lunedì 28 novembre 2011

Jennie Lowe Stearns - Blurry Edges

(Pubblicato su Rootshighway)

Un'artista a tutto tondo Jennie Stearns, come ci conferma la sua ultima fatica discografica, Blurry Edges, album concepito e ultimato passo passo con una cura quasi maniacale verso ogni singolo dettaglio. A cominciare dalla produzione, che vede la nostra affiancarsi dietro al banco di regia ad Alex Perealis e al proprio tastierista Michael Stark, fino ad arrivare alla copertina, opera anch'essa dell'artista, dipinta durante la fase di missaggio del disco. Cura verso i dettagli che, unita a un pugno di canzoni intrise di atmosfere di chiara matrice folk, porta alla realizzazione di un album intenso ed affascinante. Ottima anche la scelta di sfruttare appieno, per la prima volta in studio, le potenzialità dei Fire Choir, band ormai solida e rodata, che solitamente accompagna l'artista dal vivo. Un suono, quello che pervade Blurry Edges, che attinge come dicevamo poc'anzi dalla tradizione folk americana, con un forte retrogusto country, tra lap steel, piano e chitarra acustica. Atmosfere soffuse quindi, che in alcuni casi si fanno quasi cupe, come nell'opener Shadow on the lake, ombrosa fin dal titolo, dal ritmo cadenzato, con il piano intento a contrappuntare con mirati ed affascinanti interventi la chitarra acustica della nostra. Pale blue parka è una piccola perla di rara bellezza, con una batteria spazzolata e un contrabbasso a dettare il ritmo, sul quale la voce quasi sussurrata della Stearns ben si amalgama con il controcanto di Emily Arin. Interpretazione vocale che rimane su livelli emozionali altissimi anche nelle successive e pianistiche Lose control e Frida, che hanno il pregio di esplorare il lato più cantautorale dell'artista. La lap steel di Joe Novelli ammanta di country le impalcature sonore di Grasp e Light of day, riportandoci in territori cari alla tradizione musicale americana. In from the cold è invece un piccolo e suggestivo acquarello acustico, dipinto da piano, chitarra e lap steel. Contrabbasso e batteria ci guidano nuovamente verso sonorità più tetre in Underwater dove restano ancora da segnalare gli ottimi incastri vocali tra le due voci femminili, con Stark che si destreggia da par suo al piano. Strumento quest'ultimo che torna protagonista nell'onirica Thieves, insieme alla batteria di Matt Sacucci Morano, percossa dolcemente con i mallets, creando così un alone sonoro sinuoso ed avvolgente.
Alla title track, posta in chiusura, spetta invece il compito di condensare in un unico brano tutti gli elementi sonori precedentemente descritti. Parte quasi in sordina, come un'eterea ballata, per crescere d'intensità durante il suo svolgimento fino a sfociare nel finale verso derive elettriche cariche di feedback. Ne possiede di talento Jennie Stearns e qui viene espresso nella sua totalità, mostrandoci un'artista sicura dei propri mezzi e capace di scrivere canzoni dal peso specifico davvero notevole. Un consiglio spassionato, ascoltatelo durante una giornata piovosa, il cadere della pioggia accentuerà ulteriormente le atmosfere rarefatte del disco, per un'esperienza sonora che vi lascerà senza fiato.

                       
                             

                        

giovedì 24 novembre 2011

Wilco - The whole love

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Sull’eclettismo musicale dei Wilco si potrebbe scrivere un trattato; basti solamente osservare il tragitto sonoro che i nostri hanno percorso a partire dal loro debutto fino ad arrivare al nuovo The Whole Love. Un lungo ed intenso viaggio in musica che a partire dalle atmosfere alternative country che permeavano il loro primo vagito in studio, ha portato il gruppo a reinventarsi disco dopo disco nel nome di una sperimentazione sonora che non ha conosciuto sosta.
Merito senza dubbio del talento compositivo di Jeff Tweedy, a mio parere uno dei maggiori songwriter della sua generazione, nonché di un manipolo di musicisti eccelsi per inventiva e capacità tecniche, che ha trovato nell’inserimento in pianta stabile di Nels Cline e Glenn Kotche nuova linfa creativa.  Un combo che ha fatto della ricerca sonora il suo credo, arrivando a toccare in passato vette di ineguagliabile bellezza. Ricerca capace di fondere tra di loro i generi più disparati; dal folk al country, fino ad arrivare all’alternative rock ed all’elettronica, uniti a un gusto per la melodia smaccatamente pop, il tutto in una miscela sonora difficilmente riscontrabile in altri gruppi dell’odierno panorama musicale. I Wilco rappresentano infatti un’entità a sé stante, lontana da catalogazioni o inserimenti in questa o quella scena, in quanto fautori di un sound capace, come accennato poc’anzi, di travalicare ogni confine musicale. A questo si aggiunge la recente creazione di una propria casa discografica, la dBpm per la quale viene pubblicato lo stesso The Whole Love, ulteriore segnale di un’ormai raggiunta indipendenza artistica. Prima di passare a trattare dell’aspetto prettamente musicale è doveroso soffermarsi sull’aspetto grafico dell’album. La versione deluxe di quest’ultimo è infatti particolarmente ricca e curata, merito senza dubbio di una lussuosa versione cartonata e di un corposo libretto contenente tutte le liriche e alcune splendide foto. L’occhio è pertanto sicuramente appagato ma ora è l’orecchio a reclamare la propria parte. Partiamo subito dicendo che The Whole Love non è un disco di facile fruizione, complice anche una stratificazione sonora piuttosto complessa unita ad un’eterogeneità di stili che si fa in questa occasione ancora più marcata rispetto al passato. Per farvi un’idea complessiva delle sonorità che troverete ivi contenute, immaginate di porre una carica esplosiva sotto la discografia wilconiana, e una volta fatta brillare quest’ultima di raccattarne i detriti sonori, componendo con essi un nuovo e intrigante mosaico musicale. Compito di aprire le danze spetta a quello che forse è il brano più sperimentale del lotto; Art Of Almost. Lunga, complessa, si sviluppa lentamente su più livelli, tra squarci elettronici, interventi orchestrali e reminescenze pop, in una sorta di calderone sonoro di grande suggestione. Scelta come singolo, I Might, cattura invece fin dal primo istante, con il suo incedere in bilico tra pop e rock, così come avviene nella pianistica Sunloathe e in Born Alone, dove riemerge il gusto per la melodia che da sempre contraddistingue i nostri. Black Moon e Open Mind ci riportano invece in territori cari al Jeff Tweedy più folk oriented, tra soffuse atmosfere acustiche, con la lapsteel di Nels Cline in primo piano. La swingata Capitol City ricorda in più di un frangente la produzione più scanzonata a marchio McCartney, nei bei vecchi tempi beatlesiani. Rising Red Lung è una nuova parentesi dai toni tenui, nella quale ampio spazio viene lasciato alle chitarre elettriche di Cline e Sansone, che avvolgono la suadente melodia opera della chitarra acustica di Tweedy. Dawned On Me e Standing O ricalcano invece quella formula sonora che ha reso celebre il gruppo, un intreccio tra sperimentalismo rock e armonie di matrice pop, che viene ripreso anche nella title track. La vera sorpresa arriva però in chiusura con la struggente acusticità di One Sunday Morning, disgressione musicale di dodici minuti, tra umori bucolici e derive in odore di psichedelia, per quella che è l’ennesima perla partorita dalla fervida mente di Tweedy. Nella versione deluxe possiamo inoltre trovare un secondo dischetto contenente alcune succose sorprese, che lascio a voi il piacere di scoprire.
The Whole Love è senza ombra di dubbio un nuovo splendido tassello di una discografia lastricata di piccoli grandi capolavori, e conferma una volta di più i Wilco come una delle più straordinarie rock band attualmente in circolazione.

