lunedì 17 dicembre 2012

Dylan LeBlanc - Cast the same old shadow

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo un esordio, Paupers Field, che ne aveva mostrato, il seppur ancor acerbo, talento compositivo, in molti si aspettavano da Dylan LeBlanc un passo falso, o quantomeno una seconda prova incapace di attestarsi sui medesimi livelli qualitativi della precedente. In effetti vuoi, sia per un’inesperienza dettata dall’età che per una possibile ansia da prestazione derivabile dal bailamme mediatico generatosi intorno ad esso, ma per questo “giovincello di belle speranze” del moderno country folk il rischio di un flop era più che mai palpabile. Ed invece, quasi a zittire i maligni, pronti già a danzare sulla sua tomba artistica, il nostro si ripresenta oggi, dopo due anni, con Cast The Same Old Shadow, che non solo equipara la bellezza del suo predecessore ma ci mostra un songwriter maturo, capace di ampliare ulteriormente i confini di una già vincente formula sonora. A dominare l’intero lavoro sono tuttavia i toni chiaroscuri, con una malinconica introspezione a fare da collante tra flebili ballate in bilico tra un Neil Young d’antan e moderne architetture nu-folkie. Tornato a registrare nei leggendari Fame Studios di Muscle Shoals, sotto l’egida dell’ormai fidato Trina Shoemaker, LeBlanc fissa su pentagramma dieci piccole composizioni, la cui sfuggevolezza le rende simili a leggeri soffi di una brezza autunnale. Ad essere in primo piano è ovviamente la voce del nostro in quel suo librarsi verso aerei vocalizzi, ad accentuare ancor più l’aspetto immaginifico della propria musica, figlia legittima di quell’estetica dei “grandi spazi”. Su questa scia si dipanano brani come l’opener Part One: The End, liquida e sognante digressione verso modernismi di stampo folkie, oppure come la title track, che nel suo sognante incedere resta tuttavia ancorata ai classici stilemi del country folk. Quest’ultimo nella sua accezione più “classica” è alla base tanto dell’acustica impalpabilità di Innocent Sinner quanto delle aperture melodiche di Diamonds And Pearls, nelle quali pedal steel e piano contribuiscono, tessendo uno struggente tappeto sonoro, ad accentuare la lievità sonica. Danza invece a tempo di valzer Where Are You Now, i cui toni sommessi ben si sposano con la vocalità sofferente del suo autore, che ritroviamo anche nella scarna ballata Chesapeake Lane. Sintomatica del persistente tentativo del nostro di fondere antico e moderno è invece Brother, nella quale pare di sentire le giovani “volpi di velluto”, con un’ospite speciale alla chitarra elettrica, proprio quel Neil Young per il quale LeBlanc non ha mai nascosto il proprio amore. Lonesome Waltz, come si può facilmente intuire dal titolo, è un nuovo valzer, dalle tinte country, che ci accompagna per mano verso un soave commiato dalle meste arie leblanchiane. Un album, quello approntato dal songwriter della Lousiana, che non fa sicuramente dell’immediatezza la sua arma vincente, riuscendo tuttavia ad incantare, ascolto dopo ascolto, grazie alle sue flessuose melodie. “Getterà la stessa vecchia ombra” il buon LeBlanc, ma quest’ultima ancor una volta è riuscita a mostrarsi in tutta la sua scura avvenenza.

martedì 11 dicembre 2012

0039 - Dial

(Pubblicato su Rootshighway)

