lunedì 2 dicembre 2013

Cesare Carugi - Pontchartrain

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

La strada, sia essa una polverosa ‘rural route’ americana o un’altrettanto sperduta mulattiera nostrana, rimane pur sempre una lunga, ed irta d’ostacoli, striscia di terra, da percorrere inseguendo, a volte arrancando altre correndo a perdifiato, un sogno, da qualche parte laggiù dietro l’orizzonte. E sulla medesima strada ha avuto inizio, tre anni fa, il cammino musicale del cecinese Cesare Carugi con un esordio, Here’s To The Road, di più che pregevole fattura. E di strada il buon Carugi ne ha percorsa davvero parecchia da allora, macinando insieme alla sua fida chitarra acustica, chilometri su chilometri, in un incessante viaggiare, con un occhio rivolto aldilà dell’Oceano, a quegli Stati Uniti, da sempre parte fondamentale nella sua crescita umana e musicale. L’influenza di una terra, quella statunitense, permeante oggi anche la sua seconda fatica discografica, fin dal titolo, Pontchartrain, ovvero il lago situato nei pressi di New Orleans. Ed al ribollire di suoni e ritmi della città della Louisiana sembra attingere il songwriter toscano, arricchendo, in tal modo, la sua già variopinta tavolozza sonora, con inedite, scure, tonalità bluesy, forgiando un suggestivo patchwork, nel quale coesistono in egual misura folk, rock e per l’appunto blues. Un mood cupo, dal crepuscolare fascino, quello che pervade i solchi di Pontchartrain, le cui liriche trasudano dolore, perdita e sconfitta, pur recando al contempo un flebile messaggio di speranza. Un album incentrato sulle debolezze umane e su di una natura, troppo spesso violentata, la cui feroce vendetta si manifesta attraverso autentici disastri ambientali, quali il devastante uragano Katrina, abbattutosi proprio su New Orleans, o l’altrettanto drammatico terremoto che ha colpito, e ferito nel profondo, l’Emilia Romagna; dolorosi avvenimenti, quest’ultimi, alla base della genesi dello stesso Pontchartrain. E se il nostro nel trasporre su disco la propria urgenza espressiva viene affiancato da un piccolo, compatto combo, guidato dal “vecchio compagno di strada” Leonardo Ceccanti, come già per l’esordio, anche in questo frangente, troviamo la presenza di un nutrito gruppo di ospiti, i cui singoli apporti strumentali arricchiscono ulteriormente il già ispirato frutto della penna del cecinese. Un tourbillon di suoni, volti e strumenti quindi, a cominciare dall’opener Troubled Waters, ispirata proprio alle torbide acque del lago che titola l’opera, robusta digressione in bilico tra rock e blues, complice anche il tagliente bottleneck di Paolo Bonfanti; passando per il parco intreccio elettro-acustico, tra chitarra, mandolino e piano, dell’elegiaca Carry The Torch, dedicata al compianto Carlo Carlini; per far ritorno, infine, in territori di chiara matrice nera, nella scalpitante Pontchartrain Shuffle, con la resofonica di Francesco Piu a spargere dolenti note bluesy. Disegna invece onirici arabeschi melodici il violino di Chiara Giacobbe nella splendida ballata, in odore d’Americana, Drive The Crows Away, con la voce di Sabina Manetti a doppiare quella dello stesso Carugi. Dalla profonda provincia americana si passa a girovagare, con il blues “delle ore piccole” di My Drunken Valentine, tra i fumosi bassifondi di una tentacolare metropoli, dove l’autocostruita sei corde di Marcello Milanese si muove suadente come una ballerina di lap dance. Sontuosa è senza dubbio l’accoppiata pianoforte-sax della struggente When The Silence Breaks Through, prima del commiato affidato ad, una quasi farrariana We’ll Meet Again Someday, tenue anelito di speranza, scritta e arrangiata insieme agli amici Mojo Filter. Un songwriting evocativo quanto di spessore ed una voce d’indubbia versatilità interpretativa, il tutto unito ad un solido background musicale, affondante le proprie radici nel fertile humus statunitense; queste le peculiarità di un songwriter al quale i, castranti, confini italici cominciano a stare davvero stretti.

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