domenica 29 settembre 2013

Contratto Sociale Gnu_Folk - R_evoluzione

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“E’ canto partigiano, è burla salentina, è una giga ballata a fianchi rotti…..è musica popolare”. Una musica scritta dal popolo per il popolo, dall’età indefinibile, in quanto da sempre “colonna sonora” delle più diverse epoche, capace tanto di descrivere con lucidità le brutture della storia, quanto di accomunare, abbattendo barriere geografiche e sociali, genti e voci in un unico coro di riscatto e rivolta. A questa musica senza tempo, di genuino fervore lirico, si dedica, con sudore e passione, da ormai più d’un decennio, il Contratto Sociale Gnu_Folk, settetto toscano che solo oggi, tuttavia, giunge al debutto, sulla lunga distanza, con un album dall’emblematico titolo R_evoluzione. Prodotto con sapienza e gusto da Andrea Mei, ex fisarmonicista dei Gang, quanto apprezzato compositore, R_evoluzione si muove proprio sulle coordinate stilistiche tracciate dal gruppo marchigiano, per poi deviare in corsa verso il combat folk, tra sentori irish e Italia partigiana, dei Modena City Ramblers, fino a giungere davvero nella verde Irlanda, facendo propri gli insegnamenti dei Pogues di Shane McGowan; il tutto volto alla ricerca di una “musica popolare del nuovo millennio”, fusione tra le più diverse esperienze sonore terzomondiste, sulle orme del mai dimenticato Joe Strummer. Proprio al pentagramma barricadero dei fratelli Severini sembrano rifarsi La Notte di Genova, in ricordo di Carlo Giuliani, rabbioso rimembrare di quei tristi giorni del G8; così come la leggiadra ballata Johnny e Mary, storia d’amore ai tempi della Resistenza, con ospite alla voce proprio Marino Severini. La fisarmonica e il violino tessono invece la melodia, d’acustica drammaticità, di Portella Della Ginestra ricordo musicale della prima strage dell’Italia Repubblicana, con, a dar manforte dietro al microfono, il conterraneo Luca Lanzi della Casa del Vento. Debitrice nei confronti della patchanka ramblersiana sono invece tanto Il Canto Della Rivolta quasi un estratto da “La Grande Famiglia” imperniata qual è delle calde sonorità mediterranee del Sud Italia; quanto Ion Cazacu, che narra la storia, di drammatica attualità, del piastrellista rumeno barbaramente ucciso, dal proprio datore di lavoro, solamente per aver chiesto di veder riconosciuti i propri diritti di lavoratore. Allarga il discorso sonoro ai padri putativi dei ramblers emiliani, i Pogues, la sfrenata danza irish di Rory Prende La Via Della Collina, scritta ed arrangiata su di un brano strumentale, Repealing of the licensing laws, frutto della penna di Shane McGowan e compagni di bisbocce alcoliche. Manifesto sonoro dell’album, quanto del vivere la “sette note” dei toscani, è Musica Popolare; emblematica nel suo descrivere una materia sonora che i nostri cercano di attualizzare con il proprio fervore giovanile, al contempo lanciando il monito di non dimenticare le lezioni impartite dalla storia, in quanto “la coscienza di un popolo è la memoria”. D’ispirazione letteraria è invece la conclusiva Una Questione Privata, partorita in seguito alla lettura dell’omonima opera di Beppe Fenoglio, dove spicca il recitativo di Paolo Marchetti Maestri dei piemontesi Yo Yo Mundi, prima di lasciare i giovani toscani da soli, alle prese con il canto partigiano Ora e Sempre Resistenza, qui celato sotto forma di ghost track. Certo, si può forse imputare ai nostri di non inventare nulla di nuovo, quanto di riprendere ed attualizzare dettami di “vecchi maestri”, ma è indubbio che lo facciano con innegabile onestà e il giusto piglio combattivo. D’altronde “in culo ai benpensanti, ai furbi, e ai delinquenti, è soltanto verità da raccontare….è la musica popolare”.