mercoledì 23 novembre 2011

Watermelon Slim and Super Chikan - Okiesippi blues


Dopo tre ottimi album all’insegna del blues più sanguigno e viscerale, incensati dalla critica tanto da fare incetta di svariati premi, Bill Homans (aka Watermelon Slim), aveva spiazzato più di un ascoltatore, sottoscritto compreso, con un’improvvisa svolta verso sonorità country. Svolta che aveva portato alla pubblicazione di due dischi, Ringers e Escape from the chicken coop, di buona fattura ma senza dubbio inferiori ai loro predecessori. Ed è pertanto con un sorriso che ho accolto la notizia della pubblicazione di un nuovo album del nostro, in coppia con l’amico di lunga data James Johnson (aka Super Chikan). La coppia ha infatti approntato un lavoro che trasuda blues da ogni singola nota, scarno, essenziale ed ad alto tasso emotivo, come nella miglior tradizione del genere. Il blues è da sempre puro sentimento, musica che fluisce spontanea dal profondo dell’anima, e solo in pochi riescono a trasferire su pentagramma le intense emozioni legate ad esso. Di questa ristretta cerchia di musicisti fanno sicuramente parte i nostri eroi, che con questo Okiesippi blues, dimostrano una volta di più di saper egregiamente maneggiare la materia in questione. Queste due vecchie volpi hanno messo insieme una serie di pezzi, tra autografi e rivisitazioni, che trovano la loro forza nell’essenzialità sia a livello strumentale che di suono. Qui non troverete ensemble allargati, ospiti di lusso o debordanti divagazioni strumentali, ma solo due amici intenti a dialogare tra di loro con i propri strumenti. Ed è proprio un’atmosfera amichevole quella che si respira all’ascolto dell’album, una sorta di rimpatriata tra due vecchi compagni d’avventura che si ritrovano dopo tanto tempo e si raccontano le proprie esperienze di vita tramite un comune linguaggio, quello del blues. Basti prendere, per capire quanto detto poc’anzi, l’opener Trucking blues, dove è l’ipnotica chitarra di Super Chikan a condurre le danze, con Slim che soffia diligentemente nella propria armonica, e con le voci dei due che si alternano in una sorta di talking blues. Formula questa che viene ripresa e ulteriormente estremizzata anche in Northwest regional medical center blues, con Slim nel ruolo di narratore. I don’t wear no sunglasses vede salire nuovamente in cattedra quest’ultimo, per un torrido blues governato dalla chitarra slide, che rimanda ai gloriosi tempi dei primi dischi in compagnia dei Workers, con la voce di Slim, resa scura, cavernosa e roca dagli anni trascorsi a macinare chilometri lungo le highways americane, che assurge a vera protagonista. The trip è affidata invece alle sapienti dita di Super Chikan, che scorrono fluide e sicure sui tasti della chitarra, ed alla sua suadente e nera voce che sa conquistare fin dalla prima sillaba. I’m a little fish e You might know, dimostrano una volta di più come i nostri si trovino a proprio agio a suonare insieme e come la loro vena compositiva sia tutt’altro che inaridita. Dagli umori deltaici Moonshine vede nuovamente Johnson alla voce principale con Slim intento a fargli da contraltare prima con l’armonica e poi con la propria voce. Travolgente jam strumentale è invece Diddley-bo jam, dove i due si destreggiano ai rispettivi diddley-bow, strumento di origine africana ad una sola corda. Dal continente africano arriva anche la kalimba, con la quale Slim si cimenta in un’improbabile quanto riuscita rivisitazione di Within you without you, dal repertorio beatlesiano di George Harrison. Thou art with me, con le sue atmosfere acustiche ci riporta indietro nel tempo lungo le rive del Mississippi, sulla veranda di una vecchia baracca, sperduta in una delle immense piantagioni di cotone. Vero punto focale del disco è però la ripresa per sole voci e battito di mani e piedi di Keep your lamp trimmed and burning di mcdowelliana memoria, con Watermelon Slim istrionico maestro di cerimonie. Un disco fatto con classe, capacità e grande cuore, che è una fulgida testimonianza di quanto i nostri abbiano appreso dai loro viaggi musicali nella tradizione afroamericana.

venerdì 18 novembre 2011

Maria Muldaur - Steady love


(Pubblicato su Rootshighway)

Per il suo nuovo album Maria Muldaur opta per un ritorno in un luogo a lei musicalmente molto caro, New Orleans. E proprio questa scelta influenza in modo più che positivo la realizzazione di Steady Love. Aiutata da un nugolo di esperti musicisti della Crescent City (tra i quali spiccano membri dei Neville Brothers e dei Subdudes) la Muldaur da infatti alle stampe un album che pare aver assorbito tutti gli aromi sonori che la città della Louisiana sa sprigionare. Un gumbo musicale a base di speziato blues, piccante swamp funk e dall'intenso retrogusto soul, in grado di unire egregiamente sacro e profano. Da sempre ottima interprete di brani altrui anche in questo caso la cantante sceglie con cura una serie di cover mai banali o scontate. E' il caso di I'll be glad, dal repertorio di Elvin Bishop, che apre egregiamente le danze, mostrandoci fin da subito quale sarà il tenore del disco. Uno shuffle che l'interpretazione vocale della Muldaur fa virare in territori vicini al soul, ricordando in alcuni frangenti quanto fatto recentemente da Mavis Staples. Why are people like that? è un sentito omaggio a una delle leggende della Louisiana, il mai troppo rimpianto Bobby Charles, e riesce a catturarne in modo egregio lo spirito musicale. Impetuosa è la ripresa di Soulful dress di Sugar Pie DeSanto, swamp venato di blues in cui la band gira a pieno regime e la voce della Muldaur graffia da par suo. Voce ancora protagonista nella trascinata Blues go walking, che arriva dalla prolifica penna di Greg Brown.
L'intensa rilettura del traditional I done made it up in my mind sfocia invece nel gospel, con la voce della nostra ben supportata da un coro preciso e puntuale, con la band che suona come se si trovasse davanti a una congregazione religiosa. Gospel, seppur venato di blues, che ritroviamo nella sempre meravigliosa Don't ever let nobody drag your spirit down, con un sapiente uso del "call and response". Ballata in odore di gospel è anche la tersa I am not alone con la chitarra di Rick Vito ad impreziosire il tutto e con la nostra impegnata a duettare con la figlia Jenny. Torna invece in primo piano il blues nello shuffle Get you next to me, e nei ritmi rallentati del sontuoso slow Rain down tears, ulteriore testimonianza della duttilità interpretativa della cantante. Conquista fin dal primo ascolto la titletrack, grazie anche al fondamentale apporto di una sezione fiati e di un liquido hammond, che rendono ancora più corposo il suono. L'invocativa Please send me someone to love sembra cucita addosso alla Muldaur, terreno ideale per la sua voce che la patina del tempo ha reso ancora più bluesy. Walk by faith, scritta dal compianto Stephen Bruton, unisce il fervore religioso del gospel con le atmosfere tribali della Crescent City. Un album decisamente riuscito quindi, grazie anche a una formula semplice quanto efficace; un pugno di brani, riarrangiati su misura per la Muldaur, e la voce di quest'ultima che fa la differenza.


venerdì 4 novembre 2011

Articolo su Levon Helm

(Pubblicato su Mixed Bag)

"We wound up in Woodstock, at an old time jamboree,
came to see the man behind the drums” (The man behind the drums – Robert Earl Keen)"


