venerdì 4 novembre 2011

Articolo su Levon Helm

(Pubblicato su Mixed Bag)

"We wound up in Woodstock, at an old time jamboree,
came to see the man behind the drums” (The man behind the drums – Robert Earl Keen)"


Batterista, mandolinista e cantante solista in quel gruppo seminale che è stata la Band; già solamente questo potrebbe farci capire la caratura artistica di Levon Helm. Un’avventura irripetibile, che ha portato alla nascita delle radici di quella che oggi chiamiamo Americana.  Nato ad Elaine in Arkansas, in un ambiente umile ed agreste, profondamente legato alla musica delle radici, Levon ha sempre cercato di raccontare la campagna, nella quale è cresciuto, e  le storie, tra fatica e sofferenza, della sua gente. Ha intrapreso una carriera solista, con molte luci e poche ombre, attraverso la quale ha continuato ad esplorare i meandri più nascosti della tradizione musicale americana, bianca e nera. Levon Helm and RCO Allstars, primo vagito solista, vede la luce nel 1977 ed è l’ideale summa delle sue influenze musicali, un robusto rock blues in odore di tradizione, nel quale ad assurgere a vere protagoniste sono la sua batteria e la sua voce. Merito anche di una backing band a dir poco stellare, che annovera tra le sue fila tre-quarti degli Mg’s; Booker T Jones all’organo, Steve Cropper alla chitarra e Donald “Duck” Dunn al basso, ai quali si aggiungono Mac Rebennack alias Dr John al piano, Paul Butterfield all’armonica, Fred Carter Jr alla seconda chitarra nonché la sezione fiati del Saturday Night Live. Un album che allinea dieci canzoni pressoché perfette, dal rhythm and blues Washer woman con i fiati e l’armonica sugli scudi, alle travolgenti The tie that binds e Milk cow boogie, dove è il nostro a destreggiarsi sapientemente dietro ai tamburi. Le deliziose Blues so bad e Sing sing sing, hanno invece il pregio di confermare una volta di più le sue straordinarie capacità canore. Poco inferiore rispetto al debutto è Levon Helm , del 1978, in parte colpevole di ammiccare in più di un’occasione al rock patinato, come nell’opener Ain’t no way to forget you. Manca inoltre il parterre di stelle del precedente, ma il gruppo assemblato per l’occasione svolge dignitosamente il proprio compito. La riuscita Driving at night e la pianistica Playing something sweet, ricalcano le sonorità del disco precedente, mentre alquanto sottotono risultano Standing on a mountain top dall’incedere quasi reggae e la sapida I came here to party. Di notevole fattura sono invece Let do it in slow motion e Sweet Johanna, mentre Take me to the river, intrisa di soul fino al midollo, da sola varrebbe l’acquisto dell’album.  Edito nel 1980, American son, riesce nell’intento di coniugare atmosfere rhythm and blues con elementi derivanti dalla tradizione musicale bianca. Apertura affidata a Watermelon time in Georgia, nella quale si respirano arie country folk, con Levon impegnato anche all’armonica. Un lavoro che alterna canzoni di valore (America’s farm dal retrogusto southern, Hurricane che richiama le sonorità della Band) riusciti episodi ( Blue house of broken hearts e il quasi shuffle Nashville wimmin) e  qualche brano interlocutorio (China girl), per un album che, ancora oggi, risulta comunque fresco e godibile. Lo stesso anno il nostro debutta anche come attore, nel film Coal miner’s daughter, ottenendo critiche più che positive. Sarà questo il preludio ad una parallela carriera d’attore che lo vedrà recitare, anche se in ruoli secondari, in ben 16 film (ultimo dei quali In the electric mist del 2008, al fianco di Tommy Lee Jones).  Nel 1982 viene dato alle stampe Levon Helm, decisamente meno riuscito rispetto al suo omonimo predecessore. Colpa soprattutto della pessima produzione, opera di Donald “Duck” Dunn, che ne snatura il suono, indirizzandolo verso tronfie atmosfere anni Ottanta. Qualche traccia salvabile la si potrebbe anche trovare, ma di brani memorabili non ve ne è traccia. Willie and the Hand Jive è passabile ma nulla più, e lo stesso vale per brani come You can’t win them all o Lucrecia, devastati da assurdi overdubs di chitarra e da una batteria filtrata da terrificanti echi e riverberi. Unica nota non stonata è la voce di Helm, capace come sempre di lasciare il segno. Un disco che rimane comunque il capitolo meno riuscito della discografia del batterista, e pertanto consigliato solo ai die hard fans. L’anno successivo la sua carriera da solista viene posta momentaneamente in standby, in favore della reunion della Band. Reunion che tra alterne riapparizioni  e tre buoni album in studio, si protrarrà fino al 1996. Annus horribilis per Levon Helm è invece il 1998; al nostro viene diagnosticato un tumore alla gola, dal quale riuscirà comunque a guarire completamente, seppur con gravi danni alle corde vocali, che sembrano comprometterne definitivamente la carriera musicale. Il nuovo millennio riaccende invece la speranza; la sua voce migliora e, pur non ai livelli del passato, torna ad essere forte ed espressiva. È però l’incontro con Larry Campbell, eccelso polistrumentista, con una lunga militanza nella band di Dylan, a sancire la sua rinascita artistica. Nel 2004 prende il via una lunga serie di concerti che prendono il nome di Midnight Ramble Sessions, in ricordo degli antichi medicine show itineranti, ai quali partecipano artisti del calibro di Dr John, Black Crowes, Hot Tuna, Phil Lesh e molti altri. Due di queste straordinarie esibizioni verranno edite nel 2005 in due volumi separati. The Midnight Ramble vol I, ci mostra il profondo legame tra Levon Helm e la musica nera, e vede la presenza di Little Sammy Davis all’armonica. Una perfomance di rara intensità che arringa classici del blues come I’m ready, Blues with a feeling e Blow wind blow, riletti con sentimento e passione. Blues presente anche in The Midnight Ramble vol II, che amplia lo spettro sonoro del precedente inglobando robuste dosi di rock’n’roll e spruzzate di musica old time. Degne di menzione sono le riletture di Battle is over but the war goes on, della dylaniana Don’t ya tell Henry e della bluesata Blue shadows, nella quale compare Elvis Costello. Altro gradito ospite è il vecchio compagno Dr John, che in Borrowed time gigioneggia da par suo. Nello stesso periodo, viene pubblicata la registrazione di un vecchio concerto, effettuata pochi mesi dopo il suo debutto solista. Live at the Palladium NYC ci permette di assaporare la maestria della RCO Allstars Band anche on stage, con i brani del disco in studio che acquistano nuova linfa vitale. Le vere gemme sono però altre, a cominciare da una rilettura al fulmicotone di Goin’ back to Memphis, con il nostro a fare il buono e cattivo tempo dietro i tamburi. Ampio spazio viene anche lasciato agli altri musicisti, come in Born in Chicago, dove sono la voce e l’armonica di Paul Butterfield a salire in cattedra, o nella strepitosa versione del classico Got my mojo working, che Dr John trasforma in una sorta di rito voodoo. Ophelia omaggia il passato con la Band, mentre una scoppiettante versione di Goodnight Irene, di Huddie Ledbetter, chiude in bellezza la serata. Sotto l’egida di Larry Campbell, esce invece nel 2007, ad oltre venticinque anni di distanza dall’ultimo disco in studio, Dirt farmer. Un sentito tributo acustico alla musica delle radici, che si aggiudica il Grammy Awards come miglior album di folk tradizionale. Ad esso fa da contraltare il più muscolare Electric dirt (Grammy Awards come miglior album Americana), nel quale spiccano una sontuosa rilettura di Tennessee Jed di Jerry Garcia, il sentito omaggio a Muddy Waters con You can’t lose what you ain’t never had e la struggente e autografa Growin trade. Sarabanda musicale in puro New Orleans style è Kingfish, con i fiati arrangiati da Allen Toussiant, mentre When I go away, con i suoi intrecci vocali da brividi è il picco artistico dell’album. Il live Ramble at Ryman, registrato nel tempio della musica country, vede la presenza di ospiti illustri come John Hiatt, Buddy Miller, Sam Bush, Sheryl Crow, ed è l’ulteriore testimonianza di come, a 71 anni, Levon Helm stia vivendo una seconda giovinezza artistica.




