lunedì 7 ottobre 2013

Balmorhea @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Abitare ai “confini dell’impero musicale”, lontani dai grandi circuiti live, significa mettersi l’anima in pace e macinare chilometri su chilometri per poter assistere a concerti assolutamente “alieni” per una piccola realtà di provincia come Savona. Eppure dopo un lungo torpore musicale la cittadina ligure in questi ultimi mesi è ritornata a nuova vita artistica, complice anche la riapertura del Raindogs, ultimo ed unico baluardo della musica di qualità. E tra i tanti nomi presenti nella prima parte della programmazione riluceva senza dubbio per peso specifico quello dei Balmorhea. Il collettivo texano, le cui redini sono tuttavia sempre saldamente nelle mani del chitarrista Michael Muller e del pianista Rob Lowe, è ancora fresco della pubblicazione del loro quinto lavoro in studio,Stranger, uscito lo scorso anno, e da molti considerato quale l’album di una, seppur lieve, svolta sonica. Certo il minimalismo post-folk cameristico che ne aveva contraddistinto l’opera fin dagli esordi rappresenta ancora lo scheletro dell’opera sonica a nome Balmorhea, con una capacità evocativa oggi ulteriormente acuita da spigolose volute elettriche e da fluttuanti policromie sintetiche. A questo ha contributo l’allargamento della line-up, fino al recente assestamento a sestetto; assetto quest’ultimo che ha indubbiamente permesso una maggiore versatilità armonica, nonché inedite opportunità compositive. Ed è proprio con questa formazione che i nostri si presentano questa sera sul palco del Raindogs, che stenta a contenere una tale ricchezza strumentale, tanto da relegare contrabbasso e violoncello a lato dello stesso; soluzione quest’ultima che si rivelerà tuttavia vincente, accentuando anche visivamente, la componente cameristica del combo. Compito di aprire la serata spetta tuttavia a JBM sigla dietro la quale si cela Jesse Merchant, canadese di nascita ma newyorkese d’adozione, con all’attivo due buoni album, ed opening act dei texani per tutto il loro tour europeo. Un set in solitaria, equamente diviso tra chitarra acustica ed elettrica, spesso con il leggero battere di una grancassa e di un hihat, con l’opportuna aggiunta di un tamburello, quale unico supporto ritmico. Dotato di una voce di notevole caratura espressiva e fautore di una musica dall’umbratile fragilità, quanto di uno scarnificato livore elettrico, JBM ha saputo strappare più di un consenso, grazie a un pugno di composizioni in bilico tra crepuscolare alternative folk e cantautorato di più canonica ascendenza. Giusto il tempo di un veloce cambio palco ed ecco che i sei “protagonisti” della serata si manifestano sul palco, tra gli applausi di un più che numeroso pubblico, segno anche di come la loro “fama sotterranea” sia notevolmente accresciuta anche nel nostro Paese. Una formazione “allargata”non solo dal punto di vita numerico ma anche strumentale, visto il corposo armamentario presente sopra e sotto il palco. Strumentazione divisa equamente tra “canonicità” rock e una sezione d’archi d’orchestrale provenienza, a cui si aggiungono le più diverse percussioni. Quello che colpisce, sia dal punto di vista sonoro che visivo, è la versatilità di ognuno dei membri del gruppo, capace di passare con disinvoltura, spesso all’interno del medesimo brano, da uno strumento all’altro, pizzicando o percuotendo, alla bisogna, in modo più che egregio. Pur essendo notevole l’importanza nell’economia sonora del combo del binomio Lowe-Muller, la vera forza dei Balmorhea risiede tuttavia proprio nel collettivo, nonché appunto nella poliedricità dello stesso, grazie alla quale la musica è libera di viaggiare, su di una mappa priva di castranti paralleli e meridiani musicali, dilatandosi e contorcendosi verso le più disparate derive soniche. Certo il “cervello” della creatura Balmorhea rimangono i due succitati “leader”, a dividersi tra piano elettrico, chitarre e ukulele il primo e tra basso e chitarre il secondo, ma fondamentale è l’apporto dei propri compagni, a cominciare dal violino di Aisha Burns, protagonista tanto negli episodi di maggior movimentazione sonica quanto in suggestivi ricami d’ascendenza barocca, affiancato in quest’ultimo dallo scivolare degli archetti del violoncello di Dylan Rieck e del contrabbasso di Travis Chapman. Autentico “cuore pulsante” è infine Kendall Clark il cui drumming tanto preciso quanto febbrile ne fa l’ideale propulsore ritmico per le divagazioni strumentali dei nostri. Una musica dalla doppia anima quella degli odierni Balmorhea; la prima figlia d’un approccio modernista tra delay, riverberi ed proteiforme elettricità, su mai invasive trame sintetiche, la seconda d’atmosferica ascendenza, tra oasi cameristiche e misticismo folk. Il tutto fuso in una perfomance di palpabile intensità, con un’immaginaria linea guida a legare tra di loro i singoli brani presentati, dando così vita ad un ipnotico continuum sonico di cinematica fascinazione. Spiccano senza dubbio per ieratica bellezza, tanto una Settler, in cui le due anime, poc’anzi menzionate, paiono aver trovato terreno ideale sul quale convivere, quanto una Untitled tutta giocata sul tappeto melodico del piano, sul quale si libra l’incalzante volteggiare degli archi, e gli impeccabili incastri ritmici della batteria a far da collante, con il suggello delle armonizzazioni vocali di Lowe, Muller e della Burns, in una crescente coralità. Dal recente Stranger vengono estrapolate, tra le altre, la visionarietà post rock di una vigorosa Artifact, ed una Pyrakantha, che grazie anche all’ukulele, affidato questa volta alle mani della Burns, ingloba arie quasi caraibiche, in una sorta di rivisitazione balmorheaiana del Van Dyke Parks solista. Il pubblico ammutolito per quasi tutta la durata della perfomance tributa il giusto omaggio ai sei che, ritornati sul palco per gli encore, deliziano gli astanti con un brano inedito, a suggellare una splendida serata, dispensatrice di “onde positive”. Una musica immaginifica, d’eterea sfuggevolezza, da ascoltare in silenzio, lasciandosi trasportare sull’ondeggiare armonico che si spande nell’aria. Più che un concerto, quella di stasera è apparsa appunto quale un'esperienza acustico-visiva, al limite della trascendenza, ad opera di sei musicisti la cui bravura è inversamente proporzionale alla loro giovane età.



Nessun commento:

Posta un commento