Batterista, mandolinista e cantante solista in quel gruppo seminale che è stata la Band; già solamente questo potrebbe farci capire la caratura artistica di Levon Helm. Un’avventura irripetibile, che ha portato alla nascita delle radici di quella che oggi chiamiamo Americana.  Nato ad Elaine in Arkansas, in un ambiente umile ed agreste, profondamente legato alla musica delle radici, Levon ha sempre cercato di raccontare la campagna, nella quale è cresciuto, e  le storie, tra fatica e sofferenza, della sua gente. Ha intrapreso una carriera solista, con molte luci e poche ombre, attraverso la quale ha continuato ad esplorare i meandri più nascosti della tradizione musicale americana, bianca e nera. Levon Helm and RCO Allstars, primo vagito solista, vede la luce nel 1977 ed è l’ideale summa delle sue influenze musicali, un robusto rock blues in odore di tradizione, nel quale ad assurgere a vere protagoniste sono la sua batteria e la sua voce. Merito anche di una backing band a dir poco stellare, che annovera tra le sue fila tre-quarti degli Mg’s; Booker T Jones all’organo, Steve Cropper alla chitarra e Donald “Duck” Dunn al basso, ai quali si aggiungono Mac Rebennack alias Dr John al piano, Paul Butterfield all’armonica, Fred Carter Jr alla seconda chitarra nonché la sezione fiati del Saturday Night Live. Un album che allinea dieci canzoni pressoché perfette, dal rhythm and blues Washer woman con i fiati e l’armonica sugli scudi, alle travolgenti The tie that binds e Milk cow boogie, dove è il nostro a destreggiarsi sapientemente dietro ai tamburi. Le deliziose Blues so bad e Sing sing sing, hanno invece il pregio di confermare una volta di più le sue straordinarie capacità canore. Poco inferiore rispetto al debutto è Levon Helm , del 1978, in parte colpevole di ammiccare in più di un’occasione al rock patinato, come nell’opener Ain’t no way to forget you. Manca inoltre il parterre di stelle del precedente, ma il gruppo assemblato per l’occasione svolge dignitosamente il proprio compito. La riuscita Driving at night e la pianistica Playing something sweet, ricalcano le sonorità del disco precedente, mentre alquanto sottotono risultano Standing on a mountain top dall’incedere quasi reggae e la sapida I came here to party. Di notevole fattura sono invece Let do it in slow motion e Sweet Johanna, mentre Take me to the river, intrisa di soul fino al midollo, da sola varrebbe l’acquisto dell’album.  Edito nel 1980, American son, riesce nell’intento di coniugare atmosfere rhythm and blues con elementi derivanti dalla tradizione musicale bianca. Apertura affidata a Watermelon time in Georgia, nella quale si respirano arie country folk, con Levon impegnato anche all’armonica. Un lavoro che alterna canzoni di valore (America’s farm dal retrogusto southern, Hurricane che richiama le sonorità della Band) riusciti episodi ( Blue house of broken hearts e il quasi shuffle Nashville wimmin) e  qualche brano interlocutorio (China girl), per un album che, ancora oggi, risulta comunque fresco e godibile. Lo stesso anno il nostro debutta anche come attore, nel film Coal miner’s daughter, ottenendo critiche più che positive. Sarà questo il preludio ad una parallela carriera d’attore che lo vedrà recitare, anche se in ruoli secondari, in ben 16 film (ultimo dei quali In the electric mist del 2008, al fianco di Tommy Lee Jones).  Nel 1982 viene dato alle stampe Levon Helm, decisamente meno riuscito rispetto al suo omonimo predecessore. Colpa soprattutto della pessima produzione, opera di Donald “Duck” Dunn, che ne snatura il suono, indirizzandolo verso tronfie atmosfere anni Ottanta. Qualche traccia salvabile la si potrebbe anche trovare, ma di brani memorabili non ve ne è traccia. Willie and the Hand Jive è passabile ma nulla più, e lo stesso vale per brani come You can’t win them all o Lucrecia, devastati da assurdi overdubs di chitarra e da una batteria filtrata da terrificanti echi e riverberi. Unica nota non stonata è la voce di Helm, capace come sempre di lasciare il segno. Un disco che rimane comunque il capitolo meno riuscito della discografia del batterista, e pertanto consigliato solo ai die hard fans. L’anno successivo la sua carriera da solista viene posta momentaneamente in standby, in favore della reunion della Band. Reunion che tra alterne riapparizioni  e tre buoni album in studio, si protrarrà fino al 1996. Annus horribilis per Levon Helm è invece il 1998; al nostro viene diagnosticato un tumore alla gola, dal quale riuscirà comunque a guarire completamente, seppur con gravi danni alle corde vocali, che sembrano comprometterne definitivamente la carriera musicale. Il nuovo millennio riaccende invece la speranza; la sua voce migliora e, pur non ai livelli del passato, torna ad essere forte ed espressiva. È però l’incontro con Larry Campbell, eccelso polistrumentista, con una lunga militanza nella band di Dylan, a sancire la sua rinascita artistica. Nel 2004 prende il via una lunga serie di concerti che prendono il nome di Midnight Ramble Sessions, in ricordo degli antichi medicine show itineranti, ai quali partecipano artisti del calibro di Dr John, Black Crowes, Hot Tuna, Phil Lesh e molti altri. Due di queste straordinarie esibizioni verranno edite nel 2005 in due volumi separati. The Midnight Ramble vol I, ci mostra il profondo legame tra Levon Helm e la musica nera, e vede la presenza di Little Sammy Davis all’armonica. Una perfomance di rara intensità che arringa classici del blues come I’m ready, Blues with a feeling e Blow wind blow, riletti con sentimento e passione. Blues presente anche in The Midnight Ramble vol II, che amplia lo spettro sonoro del precedente inglobando robuste dosi di rock’n’roll e spruzzate di musica old time. Degne di menzione sono le riletture di Battle is over but the war goes on, della dylaniana Don’t ya tell Henry e della bluesata Blue shadows, nella quale compare Elvis Costello. Altro gradito ospite è il vecchio compagno Dr John, che in Borrowed time gigioneggia da par suo. Nello stesso periodo, viene pubblicata la registrazione di un vecchio concerto, effettuata pochi mesi dopo il suo debutto solista. Live at the Palladium NYC ci permette di assaporare la maestria della RCO Allstars Band anche on stage, con i brani del disco in studio che acquistano nuova linfa vitale. Le vere gemme sono però altre, a cominciare da una rilettura al fulmicotone di Goin’ back to Memphis, con il nostro a fare il buono e cattivo tempo dietro i tamburi. Ampio spazio viene anche lasciato agli altri musicisti, come in Born in Chicago, dove sono la voce e l’armonica di Paul Butterfield a salire in cattedra, o nella strepitosa versione del classico Got my mojo working, che Dr John trasforma in una sorta di rito voodoo. Ophelia omaggia il passato con la Band, mentre una scoppiettante versione di Goodnight Irene, di Huddie Ledbetter, chiude in bellezza la serata. Sotto l’egida di Larry Campbell, esce invece nel 2007, ad oltre venticinque anni di distanza dall’ultimo disco in studio, Dirt farmer. Un sentito tributo acustico alla musica delle radici, che si aggiudica il Grammy Awards come miglior album di folk tradizionale. Ad esso fa da contraltare il più muscolare Electric dirt (Grammy Awards come miglior album Americana), nel quale spiccano una sontuosa rilettura di Tennessee Jed di Jerry Garcia, il sentito omaggio a Muddy Waters con You can’t lose what you ain’t never had e la struggente e autografa Growin trade. Sarabanda musicale in puro New Orleans style è Kingfish, con i fiati arrangiati da Allen Toussiant, mentre When I go away, con i suoi intrecci vocali da brividi è il picco artistico dell’album. Il live Ramble at Ryman, registrato nel tempio della musica country, vede la presenza di ospiti illustri come John Hiatt, Buddy Miller, Sam Bush, Sheryl Crow, ed è l’ulteriore testimonianza di come, a 71 anni, Levon Helm stia vivendo una seconda giovinezza artistica.




DIRT FARMER

Vanguard

2007

Venticinque lunghi anni, tanto è passato dall’ultima prova in studio di Levon Helm. Un ritorno in sala d’incisione quasi insperato visto il cancro alla gola che lo aveva colpito, compromettendone in parte la voce. Una voce, che seppur minata in potenza, torna a regalare intense emozioni. Un piccolo capolavoro acustico questo Dirt farmer, un sentito omaggio alle proprie radici musicali, andando a scavare all’interno della tradizione americana. Intrisa di atmosfere agresti, la quasi bluegrass False hearted blues, ci fa capire da subito la caratura del disco, con la voce del nostro in primo piano. Trasuda tradizione Poor old dirt farmer, con il violino di Larry Campbell e l’accordion di Brian Mitchell a tracciare la melodia, sulla quale si stagliano la voce di Levon, ed i cori della figlia Amy e di Teresa Williams, per un brano dal testo forte e impegnato. Ottima si rivela la rilettura di The mountain, dal songbook di Steve Earle,  brano che pare scritto per il nostro, che lo canta con passione e trasporto. The train a robbery e Got me a woman, giocano con la tradizione, tra atmosfere old time, con Helm che si destreggia nell’ultima al mandolino. Feeling good è invece un omaggio a JB Lenoir e al blues tanto amato dal batterista. Calvary, scritta dal bassista Byron Isaacs, non sfigura in mezzo ai tradizionali, merito anche di un’interpretazione maiuscola del nostro. Le struggenti Little birds e Anna Lee impressionano invece per semplicità e vedono nel violino lo strumento guida. Due brani sofferti dove la voce di Helm raggiunge picchi d’intensità emotiva prima mai sfiorati. Chiude il disco la tersa Wide river to cross, scritta da Buddy Miller. Un album che omaggia le proprie radici e il proprio passato con cuore e passione e sancisce il ritorno di uno dei più straordinari interpreti della tradizione musicale americana.


 


                            

