessanta e insieme abbiamo cercato di ricostruire quel suono che avevamo in testa. Mi è piaciuto molto lavorare con lui e spero che in futuro ci saranno altre occasioni.


Curiosa è la presenza di una sola rivisitazione del repertorio altrui, oltretutto alquanto riuscita, ovvero della “Walking The Dog” a firma Rufus Thomas, come mai questa scelta? 

Walking The Dog è uno dei primi pezzi blues che ho sentito da ragazzino. Quando l’ho sentito mi sono subito innamorato della canzone e di un certo tipo di blues molto diretto e carico di ironia; registrando “Cosmic Sessions” abbiamo provato a suonarla in modo un po’ più nostro e il risultato ci è piaciuto tanto che ho deciso di inserirla nel disco. Dal vivo ci divertiamo molto a suonarla, soprattutto per la parte finale che esce ogni volta diversa.


Così come è particolare l'inserimento di alcune particelle sonore e piccoli intermezzi parlati che appaiono all'improvviso all'interno di più d'un brano. Da dove provengono? 

In Staring At Your Splendor c’è un estratto di un’intervista a Bob Ross, un pittore che descrive il suo quadro “The Splendor Of Winter”, e parla dei colori come fossero gli ingredienti di una ricetta. Mi è piaciuto molto perché nel suo racconto i colori diventano stati d’animo.
In Inner Side, invece, abbiamo riportato un estratto di una lezione di yoga: l’insegnante sta spiegando la posizione del piccolo universo e la canzone, guarda caso, parla dell’universo interiore, una canzone triste ma con un lieto fine ;)


Davvero suggestiva è la cover del disco, con un vascello-mongolfiera, pronto a salpare per nuovi viaggi astrali, campeggiante in copertina. Chi è l'autore? 

La cover è dello Zeppelin Studio di Nicola Callegaro e Valentina Toson e mi è piaciuta proprio per il suo significato evocativo; mi sono sentito subito a bordo di quel vascello in rotta verso nuove avventure, con mezzi impropri e fantasiosi ma pieno di buoni propositi.


Reminiscenze settantiane si avvertono anche nel nome scelto per la band che ti accompagnerà dal vivo, i Salty Frogs, di velata ispirazione younghiana. Puoi presentarci i musicisti che ne fanno parte? 

Si, i Salty Frogs sono una band ad organico variabile, una sorta di grande famiglia pensata per potersi adeguare a tutte le situazioni; al momento ne fanno parte Francesca Arrigoni (voce e percussioni), Francesco Cimini (chitarre), Simone Spreafico (piano e keys), Alex Chiesa (basso) e Arnaldo Ripamonti (batteria, percussioni e voci)


In che modo riproporrai le Cosmic Sessions dal vivo? Cosa deve aspettarsi chi verrà ad assistere ad un tuo concerto? 

Abbiamo già fatto un buon numero di date e devo dire che sono molto contento perché ognuna di esse è stata a suo modo diversa e particolare. Abbiamo suonato elettrici full band o acustici in duo o trio; è divertente perché ogni formazione mette in luce arrangiamenti e aspetti diversi dei pezzi…


Vista la più che buona accoglienza riservata dalla critica al tuo esordio solista, in futuro vi saranno altri capitoli discografici a nome Alessandro Battistini, oppure le “sessioni cosmiche” rimarranno solamente, un pregevole, scarto di lato dal tuo abituale percorso musicale? 

Sicuramente a breve proseguirò come solista; a settembre/ottobre uscirò con un video clip e poi sarò impegnato in una serie di concerti alcuni dei quali fuori dall’Italia. Nel frattempo sto lavorando al nuovo materiale.


Hard blues psichedelico con i Mojo Filter, ed ora questo rilucente caleidoscopio sonoro elettroacustico; il tutto lascia trapelare una curiosità musicale a 360°. Quali sono stati i dischi o gli artisti che hanno maggiormente influenzato, nel corso degli anni, il tuo modo di intendere, nonché di fare, musica? 