mercoledì 25 settembre 2013

Papermoons - No love

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Indie folk, ovvero l’etichettatura musicale oggi più utilizzata, nonché abusata, dagli addetti ai lavori nel recensire il sempre maggior numero di uscite discografiche provenienti da una ramificazione della musica “alternativa” che ha visto, mai come in questo ultimo decennio, un continuo “sbocciare” tanto di band quanto di solitari artisti, dediti a questa materia sonora, sdoganata anni or sono da uno sparuto gruppo di imberbi pionieri, ed ora ragion d’essere per altrettanti “ragazzotti di belle speranze”. Purtroppo in quel grande“guazzabuglio sonico”, che è diventato per l’appunto oggi l’indie folk, a farla da padrone è spesso un mero derivatismo, se non una vera e propria scopiazzatura, da parte delle nuove leve, degli stilemi dei “capofila”, oggi per lo più assurti a fama internazionale, mentre è sempre più raro imbattersi in nuove “creature di alternatività folkie” trasudanti se non originalità perlomeno un pizzico di personalità. Esistono tuttavia anche “creature ibride”, che sembrano aver trovato la propria ideale collocazione su coordinate geografico-musicali giusto al confine tra la libera ed originale espressione del proprio estro creativo, e il ricalcare, pedissequamente, le gesta dei propri predecessori. Una “terra di mezzo” nella quale hanno deciso di stabilirsi i texani Papermoons arrivati oggi con No Love, dopo il debutto New Tales del 2009, alla loro seconda prova discografica. Il duo di Austin, la cui ragione sociale è democraticamente divisa tra Matt Clark e Daniel Hawkins, possiede infatti le caratteristiche “genetiche” tipiche del genere in questione, ovvero architetture di stampo elettroacustico, melodie d’ampio respiro, saliscendi armonici e ritmici, e più corpose aperture rockiste, alle quali si aggiungono un ben calibrato uso delle armonie vocali, autentico canale emozionale della loro proposta sonora. Fedeli osservanti della filosofia “less is more”, i due americani danno infatti vita ad evanescenti aure folkie, scalfite da volute elettriche di mai eccessiva invasività, il tutto sublimato in una musicalità avvolgente, dove le liriche, scandaglianti in egual modo tristezza e speranza, emergono in tutta la loro profondità; come in Deep Blue, che da un feedback chitarristico iniziale si sviluppa sull’ossessiva reiterazione dei riff della chitarra medesima, stemperandosi nella corso della narrazione sonora in soffuse oasi acustiche, per raggiungere il proprio climax, elettrico, nel finale. Sulla falsariga di quest’ultima sono sia Ghost, dall’inizio attendista, per poi abbandonarsi ad ombrose perdizioni rock, che Goodnight Son, tra sventagliate chitarristiche e lancinanti assoli, con il percuotere della batteria di Hawkins a costruire una precisa trama ritmica; fino a giungere all’ipnotico dipanarsi di Heart/Brain, tra livore psichedelico e fluttuanti incroci vocali. Liricità vocale che raggiunge tuttavia il proprio zenit negli episodi di maggior introspezione, o di più rigorosa attinenza al verbo indie folkie, quali la meravigliosa Cold Dark Moon, acquerello acustico dipinto dal lieve arpeggiare della chitarra acustica, con la sei corde elettrica ad abbellire il tutto con eterei ricami melodici; o nella quiete pastorale di una Pining solo nel finale nuovamente attorniata da temporaleschi bagliori elettrici. Non poteva mancare, sempre per la “legge del derivatismo” di cui sopra, un rimando, e neanche tanto velato, ai “pesi massimi” Mumford and Sons, il cui enfatico crescendo elettroacustico pare essere diventato un vero e proprio trademark sonico del genere in esame (equiparabile, con i dovuti distinguo d’importanza storico-musicale, al Boom chicka boom di cashiana memoria), e viene dal duo ben fagocitato e riproposto nella conclusiva Lungs. Niente di nuovo sul fronte dell’indie folk dirà qualcuno, certo aggiungiamo noi, ma i Papermoons, pur navigando sicuri su rotte già tracciate, ed ampiamente percorse da altri, sono riusciti a forgiare un album di assoluta godibilità, nel quale lucidità esecutiva e ispirazione compositiva sono indissolubilmente legate.

martedì 17 settembre 2013

Diodato - E forse sono pazzo

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L’urgenza espressiva e la passionalità tipica dei vent’anni, unite ad un songwriting che invece tradisce, per maturità, l’imberbe età anagrafica; ecco descritto in poche parole quanto contenuto in E Forse Sono Pazzo, opera prima a marchio Diodato. Un esordio a dir poco spiazzante per la forza delle proprie architetture
sonore, e per una voce, quella del giovane cantautore romano, capace di volteggiare libera verso altitudini d’inedita forza espressiva. A questo si aggiungono un pugno di composizioni frutto di una fervida vena autoriale, in grado di intrecciare, con sorprendente naturalezza, la forza propulsiva del rock, dalle più differenti ascendenze stilistiche e geografiche, con la suggestione melodica del cantautorato nostrano.
Appartiene ai primi una Ma Che Vuoi che saccheggia a piene mani il rifferama recente delle ‘Regine dell’Età della Pietra’, così come una graffiante e sincopata Se Solo Avessi Un Altro ingloba in essa i fantasmi del primigenio rock’n’roll. La caratura interpretativa di Diodato ha modo tuttavia di manifestarsi appieno nei brani di maggior dilatazione sonica, come la title track, ballata dall’immaginifica impalpabilità, o in Ubriaco che, nel suo lento volteggiare armonico, mostra come le radici cantautorali del nostro siano ben piantate nel fertile terreno nostrano. E se le due anime sonore, fin qui descritte, in solitaria sanno regalare momenti di ottima musica, quando si incontrano il risultato va ben al di là della somma delle singole parti, come si può evincere in Capello Bianco, per costruzione e resa sonora l’apice dell’intero album, o in una riuscita rivisitazione di Amore Che Vieni, Amore Che Vai, estrapolata dal repertorio deandreiano e pervasa da accecanti folgori elettriche. Frutto dei giovanili ascolti, e di una mai celata passione floydiana, è invece E Non So Neanche Tu Chi Sei, dove, complice anche l’avvolgente liquidità dell’hammond, il nostro compie il proprio, personale, viaggio sul “lato oscuro della luna”. Forse sarà davvero pazzo Diodato, ma nella sua lucida follia è riuscito a mettere a punto un esordio d’indubbio spessore, il quale merita, senza remora alcuna, di essere ascoltato ed assaporato in tutta la sua interezza.