William Elliott Whitmore - Field songs

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Esiste un’America profondamente innamorata delle proprie radici musicali; un manipolo di musicisti che rivolgono il proprio sguardo a musiche del passato, attualizzandole, innervandone il suono con nuova energia. Old Crow Medicine Show, Carolina Chocolate Drops, Gillian Welch e Dave Rawlings, sono solo alcuni nomi di questa sempre più nutrita cerchia di revivalisti, alla quale appartiene a tutti gli effetti anche William Elliott Whitmore.
Cresciuto in una comune punk, il nostro ha sempre cercato, nei suoi dischi, di inglobare la tradizione musicale afroamericana, fondendola con elementi prettamente moderni. Ne è nata una formula sonora, accattivante e di grande suggestione, che ha visto nel precedente Animals In The Dark la sintesi perfetta di questo connubio tra tradizione e modernità. Ritiratosi in una piccola fattoria, a Montrose, nello sperduto e natio stato dell’Iowa, Whitmore si dedica oggi, oltre che alla musica, anche al lavoro nei campi. Una vita dura e faticosa, capace di avvicinarlo ulteriormente alle proprie radici musicali, a quel blues prebellico e a quel folk che risuonavano nelle campagne nei primi decenni del secolo scorso. E proprio da questo ambiente agreste sono scaturite otto piccole gemme; otto composizioni dal sapore antico, che compongono Field Songs, sua ultima, stupenda fatica discografica. Whitmore ha più volte dichiarato di essersi voluto identificare attraverso queste canzoni, con tutte quelle persone che nel mondo faticano per sopravvivere; gente reale che si alza al mattino e fa il proprio lavoro senza lamentarsi e senza arrendersi mai. Parole che descrivono perfettamente la profonda valenza socio-musicale di Field Songs, ricordando quelle utilizzate in passato da Woody Guthrie, il più grande folk singer di sempre, per descrivere le proprie composizioni. Ed è proprio l’analogia con il cantore di Okemah, quella che balza all’orecchio. Le liriche sono, infatti, per entrambi parte fondamentale della composizione, in quanto capaci di risvegliare le coscienze, mettendo in luce soprusi e ingiustizie.
E in Field Songs la scrittura di Whitmore raggiunge livelli altissimi, narrando vicende e storie nelle quali ognuno di noi può identificarsi. Storie di sudore, rabbia e dolore, di un’umanità spesso senza voce, ma che vive e lotta ogni giorno con tutta la propria forza. Argomenti tremendamente attuali, che il nostro canta con un trasporto e con un’anima difficilmente ritrovabile in molti dei suoi colleghi incensati dalla critica. E proprio la voce di Whitmore ha ruolo preponderante nell’economia sonora del disco; una voce rauca, scura, profondamente nera, che ti penetra dentro rivoltandoti l’anima. Una voce che spicca per liricità su di un impianto musicale scarno e acustico, nel quale sono il banjo e la chitarra a dettare i ritmi, con una grancassa che compare in un paio d’occasioni.
Registrato in solitario e in presa diretta Field Songs sembra far parte delle registrazioni effettuate sul campo da John e Alan Lomax negli anni ’30. A questo si aggiungono delle vere e proprie field recordings, ad opera dello stesso Whitmore, registrate nei dintorni della propria fattoria, che ci accompagnano dalla prima canzone (il canto di un gallo) all’ultima (il gracidio delle rane e il frinire dei grilli), in una sorta di metaforico viaggio attraverso una giornata di duro lavoro nei campi. Ed è proprio questa l’aria che si respira all’ascolto del disco, tra forti sapori blues, folk bucolico e canti di lavoro, che caratterizzavano nel passato la vita agreste. Atmosfere old time delle quali è permeata Bury Your Burdens In The Ground, intrisa della struggente liricità del gospel con il banjo a tessere la linea ritmica e melodica, che ci invita a seppellire i nostri fardelli e continuare la nostra vita imparando dagli errori commessi. Field Song sembra invece provenire da un campo di cotone, una sorta di holler del nuovo millennio, con la voce di Whitmore che si fa scura, rauca, per un’interpretazione al limite della sofferenza. Sofferenza che ritroviamo nelle drammaticità di Don’t Need It, in odore di blues, dove fa la sua comparsa una chitarra elettrica, unica concessione modernista dell’intero lavoro. Di rara intensità è la successiva Everything Gets Gone, tersa ballata per sola voce e chitarra, nella miglior tradizione del folk statunitense. Il banjo di Let’s Do Something Impossibile ci riporta nuovamente ad atmosfere arcaiche e rurali, diretta discendente della musica dei Monti Appalachi. Utopica e sognante è Get There From Here, mentre ritroviamo nuovamente elementi cari al gospel in We’ll Carry On, che incanta tra speranza e sogni per un futuro migliore. Chiude il disco la magnifica Not Feeling Any Pain, ben rappresentativa della caratura artistica dell’intero lavoro.
In Field Songs Whitmore è riuscito a far emergere, ancor più che in passato, il proprio talento compositivo e interpretativo, confermandosi come uno dei più validi e sinceri prosecutori di una tradizione musicale ancora vitale. Sono sicuro che da lassù il buon vecchio Woody starà sorridendo soddisfatto.



                        

Ry Cooder - Pull up some dust and sit down

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Alla soglia dei 65 anni Ry Cooder non finisce di stupire. Dopo una straordinaria carriera contraddistinta dalla ricerca etno-musicologica, il chitarrista decide di scrivere canzoni vere, canzoni per la gente. Pull Up Some Dust And Sit Down, da un modo di dire degli anni Trenta, è una sorta di invito alla conversazione, a fermarsi a pensare. Ed è proprio a quegli anni che il nostro ha rivolto lo sguardo, agli anni della Grande Depressione, anni di lotta, sofferenza e disillusione. Tematiche purtroppo ancora attuali, in una società nella quale il gap tra ricchi e poveri si va ulteriormente allargando. I tempi sono difficili e Cooder ha deciso di far sentire la propria voce, come Woody Guthrie, Pete Seeger e molti altri avevano fatto prima di lui. Per farlo chiama a se, oltre al figlio Joachim, alcuni vecchi e fidati pards, come l’immortale Flaco Jimenez, Terry Evans, Willie Green, Arnold McCuller e Jim Keltner, approntando un disco di protesta forte e vigoroso, tra folk, blues e musica messicana, composto da 14 canzoni che sono altrettante urla di rabbia e dolore. Un esempio è la feroce Quicksand, già pubblicata prima dell’uscita del disco su I-Tunes, che si scaglia contro le repressive leggi anti immigrazione dello stato dell’Arizona, e i cui proventi verranno destinati al MALDEF (acronimo di Mexican American Legal Defense And Education Fund) che cerca di proteggere i diritti degli immigrati messicani. Alla marcia di stampo folk No Banker Left Behind spetta invece il compito di aprire l’album, e rievocando il titolo di un articolo apparso sul settimanale Truthdig, se la prende con le banche e lo strozzinaggio legalizzato, veri e propri cancri dell’economia mondiale. El corrido de Jesse James è puro mexican style, un armonioso valzer dove la protagonista indiscussa è la fisarmonica di Jimenez, ben sostenuta dai fiati della 10 Banda. Atmosfere messicane che pervadono anche l’incalzante Christmas Time This Year, che attinge dalla più pura tradizione nortena. Dirty Chateau e Baby Joined The Army sono due toccanti ed intense ballate; nella prima fanno la loro comparsa anche dei violini, mentre nella seconda troviamo il nostro impegnato a destreggiarsi in solitario con la propria chitarra. Humpty Dumpty World pare uscita da uno dei suoi primi lavori, riprendendo quegli stilemi sonori che sono diventati il suo marchio di fabbrica. Lord Tell Me Why è una sorta di gospel post apocalittico, con la batteria di Jim Keltner a dettare il ritmo e con un sapiente uso del call and response grazie anche all’apporto delle voci di Terry Evans, Arnold McCuller e Willie Green. Waitisiana per sonorità e interpretazione è invece la rabbiosa e convulsa I Want My Crown, con il nostro quasi diabolico alla voce. Entriamo in territorio blues con John Lee Hooker For President, dove Cooder ci narra cosa sarebbe potuto accadere se John Lee Hooker fosse diventato presidente degli Stati Uniti, riprendendo musicalmente lo stile del bluesman afroamericano. If There’s A God è un’ulteriore profonda critica nei confronti degli Stati Uniti, mentre Dreamer ci riporta nuovamente oltre il confine, in terra messicana. Simple Tools e No Hard Feelings sono ancora una volta due ballate che conquistano grazie alla loro suggestiva melodia e al sinuoso andamento.
Un album polemico, duro e politicizzato ma dalla bellezza adamantina. Un album coraggioso, scritto e suonato per far aprire gli occhi alla gente su di un mondo che sta scivolando verso un baratro senza ritorno.


                       

Richmond Fontaine - The high country

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe accaduto se Willy Vlautin, leader incontrastato dei Richmond Fontaine, avesse deciso un giorno di fondere insieme le sue carriere di musicista e scrittore. Carriere nelle quali fino ad oggi il nostro ha brillato per estro creativo e capacità narrativa, descrivendo sia in musica che attraverso la propria penna l’America dei perdenti e dei derelitti, tanto da essere appellato dai più come il “Bob Dylan dei diseredati”.
Alla mia curiosità sembrava poter dare finalmente soddisfazione il nuovo The High Country, sorta di concept album con il desolato e sperduto Oregon come cornice, narrante la storia di un giovane meccanico innamorato di una ragazza commessa del locale negozio di ricambi d’auto. Mettiamo però subito le cose in chiaro, dicendo che chi, come il sottoscritto, si aspettava una fusione musico-narrativa tra Post To Wire e Motel Lfe rimarrà in parte deluso. Vlautin appronta infatti per l’occasione una novella in chiave gotica, tetra e scura, nella quale non riesce a far confluire in egual misura narrazione e musicalità, ed è forse questo uno dei limiti maggiori di The High Country. Se infatti le canzoni possono essere equiparate a capitoli di un ipotetico romanzo, sono gli intermezzi sonori spesso a deviare o disturbare l’ascolto. Basti prendere frammenti come The Girl On The Logging Road o The Mechanic Falls In Love With The Girl, che anziché legare tra di loro i vari episodi musicali hanno il difetto di rendere la fruizione alquanto tediosa. Per non parlare poi di veri e propri aborti semi-musicali come la quasi recitata Claude Murray’s Breakdown o Angus King Tries To Leave The House, davvero inutili e assolutamente evitabili.
Manca insomma un continuum narrativo tra la parte letteraria e quella musicale, che alla lunga penalizza la buona riuscita del disco, ed è un vero peccato in quanto la penna di Vlautin in alcuni frangenti resta comunque ispirata. Paradossalmente alcune canzoni trovano la loro ragione d’essere prese singolarmente e non quindi facenti capo a un’opera più ampia. Prendiamo per esempio l’epicità di The Chainsaw Sea o la furia quasi garage di Lost In The Trees, che riportano alla luce l’anima più elettrica della band oppure On A Spree dall’incedere quasi marziale e la ruvida The Escape. Azzeccata è invece la scelta di affidare le parti vocali maschili (il giovane meccanico della storia) allo stesso Vlautin, mentre quelle femminili (la commessa) a Deborah Kelly, ex Damnations. Proprio la voce di quest’ultima ha il pregio di attenuare in parte le atmosfere distorte dell’album, riconducendole versi lidi più acustici, come avviene nella tersa Let Me Dream Of The High Country o nella struggente The Meeting On The Logging Road.
Con The High Country, Vlautin ha cercato di creare il suo piccolo grande romanzo americano in musica riuscendovi tuttavia solo in parte, peccando forse di pretenziosità. Il talento indubbiamente c’è ma ha forse bisogno di essere ulteriormente affinato se in futuro vorrà nuovamente impegnarsi in opere così ambiziose.