Sono nato ascoltando e suonando i Led Zeppelin o Jimi Hendrix e subito dopo il british blues di band come Bluesbreakers, Yardbirds. Ho adorato i Doors e le loro atmosfere, e sono stato segnato dagli Stones e impressionato dalla genialità dei Beatles. E poi c’è tutto quell’elettro folk di metà anni Settanta: Buffalo Springfield, Crosby stills Nash & Young, Tim Buckley, Grateful Dead, Joni Mitchell





giovedì 19 giugno 2014

Wovenhand - Refractory obdurate

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



Refrattario ad ogni compromesso e ostinato nel portare avanti la propria “missione divina”; si potrebbe prendere spunto proprio dalla nomenclatura del nuovo capitolo della deviata “bibbia musicale” a nome Wovenhand, per descriverne il deux ex machina, David Eugene Edwards, allucinato predicatore dallo sciamanico magnetismo, con un'infanzia trascorsa nel bigottismo protestante dell'America rurale. Infanzia, per l'appunto, marchiata a fuoco da un'educazione religiosa rigida e rigorosa, che ha segnato nel profondo l'uomo Edwards. Religiosità che il nostro ha, suo malgrado, interiorizzato, per poi rielaborare, con il prosieguo degli anni, grazie ad un ardente furore pentecostale, trovando in una materia sonica d'altrettanto arcaico spiritualismo, nota con il nome di Americana, il canale ideale attraverso il quale diffondere il proprio, inedito verbo. E se agli albori della saga a nome Wovenhand era proprio il folk, intinto in nere tonalità apocalittiche, mutuate dalla precedente esperienza collettiva a nome Sixteen Horsepower, l'elemento basico di un ribollente maelmstrom sonico, in tempi recenti abbiamo assistito ad un ulteriore, scorticante, imbastardimento d'una formula sonora oggi pregna d'una nuova dilaniante pervasività. Un cambiamento avvertibile già nel precedente The Laughing Stalk, dove plumbee arie folk si fondevano con caustiche nevrosi post punk, enfatizzando in tal modo, ancor più, il trascendente discernere lirico dello stesso Edwards, in una malata dialettica, tra antico e moderno, avente ruolo preminente anche nell'odierno Refractory Obdurate. Dieci capitoli mistico-religiosi, quelli qui contenuti, ispirati al Vecchio Testamento di biblica memoria, entro i quali confluiscono le ansie, le paure, le perversioni e le visioni salvifiche, da sempre contraddistinguenti il songwriting edwardsiano. Fulcro narrativo, d'evocativa drammaticità, è come sempre la voce di Edwards, nel suo mantrico cantilenare, intorno al quale viene innalzata una cattedrale sonica dalle acuminate guglie moderniste. E se il nostro pone, di quest'ultima, la “pietra angolare”, grazie alle proprie, schizofreniche capacità autoriali, i suoi adepti (Chuck French alla chitarra, Neil Keener al basso e Ordy Garrison alla batteria) dimostrano la loro cieca devozione alla parola del “profeta” contribuendo, con abrasiva accondiscendenza, all'edificazione strumentale del tempio wovenhandiano. Nascono in tal modo affreschi sonici quali l'opener Corsicana Clip, figlia illegittima, con il suo sepolcrale caracollare elettroacustico, dell'operato dei Sixteen Horsepower, dove spicca il succitato, salmodiante vociare del nostro, o le inflessioni mediorientali trasudanti tanto dal misticheggiante crescendo armonico di King David, che dall'intrecciarsi delle corde di una Obdurate Obscura dall'ipnotico splendore, con uno slide tagliente a produrre metallici stridori su di un substrato percussivo affidato al secco percuotere di una darbuka. Una grandeur strumentale avente la propria sublimazione nella maestosa The Refractory, tra scheletrico arpeggiare d'acusticità folkie, deflagranti stilettate elettriche, e rallentate pulsioni ritmiche. In Masonic Youth, così come nelle quasi speculari Good Shepherd e Field of Hedon, i ritmi si fanno, al contrario, più serrati, avvolti da dense spirali di ottundente elettricità new wave. Ancor più funerea, nel suo addentrarsi attraverso arcane coltri doom, è la marziale Hiss, innervata da un acido rifferama “rubato” al miglior Tony Iommi, mentre la conclusiva El-bow è una straniante digressione, d'esasperante lentezza, attraverso dopati territori sludge folk. Pur essendo cambiato nella forma il “refrattario, ostinato” verbo edwardsiano mantiene oggi intatto tanto il proprio fervore messianico, quanto una seducente malia ancestrale, dando vita ad un trascendente rito chiesastico al quale abbandonarsi in preda ad un'innodica trance.