Nati dalle ceneri della bluegrass band genovese Bononia Grass, gli 0039 sembrano, con questa loro opera prima, portarne avanti il testimone. Un album Dial, dal titolo più che azzeccato vista la loro ragione sociale d'ispirazione telefonica, ottimamente prodotto e ancor meglio suonato, dove bluegrass, old time music e reminescenze country vengono miscelati con gusto e passione. Merito senza dubbio dell'abilità tecnica dei singoli musicisti coinvolti, veri e propri virtuosi del loro strumento, i quali non hanno nulla da invidiare ai "colleghi" d'oltreoceano. Ennesimo punto a loro favore è poi la presenza di una manciata di brani autografi di pregevole fattura, segnale sia di una fervida vena compositiva, in questo caso quella di Paolo Ercoli, che di un'ottima conoscenza della musica tradizionale americana di matrice bianca. Tra questi spiccano le movimentate Gone for Good e Keep on Movin' On, una Cheatin' Kind in odore di swing, e lo struggente valzer venato di country di Lonesome for You, dove fa la sua comparsa anche il violino di Nicky Sanders. E proprio la presenza di quest'ultimo, insieme a quel del compagno negli Steep Canyon Rangers Mike Guggino, riduce ulteriormente la distanza fisico-musicale tra Italia e Stati Uniti, legittimando una volta di più l'internazionalità del progetto. Tra gli ospiti fa poi la sua comparsa nientemeno che Andy Hall, leader degli Infamous Stringduster, che porta in dote un brano autografo, il ritmato strumentale Hall of Us. Ottimo anche il lavoro svolto sulle armonie vocali che attorniano e rafforzano le due voci soliste, con Giovanni Stefanini e Luca Bartolini che si alternano al microfono nei vari brani, con quest'ultimo impegnato anche a pizzicare con maestria la propria chitarra acustica. Gli 0039 dimostrano inoltre di cavarsela egregiamente anche nella riproposizione di traditional e brani altrui, come nel caso di Bound to Ride, dal repertorio di Lester Flatt e Earl Scruggs, dove ad emergere sono il mandolino di Giovanni Stefanini e la dobro di Paolo Ercoli. Il banjo di Marco Ferretti detta invece i tempi e fa faville nella conclusiva ed arrembante dichiarazione d'intenti di Wannabe a Country Music Star, che poi è proprio quello che mi sento di augurare agli 0039.