                       

giovedì 3 novembre 2011

Scott Matthew - Gallantry's favorite son

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Se il secondo disco è sempre quello più difficile nella carriera di un'artista (Caparezza docet), il terzo è altrettanto insidioso. Se con il secondo si deve infatti dimostrare di non essere un'effimera bolla di sapone, replicando spesso a un debutto incensato dalla critica come un piccolo capolavoro, è con il terzo album che si esprime spesso una raggiunta maturità artistica, nonchè una consolidata formula sonora. Ebbene, Scott Matthew con questo Gallantry's Favorite Son riesce egregiamente in entrambe le cose.Il cantautore australiano coniuga sapientemente un tenue indie-pop con la malinconia tipica del folk, in un album dove a prevalere sono i toni scuri e l'introspezione. Un disco nel quale sono gli strumenti a corde e le tastiere i veri protagonisti, mentre il lato prettamente ritmico è affidato a saltuari ma ben calibrati interventi di bizzarre percussioni, mai invasive e sempre al servizio della canzone. Le iniziali Black Bird e True Sting, sono ben esemplificative del lato più introspettivo del lavoro, con gli archi e le tastiere che si intrecciano tra loro, arricchendo la voce di Matthew, che riveste ruolo di vero e proprio strumento. Il nostro infatti ha approntato un impianto musicale parco e acustico, nel quale è spesso proprio la sua voce a risaltare per espressività diventando veicolo principale della sua musica. Apre ad atmosfere più solari, la giocosa Felicity, per fischiettii, violini, percussioni e chitarra, così come Devil's Only Child, dove fa la sua comparsa anche un clarinetto. Malinconica ballata è invece Duet, nella quale Matthew imbraccia il suo amato ukulele, che ben si amalgama con la chitarra acustica e con l'arpa, in un brano dall'alto tasso emotivo. Buried Alive è un acquerello acustico per sola chitarra e voce, con cori dall'afflato quasi gospel, così come Sinking per soli piano e ukulele, con un'interpretazione quasi sussurrata da parte del cantautore australiano. The Wonder Of Falling Life è sontuosa, a tratti quasi bacharachiana, segno di un ottimo lavoro sia in fase di composizione che di produzione, quest’ultima affidata all’esperto Mike Skinner. Sweet Kiss In The Afterlife ci mostra come, spesso, il togliere anzichè l'aggiungere può portare alla nascita di piccoli capolavori acustici. Seedling e Sweet Kiss In Afterlife tornano ad esplorare i meandri più profondi dell'animo di Matthew, che canta con sofferente trasporto. Chiude il disco la divertente, quasi doo wop No Place Called Hell, con ancora il fidato ukulele sugli scudi, accompagnato solamente da uno shaker, con azzeccati cori di sottofondo.
Un lavoro questo Gallantry's Favorite Son, non immediato, che necessita di un ascolto attento, ma che una volta dischiusosi saprà mostrarsi in tutta la sua cristallina purezza.




                             

Dogs in a flat - Days before the robbery

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Arrivano dal Veneto i Dogs In A Flat, ma hanno orecchie e occhi rivolti al di la dell’Oceano, nei meandri più oscuri e profondi dell’America. Days Before The Robbery preleva infatti a piene mani dalla musica a stelle e strisce, sia per quanto riguarda la parte strettamente musicale, sia a livello testuale. I nostri hanno approntato una formula sonora che trova nel country tinto di rock, con alcune suggestive derive alternative, il suo marchio di fabbrica.
Americanità che si riflette anche nelle liriche, che recuperano tematiche tanto care a questo genere di musica, a partire dal titolo, alquanto esplicativo: Days Before The Robbery, (i giorni prima della rapina). Non si tratta però di una sorta di concept album, in quanto solo gli ultimi due brani narrano i momenti prossimi al misfatto, ma bensì di una riflessione su di un sogno troppe volte disilluso, quello americano, attraverso le tristi storie di quelli che comunemente vengono additati come losers. Prendiamo per esempio l’opener Peggy’s Night, storia di una lap dancer che non vede l’ora di tornare dal proprio figlio, dove emerge l’anima rock a tinte scure della band, con la voce loureediana di Michele Scarpulla in primo piano. Atmosfere tenui invece per Diamond Age, struggente ballata tutta giocata sull’alternanza tra voci maschili e femminili, con gli splendidi interventi del violino di Federica Capra a suggellare il tutto. Old Dirt Road è puro alternative country, avvolgente e sinuosa ti cattura fin dal primo ascolto, grazie anche a un ottimo lavoro delle chitarre e del violino ben coadiuvati da una sezione ritmica impeccabile, affidata alle mani esperte del bassista Patrizio Pellizzon e della batterista Lisa Cappellazzo.
Attinge dalla tradizione americana il quasi valzer Houses, che dimostra una volta di più come il gruppo sappia destreggiarsi egregiamente con questo tipo di sonorità. Sam Radio Star ci riporta nuovamente verso atmosfere più soffuse, narrando la vita di Sam, dj radiofonico che parla ad un mondo annoiato e demotivato. Convulsa nel suo incedere è Steel Horse, sorta di talking country, tra pause e ripartenze, mentre nell’epica Raised On Radio il connubio tra chitarre e violino raggiunge picchi artistici elevatissimi. Broken Bones è dannatamente country, e non sfigurerebbe nei palinsesti delle radio di Nashville e dintorni. Chiudono l’album Neither Up Nor Down e Shine, descrivendo gli istanti prima della rapina, tra atmosfere country & western e sferzate rock.
I Dogs In A Flat riescono quindi nel non facile intento di far loro un’estetica musicale tipicamente americana, rinvigorendola con robuste dosi di indie rock. Days Before The Robbery è un album che saprà stregarvi fin dal primo ascolto, catapultandovi in un mondo lontano e sperduto tra derelitti e delinquenti.


                       

Marco Notari - IO?

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Cantautore in bilico tra introspezione e creatività dirompente, questo è Marco Notari. Il musicista torinese, dopo gli ottimi successi di critica e pubblico dei precedenti lavori, Oltre Lo Specchio e il concept , torna nuovamente ad incantare con Io?. Un disco coraggioso, nel quale il nostro mette a nudo i propri sentimenti e la propria anima attraverso dieci canzoni estatiche dalla musicalità avvolgente. Musicalità nella quale confluiscono contributi di strumenti di matrice tipicamente rock come chitarra, pianoforte e basso, insieme a quelli di archi, ottoni, strumenti a fiato, glockenspiel, il tutto condito da una lieve spruzzata di elettronica, e con una sezione ritmica che alterna, in alcuni frangenti, alla più canonica batteria un vero e proprio set da banda, oltre all’apporto percussivo di alcune scatole di cartone.
Un album variegato quindi, capace di abbracciare diversi generi musicali; dal folk, al pop fino all’elettronica, per sfociare in territori quasi ambient, rielaborandoli in una formula sonora maestosa quanto affascinante, alla quale fa da contraltare una capacità di scrittura ormai matura e consolidata. Sono proprio i testi infatti, ricercati e mai banali, l’arma vincente di Io?.
Testi che narrano tematiche differenti, partendo da introspettivi elementi autobiografici, per poi allargare la visione all’intera umanità, descrivendone le contraddizioni. Elementi autobiografici che troviamo in brani come la title track e Io, Il Mio Corpo E l’Inconscio. La prima è una sorta di acquisizione, in musica, della consapevolezza del trascorrere inesorabile del tempo, attraverso un viaggio mentale nel passato, fino al momento della propria nascita. In odore di indie pop, Io, Il Mio Corpo e l’Inconscio, rappresenta idealmente l’urgenza di fissare su di un supporto fisico, in questo caso un disco, storie di persone e cose che per loro natura hanno un principio e una fine. Deliziosa è Le Stelle Ci Cambieranno Pelle, tra sogni e speranze per il futuro, con ospite Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione alla voce, nonché autore del caleidoscopico artwork dell’album.
Di tono decisamente diverso è la tetra e dura La Terra Senza L’Uomo, nella quale viene messa in luce la vera piaga di un mondo ormai al declino, l’uomo appunto, senza il quale il pianeta sarebbe un posto migliore. Lieve come il vento primaverile è invece Dina, struggente dedica alla propria nonna recentemente scomparsa. Hamsik corre sui binari della modernità e prendendo spunto dall’eliminazione della Nazione Italiana di calcio dai Mondiali, ad opera della nazionale Slovacca capitanata proprio dal giocatore del Napoli, paragona la sconfitta dell’Italia calcistica a quella dell’Italia politica. Intrisa di sofferenza è L’Invasione Degli Ultracorpi, con ospite alla voce Dario Brunori, che attraverso le storie di Davide e Mohammed, due uomini che osservano il medesimo cielo seppur da luoghi distanti fra loro, ci fa capire come spesso i media riescano a creare diversità inesistenti. La malinconica Apollo 11 e l’onirica Canzone d’Amore e d’Anarchia, omaggio musicale al cinema di Lina Wertmuller, si mantengono sempre su livelli altissimi, mentre spetta al reprise strumentale di Io? chiudere degnamente l’album.
Un lavoro nel quale emerge, fin dalla copertina, una cura maniacale per i dettagli, sia per quanto riguarda gli arrangiamenti sia a livello testuale. Un plauso va quindi a Marco Notari, per essere nuovamente riuscito a creare una formula sonora tanto accattivante quanto personale.