The Last to Knows - Divide

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)



Originari della collinare Toscana, ma cresciuti divorando voracemente i suoni provenienti dalla vastità sconfinata dei territori a stelle e strisce, i Last To Knows, per porre le basi della loro nuova fatica discografica, hanno fatto armi e bagagli trasferendosi nel profondo Nord, in quel di Montebelluna. Qui, presso gli Outside Inside Studio di Matt dei Mojomatics, in tutta calma e tranquillità hanno riversato su nastro anni di ascolti attenti ed appassionati, dando alla luce Divide, evocativa opera, fin dalla copertina, d'una “americanità” sfiorata sì solo con il pensiero e le orecchie, ma viva e pulsante oggi nelle composizioni del combo toscano. Non sono dei meri scopiazzatori o dei pedissequi ricalcatori dell'opera altrui i nostri, ma bensì hanno saputo trarre ispirazione dall'operato passato di autentiche icone del genere approntando un pugno di composizioni, figlie della penna di Mattia Neri, impegnato anche alla voce e alla chitarra acustica, capaci di resuscitare e rinverdire tematiche e storie da autentici country outlaws, riproponendole attraverso il moderno filtro della propria ottica sonora. Diviso idealmente in due “lati”, come i vecchi vinili, l'album possiede due anime ben distinte; la prima denominata Water side, pur a discapito della sua nomenclatura acquatica, di polverosa estrazione country folk, mentre la seconda, Mountain side, dalle più cupe ed elettriche tinte bluesy. Appartengono alla prima composizioni dall'impasto elettroacustico come l'opener New Recession Hoedown, Boom-Chicka-Boom nel quale spicca il soffiare dell'armonica, alla Mickey Raphael, di Michele Borgogni, con liriche debitrici nei confronti delle Dust bowl ballads del sommo Woody Guthrie, nel suo raccontare l'odierna, attanagliante crisi economica; o una All The John Deeres In The World quasi un estratto da Nashville Skyline, in cui il narrare dylaniano incontra l'epicità della frontiera americana. For The Sake Of My Soul ricorda invece, fin dal titolo, il dolente songwriting del Texas Troubadour Townes Van Zandt, in quella che è una splendida, malinconica ballata cantata da Mattia Neri con il cuore in mano. Le trame country intrecciate dai nostri incontrano invece spezie swampy in un'ariosa Between Us attingente a piene mani dall'operato dei Creedence Clearwater Revival più bucolici. E se il ‘Water side’ scorre fluido e veloce come l'impetuoso fiume Columbia, è quando il quintetto si accinge ad “ascendere” verso il Mountain side che sembra, in parte, arrancare. La “scalata” inizia, tuttavia, a spron battuto, con una scalpitante Devil Be My Guide, ma tanto in una Dirty Business non del tutto a fuoco nel suo barcamenarsi tra sbuffare country ed elettricità blues, quanto in una Lonesome Mistery Man, questa sì forse fin troppo aderente al songbook fogertiano, tanto da sembrare una ripresa della celeberrima Fortunate Son, comincia ad avvertirsi una certa mancanza d'ossigeno forse dovuta all'aumentare dell'altitudine. Basta, fortunatamente, solo riprendere il fiato e i toscani tornano a vedere nitida la conclusione del loro cammino in verticale, come dimostrato da una Like The Egg Of A Snake capace d'unire la furia elettrica dei Crazy Horse con le desertiche sonorità dei Calexico, per arrivare poi a conquistare infine la vetta della propria personale “montagna sonora” con la conclusiva Vaya con Dios, piccolo gioiello di scura introspezione, dove pare di ascoltare la profonda voce di Tom Russell accompagnata, anziché dalla sei corde di Andrew Hardin, da quella ben più elettrica e distorta del vecchio Bisonte canadese. Un album ben scritto e ancor meglio suonato, Divide, ad opera di quintetto con un piede ben saldo sulle verdi colline senesi, e un altro affondato tra la polvere delle praterie americane.