DIRT FARMER

Vanguard

2007

Venticinque lunghi anni, tanto è passato dall’ultima prova in studio di Levon Helm. Un ritorno in sala d’incisione quasi insperato visto il cancro alla gola che lo aveva colpito, compromettendone in parte la voce. Una voce, che seppur minata in potenza, torna a regalare intense emozioni. Un piccolo capolavoro acustico questo Dirt farmer, un sentito omaggio alle proprie radici musicali, andando a scavare all’interno della tradizione americana. Intrisa di atmosfere agresti, la quasi bluegrass False hearted blues, ci fa capire da subito la caratura del disco, con la voce del nostro in primo piano. Trasuda tradizione Poor old dirt farmer, con il violino di Larry Campbell e l’accordion di Brian Mitchell a tracciare la melodia, sulla quale si stagliano la voce di Levon, ed i cori della figlia Amy e di Teresa Williams, per un brano dal testo forte e impegnato. Ottima si rivela la rilettura di The mountain, dal songbook di Steve Earle,  brano che pare scritto per il nostro, che lo canta con passione e trasporto. The train a robbery e Got me a woman, giocano con la tradizione, tra atmosfere old time, con Helm che si destreggia nell’ultima al mandolino. Feeling good è invece un omaggio a JB Lenoir e al blues tanto amato dal batterista. Calvary, scritta dal bassista Byron Isaacs, non sfigura in mezzo ai tradizionali, merito anche di un’interpretazione maiuscola del nostro. Le struggenti Little birds e Anna Lee impressionano invece per semplicità e vedono nel violino lo strumento guida. Due brani sofferti dove la voce di Helm raggiunge picchi d’intensità emotiva prima mai sfiorati. Chiude il disco la tersa Wide river to cross, scritta da Buddy Miller. Un album che omaggia le proprie radici e il proprio passato con cuore e passione e sancisce il ritorno di uno dei più straordinari interpreti della tradizione musicale americana.


 


                            

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