                        

Felice Brothers - Celebration, Florida

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

L'attesa per il nuovo album dei Felice Brothers era spasmodica. Come avrebbero reagito i nostri all'abbandono di Simone Felice? Questa era una delle domande che si poneva più di un addetto ai lavori, anche alla luce dell'ottimo progetto messo in piedi proprio dall'ex batterista, quel The Duke And The King che ha riscosso più di un giudizio favorevole. E se la vena creativa della band si fosse affievolita se non addirittura esaurita? Notizia confortante era stata senza ombra di dubbio quella del passaggio dei nostri alla Fat Possum, che aveva però contribuito ad aumentare ancora di più la curiosità generale.
Infine dopo due anni di gestazione ecco finalmente fare la sua comparsa Celebration, Florida, in grado di spazzare via ogni dubbio sul futuro della band. Registrato a New York, tra una palestra e il Beacon Theatre, il nuovo lavoro sembra riprendere le atmosfere e le scelte stilistiche che erano alla base di Yonder Is The Clock. Ampliando l'indie folk in odore di Americana degli esordi infatti, la band ha saputo creare un’esilarante amalgama tra una deviata sezione fiati, inaspettate reminescenze 80s, linee di synth di matrice quasi ambient, una batteria tribale, linee di basso marcatamente heavy, una fisarmonica e un piano schizofrenici; in grado di catturare e coinvolgere l’ascoltatore in un vortice sonoro irresistibile.
Si prenda l'opener Fire At The Pageant, una sorta di macabro talking sopra un folle impianto strumentale, dove su di un ritmo infernale irrompe un coro sguaiato. Ed è proprio questa fusione tra antico e moderno a caratterizzare quasi tutto il lavoro. Ritmi rallentati invece in Container Ship, dove al piano si unisce un beatbox dalla grana grossa. La fisarmonica di James Felice torna in primo piano nella successiva Honda Civic, che parte in sordina per poi sfociare in un'orgia di fiati. Esplicativo della trasformazione sonora dei Felice Brothers è Ponzi, non a caso scelto come singolo, che trasuda modernismo da ogni nota pur rimanendo ancorato in parte al suono familiare della band; così come Refrain, dove il ricorso all’elettronica si fa ancora più marcato. Cus’s Catskill Gym si regge su un apocalittico riff di chitarra, che ricorda da vicino quanto fatto dagli ultimi Raconteurs, alternando sferzate elettriche ad intermezzi acustici. Best I Ever Had e Dallas ci riportano invece all'omonimo esordio della band, terse ballate acustiche nelle quali la voce dylaniana di Ian si erge ad unica e incontrastata protagonista. La lunga e rarefatta River Jordan è a mio avviso uno dei migliori episodi del lotto, con un liquido Hammond a colorare il tutto. Ian e James dimostrano pertanto di non aver abbandonato la strada tracciata dai lavori precedenti, ma anzi, grazie ad un songwriting che sfiora in alcuni casi l’eccellenza, hanno aperto nuovi e suggestivi sentieri, ancora tutti da esplorare.
Un disco forse non immediato questo Celebration, Florida, ma se avete amato i precedenti dischi dei fratelli Felice, ne rimarrete ammaliati ascolto dopo ascolto.



                       

Mark "Pocket" Goldberg - Off the alleway

(Pubblicato su Rootshighway)

Lungo i polverosi sentieri del blues ci si può imbattere nei più disparati personaggi; uomini e donne con la musica nell'anima; fieri testimoni di una tradizione musicale antica e ricca di fascino, in grado ancora oggi di fare proseliti. Ed è proprio su uno di questi sentieri che incrociamo Mark "Pocket" Goldberg. Contrabbassista di vaglia, il nostro arriva con questo Off the Alleyway al suo debutto solista. Un lavoro composto da dodici brani originali: scelta coraggiosa che mette in luce le ottime capacità di scrittura del nostro. Goldberg si circonda di un terzetto di musicisti di valore, composto da Debra Dobkin alla batteria, percussioni e voce, Nick Kirgo alle chitarre e David Fraser al piano, accordion e armonica, ai quali si aggiungono alcuni ospiti del calibro di Terry Evans, Jay Dee Madness e James Gadson. Quello che colpisce fin dal primo ascolto è però la voce di Goldberg, descritta come l'incontro tra Howlin Wolf, Johnny Cash, Randy Newman e Leonard Cohen all'annuale Bar-B-Que Picnic organizzato da Louis Armstrong. Un'immagine suggestiva che rende appieno l'idea della vocalità del nostro: roca, quasi demoniaca in alcuni momenti, baritonale in altri.
Esempio perfetto di quanto detto poc'anzi è l'opener No mercy for the Wicked Blues, una sorta di incrocio tra gli ululati di Howlin Wolf e l'eclettismo vocale del Tom Waits più roots oriented; il tutto su di un impianto strumentale di matrice tipicamente blues, con Fraser a soffiare sapientemente nella sua armonica. In odore di border è invece Bumps in the Road, con l'accordion a dettare i ritmi ben supportato da un ottimo lavoro ritmico e da una chitarra slide che ricorda a tratti il miglior Ry Cooder. Intrisa di gospel è invece la struggente This Train, con una prestazione vocale di Goldberg di grande intensità a cui fanno da contraltare i cori ad opera di Teresa James e Billy Watts. Più prettamente blues sono invece lo shuffle Down Home Woman e lo slow Lost Another one Blues, dove in quest'ultima fanno la loro comparsa i Texicali Horns e Barry Goldberg all'hammond.
Di stampo pianistico sono le terse Walkin Away e Whistlin Away simili sia per titolo che per impostazione strumentale. She Carries sembra arrivare da un disco della Band, mid-tempo intriso di quel classico suono delle radici, del quale il gruppo di Levon Helm è stato uno dei massimi esponenti. Più country oriented è invece No Prison Bars, che vede la presenza alla pedal steel di Jay Dee Maness. Pedal steel che ritorna nuovamente nell'incalzante country'n'roll Best on My Way. Before You Go è un divertente doo wop, con i suoni vintage tipici degli anni '50. Quasi voodoo è invece la finale Bounce, tutta giocata sull'insolito abbinamento sezione ritmica-voci. Un disco di pregevole fattura questo Off the Alleyway, in grado di emozionare con il suo variegato patchwork musicale. Un consiglio? Procuratevelo!

                         

Josh Harty - Nowhere

(Pubblicato su Rootshighway)

Trentatrè anni, dal North Dakota, figlio di un capo della polizia e predicatore, insieme al quale inizia a cantare musica country e gospel: basterebbe solamente la storia personale di Josh Harty per ascriverlo al nutrito elenco dei tanti "beautiful losers" che affollano la musica americana. Musicisti e cantori che dagli spazi più angusti e nascosti dell'America rurale provano a far sentire la propria voce, il più delle volte cadendo preda dell'oblio, illusi e spesso sbeffeggiati da un mercato discografico sempre meno magnanimo e sempre più legato alla logica del profitto. Il ragazzo in questione ha però classe e stoffa da vendere, che traspirano da ogni solco di questo suo ultimo ep Nowhere. Un concentrato di tutti gli ingredienti alla base della musica americana, nella più pura accezione del termine; una riuscita miscela tra folk e country, che richiama paesaggi rurali e vita agreste, in una sorta di quadro bucolico in musica. Musica acustica, per palati fini, un pugno di canzoni che cattura e conquista fin dal primo ascolto, per semplicità e bellezza. Merito senza dubbio della penna ispirata del nostro e di una voce dalla liricità strabiliante, il tutto su di un impianto strumentale nel quale a regnare è la chitarra acustica sapientemente pizzicata dallo stesso Harty.
Già dall'opener Whiskey and morphine si intuisce la caratura del songwriting del chitarrista del North Dakota, un diamante forse ancora grezzo ma che lascia intravedere una lucente purezza. La voce e la chitarra acustica sono gli elementi distintivi di un suono parco, a volte minimale, con gli interventi degli strumenti acustici sapientemente dosati, in una perfomance sofferta e vissuta, per un opening track dalla grande suggestione. Nowhere ricorda invece le sonorità care a songwriter come James Taylor, una splendida folk ballad dal sapore agrodolce, dove alla suadente voce del nostro fa da perfetto contraltare una voce femminile di indubbio fascino. Sweet Solution continua sulla falsariga delle precedenti, ma ha un incedere più marcato, grazie anche agli interventi del violino e del mandolino, ben supportati da una sezione ritmica mai invadente, contrassegnata da un contrabbasso minimale e da una batteria spazzolata con maestria.
Struggente è Yesterday, dove il mandolino di Trevor Krieger e l'accordion di Chris Cunningham si rincorrono per tutta la durata del brano, colorando ed arricchendo ulteriormente la chitarra acustica di Harty. On my Mind vede ancora il violino di Krieger in primo piano, impegnato a intessere un'avvolgente melodia intorno a uno dei brani più affascinanti dell'intero album. Il nostro dimostra di essere, oltre che a un fine songwriter, anche un buon esecutore, con la bella rilettura di 6th Avenue del conterraneo Brooks West, nella quale ritroviamo quel lirismo musicale di cui parlavamo poc'anzi, che è alla base del suono del nostro. Chiusura in solitario affidata a 1952 Vincent Black Lightning, riuscito reprise di un brano di Richard Thompson, che mette in mostra una volta di più la bravura di Harty alla chitarra acustica. Un ep questo Nowhere, intenso e ammaliante, forse in minima parte condizionato dalla breve durata, ma che non mancherà di affascinare tutti gli appassionati della musica americana di stampo acustico.

                             

7 Walkers - S/T

(Pubblicato su Rootshighway)

 Pur essendo stata devastata nella fisionomia dalla crudeltà della natura e dall'inefficienza dei politicanti lo spirito musicale di New Orleans continua a sopravvivere e a fare proseliti. E' il caso di questo nuovo progetto, che vede nelle atmosfere musicali della "Big Easy" la propria ragione d'essere. I 7 Walkers nascono dall'incontro tra il cantante e chitarrista Malcom Welbourne aka "Papa Mali", il batterista dei Grateful Dead Bill Kreutzmann e il bassista dei Meters George Porter Jr, ai quali si aggiunge il multistrumentista Matt Hubbard. Ciò che ne scaturisce è una creatura atipica, un "alligatore musicale" con le zampe ben piantate nelle acque melmose del bayou ma con la testa libera di muoversi ad inghiottire stili musicali tra i più disparati. E' però l'immaginario tipico della Louisiana quello che trova più spazio all'interno delle canzoni tra riti voodoo, paludi fangose e tutti quei personaggi che da sempre animano le leggende del luogo. Louisiana che il leader della band Papa Mali porta nel cuore e che riesce a trasmettere attraverso la propria voce roca ed espressiva, e con un chitarrismo variegato; il tutto coadiuvato da una pulsante sezione ritmica composta dal duo Kreutzmann-Porter in grado di unire funk, blues e zydeco in un amalgama percussivo travolgente.
Sintomatico è il brano di apertura Sue from Bogalusa, trascinante rock'n'roll venato di zydeco, con l'armonica di Hubbard sugli scudi. Con gli ottoni di New Orleans Crawl ci troviamo invece catapultati nei festeggiamenti del Mardi Gras, in un brano che sembra arrivare direttamente dal repertorio delle marchin' bands. Intensa ballata pianistica di stampo bluesy è invece King Cotton Blues, con la partecipazione di Willie Nelson alla voce e alla chitarra a impreziosire il tutto. Di grande spessore è anche la collaborazione con Robert Hunter, in passato paroliere al servizio dei Grateful Dead, che si occupa della stesura dei testi dell'album. Chingo, in salsa cajun, sembra arrivare dal repertorio del primo Dr John, quello più pazzo e visionario del periodo di Gris Gris. Ad un andamento percussivo che strizza l'occhio ai Caraibi vengono associate improvvisazioni strumentali dal forte sapore modernista sulle quali la voce cantilenante di Papa Mali trova il terreno giusto per esprimersi al meglio. Di tutt'altro stampo è invece Louisiana rain, vero rito voodoo trasferito in musica; un racconto da incubo inframmezzato da percussioni e rumori di serpenti che ben ci mostrano l'atmosfera che si respira nel bayou. Ennesima splendida e tersa ballata è invece Evangeline, dove alla voce di Mali si alterna quella di Jane Bond, il tutto impreziosito da un eccelso quanto misurato lavoro percussivo e sui piatti da parte di Kreutzmann e del percussionista John Bush.
I nostri poi decidono di rileggere un classico della musica afroamericana a firma di Elias Bates McDaniel, meglio conosciuto come Bo Diddley. I Walkers si destreggiano da par loro in Hey Bo Diddley, ribattezzata Hey Bo Diddle; riuscendo a unire il ritmo jungle dell'originale con uno di matrice tipicamente neworleansiana. Degni di nota sono anche gli strumentali (For the love of) Mr Okra e Airline highway, dove tra stridori elettrici, liquidi hammond e ritmi incalzanti i nostri esplorano il loro lato più selvaggio e anticonformista. Tipicamente folk è invece l'intensa Someday you'll see, in cui la voce di Papa Mali può nuovamente mostrarsi in tutta la sua liricità. Chiude il disco la title track, che ci dimostra una volta di più l'eclettismo musicale dell'ensemble. Una band atipica quella dei 7 Walkers in grado di unire tradizione e modernismo con grande capacità e perizia tecnica per un risultato finale davvero di pregio. Un "gumbo musicale" il loro, gustoso e speziato al punto giusto, adatto davvero a tutti i palati.

                        

Darryl Lee Rush - S/T

(Pubblicato su Rootshighway)

Terza prova discografica per Darryl Lee Rush, dopo il buon esordio Llano Avenue del 2005, e la testimonianza dal vivo, targata 2008, di Live at the River Road Ice House. Nato e cresciuto a Markham, piccola cittadina nel cuore del Texas, Darryl in passato ha girovagato in lungo e in largo per il Lone Star State, collaborando a diversi progetti, per poi stabilirsi definitivamente ad Austin, dove ha avuto inizio la sua carriera come solista. Fin dagli esordi a proprio nome, ha sempre attinto per i suoi testi e per la sua musica dai paesaggi e dalle vicende umane dei luoghi in cui ha vissuto. Canzoni che raccontano, quindi, un Texas nascosto ai più, nel quale storie e paesaggi sono legati in modo indissolubile tra loro. Storie che ci vengono raccontate attraverso un impianto strumentale semplice ma di sicuro effetto, che vede nel country venato di rock il suo elemento preponderante, con alcune influenze mexican, che fanno capolino in più di un'occasione. Un disco ben scritto e ben suonato, che vede il nostro affiancato da una band rodata e d'esperienza, con l'aggiunta di qualche ospite di "lusso", a rendere ancora più accattivante il tutto.
Apertura in grande stile con Hard Rain, country rock, in salsa jingle jangle, dal sicuro appeal radiofonico, dove alla chitarra acustica del leader ben si amalgamano la chitarra elettrica di Scott Oldner e la pedal steel di Tommy Detamore. Atmosfere più rarefatte per Broken Glass, tenue ballata folk dall'afflato country, con l'espressiva voce di Rush ben supportata dal tappeto sonoro ad opera ancora della pedal steel. Letter from a Soldier è, senza ombra di dubbio, a livello di liricità il punto più alto dell'intero lavoro, con Rush che canta con il cuore in mano la propria rabbia e il proprio dolore. Onirica è la deliziosa Leaving Virginia, quasi sussurrata dal nostro, questa volta con la steel acustica di Detamore sugli scudi, screziata dagli interventi dell'armonica di Don Gallia. Dall'incalzante ritmo country è invece Dance Hall, con un ritornello che definire azzeccato sarebbe riduttivo, in cui fanno la loro comparsa anche un violino e un piano in puro honky tonk style. Las Vegas Christmas Eve parte quasi in sordina, per poi crescere poco a poco grazie anche all'ottimo lavoro alla chitarra elettrica di Oldner. Jackson Hole esplora nuovamente il lato più intimista della musica di Rush, e vede una breve incursione all'accordion di Joel Guzman.
Travolgente invece è Raindrop, con la pedal steel di Detamore a fare il buono e il cattivo tempo, per una country song ben esplicativa dello stile del nostro. Vera gemma acustica è Marissa, ancora con gli splendidi interventi dell'accordion di Guzman, per un brano che sembra arrivare direttamente dal repertorio di Joe Ely, e a parere del sottoscritto si aggiudica sicuramente la palma di migliore del lotto. Il rock ritorna prepotentemente alla carica nell'elettrica Burn it Down e nella conclusiva Ferris Wheel, per due brani che nelle esibizioni dal vivo troveranno sicuramente la loro ideale valvola di sfogo. Darryl Lee Rush si conferma, con questa sua seconda opera solista, una volta di più un songwriter di razza, capace di maneggiare con mestiere country, folk e rock, in una formula sonora accattivante e di grande suggestione.

                              

Clovis Mann - Metamorphic

(Pubblicato su Rootshighway)

Il magmatico calderone delle jam band made in USA periodicamente erutta lapilli discografici di indubbio interesse, testimonianza della sempre più intensa attività sonora in questo ambito. Una delle novità più interessanti è senza ombra di dubbio il nuovo lavoro dei Clovis Mann, da Madison, Wisconsin. Arrivati con Metamorphic al terzo album, i nostri hanno subito nel corso degli anni significativi cambi di formazione. Unico membro originario rimasto è Dan Walkner, chitarra e voce, ben coadiuvato da una sezione ritmica composta da Dan Plourde al basso e Jamie Zander ai tamburi, nonchè dall'inserimento in alcuni brani di Pat Ferguson e Craig Baumann alle chitarre e di Vince Faris alle tastiere. L'allargamento di organico ha certamente giovato ai nostri, ampliandone le capacità sonore e improvvisative. Musica, quella dei Clovis Mann, che trova proprio nell'improvvisazione strumentale, dalle terse atmosfere bluesy e dal retrogusto southern, la propria ragione di essere. Partenza al fulmicotone con Blowin' Up the Shack, dal ritmo incalzante, con una slide assassina trasudante blues da ogni nota e con basso e batteria a condurre le danze. Si rimane sempre in ambito blues, anche se nella sua accezione più elettrica ed hendrixiana, con la successiva No More, antiwar song impreziosita da un liquido assolo di hammond ad opera di Faris. Nothing Like That sembra invece arrivare direttamente da uno dei primi dischi dei Gov't Mule; riff di chitarra haynesiano fino al midollo, per un brano di grande impatto.
Di struggente bellezza acustica è invece Dig deep, in cui la voce di Walkner può risaltare in tutta la sua intensità. Atmosfere acustiche che si respirano anche in Water's Edge, rafforzata dalla chitarra di Craig Baumann. Nuovo cambio di rotta in Big Sky, dove la band esplora i territori musicali cari alla musica reggae. Chitarra in levare quindi e un buon uso dell'hammond a colorire il tutto. Organo che ritorna protagonista anche nella lunga Whiff, scritta da Walkner con lo stesso Faris, e caratterizzata da repentini cambi di tempo. L'apice del disco è senza dubbio The Light, dove fa la sua apparizione alla seconda chitarra Pat Ferguson, diventato in seguito membro effettivo del gruppo. Una sorta di gospel rock frenetico che trova il suo punto di forza nel call-and-response tra la voce di Walkner e il coro; nella miglior tradizione del genere.
Un disco Metamorphic che mette in luce la bontà della penna di Walkner, nonchè le capacità tecniche di ogni singolo musicista coinvolto. Unica pecca la produzione prettamente "casalinga" che penalizza in parte il sound della band. Una proposta sonora quella dei Clovis Mann, seppur non innovativa, comunque interessante; e se in futuro i nostri troveranno un produttore all'altezza riusciranno sicuramente a ritagliarsi un proprio spazio nell'immenso panorama delle jam band.

                       

Rosita Kèss - Northern sky

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Terzo album per la “girovaga” Rosita Kèss, veneziana di nascita ma newyorkese di adozione, dopo una percorso musicale che l’ha vista transitare per Berlino, Barcellona, Parigi e Londra. Una vita passata ‘on the road’ quindi, che ha sicuramente lasciato un profondo segno nell’anima della cantautrice. Viaggi che trovano la loro sintesi musicale in questo splendido Northern Sky.
Pop di stampo americano, accenni di bossa nova e richiami ai grandi chansonniers francesi, vengono sapientemente dosati in una formula sonora fresca e accattivante, testimonianza di un notevole talento compositivo. Basta inserire il disco nel lettore per essere sommersi da un songwriting straripante, dove ogni singola nota e ogni singola parola vengono calibrate, studiate e infine fuse in dodici piccoli acquerelli sonori, che non hanno nulla da invidiare a composizioni di artisti ben più blasonati. C’è da dire che il blasone è in parte presente anche in questo disco, soprattutto a livello di produzione, dove troviamo Richard Julian (straordinario musicista nell’orbita di Norah Jones nonché membro dei The Little Willies) e Jesse Murphy (collaboratore di John Scofield), ma anche per quanto riguarda la parte musicale, vista la notorietà di alcuni dei musicisti coinvolti.
Ma non è il blasone a caratterizzare questa nuova fatica della Kèss, ma bensì, come poc’anzi accennato, un talento compositivo decisamente al di sopra della media, e una voce sensuale, capace di emozionare anche con un semplice sussurro. Prendiamo per esempio l’opening track The Blind Painter, che trova la propria forza nel sottrarre invece che nell’aggiungere; dove su di una sezione ritmica composta da contrabbasso e percussioni, magistralmente suonati da Jesse Murphy e Mauro Refosco (collaboratore tra gli altri di Capossella), si intrecciano, in una sinuosa danza, il flauto di Erik Lawrence e la chitarra acustica di Gabriel Gordon, con la voce della Kèss, impegnata a saltellare tra le note, per un brano dallo straordinario appeal radiofonico. Atmosfere latine, in odore di bossa nova, per la successiva Northern Sky dove troviamo, oltre a Richard Julian, impegnato alla chitarra, uno degli ospiti di “lusso” del disco, Beth Hirsch, già cantante degli Air, la cui eterea voce ben si amalgama con quella della cantautrice italoamericana. Più smaccatamente pop, ma di quello sopraffino, è Tell Me, nella quale a condurre le danze è l’hammond di Brian Mitchell, che spande liquidità sonora per tutta la durata del brano. Brian Mitchell che ritroviamo all’accordion in quel delizioso acquerello a tempo di valzer che è Leaving Alone; un brano che paga un tributo nei confronti dei grandi chansonniers francesi, con la Kèss intenta a duettare proprio con l’accordion.
Nuovo duetto vocale, questa volta con Gabriel Gordon, in Never Can Stop The Rain, suadente ballata venata di soul, con il piano della titolare che ben si interseca con l’hammond di Mitchell. Waiting For The Snow, pesca di nuovo a piene mani nella musica latina, e si distingue per l’andamento sinuoso, grazie anche all’apporto del trombone di Clark Gayton. Gioca invece a fare la country singer, la Kèss, nella riuscita Where Should I Go, con la chitarra elettrica di Jim Campilongo a ammantare di desertico il tutto. Gyspy Moonshine sa invece unire sapientemente l’introspezione del soul con l’apertura melodica del pop, e farebbe di sicuro sfaceli in qualsiasi stazione radio del globo terraqueo. Introspezione che ritroviamo nella quasi cameristica Mary, dove la nostra, nella migliore tradizione delle chanteuses, si destreggia al piano e alla voce, a cui si aggiungono i parchi interventi di un violoncello e di un contrabbasso, suonato rigorosamente con l’archetto. Di tutt’altro tenore la folkeggiante Always Be Mine, con ospiti alle corde varie gli Hounds, che chiude l’album come meglio non si potrebbe.
Un lavoro questo Northern Sky, da assaporare lentamente, per venirne suadentemente avvolti, lasciandosi così rapire dalla miriade di suoni e di colori che ne scaturiscono.


                       

Neil Getz - Factory second

(Pubblicato su Rootshighway)

Arriva dalla Florida Neil Getz e questo Factory second rappresenta il suo primo vagito discografico. Un album eterogeneo, composto da undici episodi a se stanti; undici piccoli mondi, nei quali si dipanano le vicende dei più diversi personaggi; il tutto supportato da un impianto strumentale assai variegato. Il nostro sa infatti miscelare, spesso con sapienza, i generi più disparati. Americana, country, folk e qualche strizzatina al rock: sono questi gli ingredienti alla base del piatto cucinato dal buon Getz. Un piatto che a seconda degli episodi ha il sapore forte e deciso della cucina cajun o di un hamburger alla griglia, mentre in altri ci troviamo di fronte ad una minestra riscaldata e spesso annacquata. Diciamo subito che il nostro è comunque un buon autore e possiede una voce forse non eccelsa ma di sicuro particolare e che ben si amalgama alle alchimie sonore dei brani. Decisamente radio friendly è l'opener Bad case of passion, dotata di un buon refrain e di un ritmo accattivante. Con la title track il nostro comincia a mostrare il suo talento compositivo, in un'intensa folk ballad di matrice prettamente acustica, impreziosita dall'arrangiamento d'archi ad opera di Chris Carmichael. Un'armonica molto "popperiana" (John Popper, leadei dei Blues Traveler) è invece protagonista in Come on, Ely, in grado di catturare fin dal primo ascolto. Heart so steady riesce a coniugare in maniera egregia elementi cari al country ad un impianto strumentale tipico delle folk song di stampo più modernista. Country sempre presente, ma in modo più netto, nella successiva e convincente Not in love, just falling, con le chitarre sugli scudi. Sa decisamente di già sentito Jenny Lee, che nonostante qualche buona idea di base, non riesce a decollare. Il rock irrompe all'improvviso in Oh Delilah, un brano interlocutorio, senza capo ne coda, capace solamente di lasciarci con l'amaro in bocca una volta giunto alla conclusione.
Di ben altra caratura sono le acustiche Counting trains e la conclusiva Nelly Blye. La prima tratta tematiche sociali di grande attualità, come la depressione adolescenziale, e trova nella commistione tra acustico ed elettrico la sua ragion d'essere, con il violoncello di Carmichael a suggellare il tutto. Quest'ultimo torna protagonista anche in Nelly Blye, adornando con il suo violino quella che a mio avviso è l'apice emozionale dell'intero lavoro. Violino che ha anche il compito di colorare di cajun la solare Penny Candy, ben coadiuvata dalla fisarmonica suonata dallo stesso Getz. Country venato di blues, infine, in Flock of Demons, che parte quasi in sordina per poi esplodere nel finale, in un'orgia strumentale tra banjo, violino e chitarra slide. Un esordio con poca infamia e qualche lode quindi, che risente forse di un songwriting in alcuni episodi ancora acerbo ma che ci lascia ben sperare per il futuro.