domenica 9 dicembre 2012

Black Keys live @ Palaolimpico - Torino

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Dopo il sold out meneghino di inizio anno il duo di Akron torna nel Belpaese per un unico e nuovamente affollato appuntamento. E’ infatti un vero e proprio fiume umano quello che si snoda in tre ordinate file davanti al Palaolimpico di Torino, tanto da far controllare al sottoscritto sul proprio biglietto di essere al concerto giusto. Carta canta si sa, e stasera di scena ci sono proprio i Black Keys. D’altra parte la ressa in attesa dell’apertura dei cancelli non è che l’ennesimo segnale degli enormi cambiamenti che hanno sconvolto in questi anni l’universo sonoro del duo. L’hype intorno ad essi è da un anno a questa parte, complice anche l’uscita del tanto fortunato quanto mediocre El Camino, alle stelle, ma le radici della loro inaspettata popolarità sono tuttavia da ricercarsi con l’inizio del fortunato, commercialmente parlando, sodalizio con il produttore Danger Mouse. Quest’ultimo ha saputo infatti smussare gli angoli del primigenio sound keysiano, trasformando i due in vere e proprie rockstar. Aperti i cancelli e con la folla che inizia ordinatamente a scorrere ci troviamo presto di fronte al palco, che a differenza di quanto mi aspettassi non presenta scenografie o orpelli di sorta ma è caratterizzato invece da grande sobrietà. Palco dove ben presto salgono i Maccabees, “new new wave” combo londinese, osannato da critica e pubblico, che si destreggia in un set, tra l’altro piuttosto lunghetto, tra molte infamie e poche lodi. La loro proposta musicale, che vorrebbe fare dell’irritante miagolio vocale di Orlando Weeks il proprio tratto distintivo, è invece caratterizzata da una certa monotonia sonica di fondo, complici anche una serie di brani davvero troppo simili tra loro. Non parliamo poi dei due “chitarristi”, ai quali andrebbe spiegato che gli strumenti a sei corde che imbracciano, non sono meri elementi di scena per rendere più plastiche le loro pose da rockstar, ma vanno anche suonati. Il pubblico sembra comunque gradire e regala loro parecchi applausi. Dopo un lunghissimo cambio palco, ecco finalmente entrare in scena le vere star, è proprio il caso di dirlo, della serata. Su di un sample di stampo quasi hip hop, Dan Auerbach e Patrick Carney salutano la platea dando inizio alle danze con una Howlin For You, che pare infiammare subito gli animi. Non ci saranno sorprese di rilievo nella scaletta di stasera, essendo quest’ultima da parecchio tempo a questa parte pressoché assodata. Setlist composta per la maggior parte dalla recente produzione keysiana, con ampi estratti da El Camino, come era logico attendersi, e dal precedente Brothers, mentre poco spazio viene, ahimè, lasciato al passato più remoto. Al pubblico pare in ogni modo non importare granchè e ben presto dà inizio ad un’incessante singalong, il quale sarà uno dei leitmotiv dell’intera serata. D’altra parte i brani di nuova fattura sembrano essere stati scritti proprio per essere suonati in venue di grandi dimensioni, come ben testimoniato da Run Right Back e da una Gold On The Ceiling accolta da una vera e propria ovazione. Il sound del duo, o per meglio del quartetto, vista la presenza sul palco di Gus Seyffert al basso e John Wood alle tastiere, è notevolmente cambiato, passando dal grezzo garage blues degli esordi, a un rock dalle molteplici sfaccettature, che arriva a vestirsi (troppo) spesso di paillettes e lustrini. Dan Auerbach rimane fortunatamente il solito funambolo della chitarra elettrica, macinando riff e sciorinando assoli capaci di abbattere persino una mandria di bisonti in corsa, rivestendo al contempo un ruolo da frontman nel quale non sembra ancora essersi calato appieno. Il vero pesce fuor d’acqua è tuttavia Patrick Carney che, con occhiali da nerd d’ordinanza, si destreggia come può dietro ai tamburi, lasciando tuttavia intravedere delle carenze tecniche che si manifestano in particolar modo nei brani di più recente produzione (in Gold On The Ceiling per esempio). Il suo drumming sconnesso e scomposto sembra infatti non integrarsi appieno con il muro sonico creato dai compagni, perlomeno fino a quando i nostri rimangono sul palco, come ai cari vecchi tempi, nuovamente in due. Un lancinante feedback introduce Thickfreakness, una vera e propria frana sonora che si abbatte all’improvviso sugli astanti, a dimostrazione di come la primordiale fiamma garage blues non sia stata del tutto smorzata dalle recenti spruzzate moderniste. La sei corde di Auerbach pare poi risvegliare lo spettro di Junior Kimbrough nell’intro strumentale che anticipa la furia garagista di Girl Is On My Mind, bissata subito da un’adrenalinica Your Touch, dove il sound keysiano pare tornare quello dei bei tempi che furono, quando i due se ne fregavano della popolarità e pensavano solo a suonare. La zeppeliniana Little Black Submarines ci riporta invece ai giorni nostri, e stempera in parte l’elettricità che ancora pervade l’aria, lasciando il solo Auerbach alla chitarra, la cui voce viene presto doppiata da tutte quelle dei presenti, prima della roboante coda finale. Se Strange Times fa come sempre la sua bella figura, 10 Cent Pistol e Tighten Up trasudano soul da ogni nota, mentre il tormentone Lonely Boy è il brano che il 90% dei presenti stava aspettando dall’inizio del concerto, per lanciarsi in danze sfrenate. I quattro abbandonano quindi il palco ma, giusto il tempo di far scendere un’enorme mirror ball, che le suadenti note di Everlasting Light avvolgono il Palaolimpico, colorato da splendidi giochi di luce. Il gran finale è ancora tuttavia in duo, affidato ad una rocciosa I Got Mine, con Auerbach assatanato che si dimena in lungo e in largo con la sua sei corde, dilatando il brano sino allo spasimo, la cui eco sonora ci accompagnerà fino all’uscita. Quella di stasera è stata l’ulteriore prova di come il duo di Akron pare essere definitivamente entrato a far parte del cosiddetto “rock che conta”. Oggi infatti più che “chiavi nere” i due sono diventati dei “passepartout” in grado di aprire senza fatica le serrature dei più svariati cuori musicali. Nel vendere tuttavia la loro anima garage blues alla dea Popolarità i Nostri avranno certamente guadagnato in fama e successo, ma questo a discapito di quel sound grezzo e personale che ne aveva caratterizzato gli esordi e che stasera è emerso purtroppo solo a tratti.


SETLIST:

Howlin For You
Next Girl
Run Right Back
Same Old Thing
Dead And Gone
Gold On The Ceiling
Thickfreakness
Girl Is On My Mind
Your Touch
Little Black Submarines
Money Maker
Strange Times
Sinister Kid
Nova Baby
10 Cent Pistol
She’s Long Hone
Tighten Up
Lonely Boy

ENCORE:

Everlasting Light
I Got Mine

domenica 25 novembre 2012

Scott Cook - Moonlit rambles

(Pubblicato su Rootshighway)

Nativo di Edmonton, nello stato dell'Alberta, Scott Cook ha tuttavia trascorso la sua recente esistenza, artistica e non, a bordo del proprio furgone, prima lungo gli sperduti sentieri del verde Canada, valicandone poi i confini per affrontare la vastità dei territori statunitensi. D'altra parte si sa, i viaggi sono da sempre una tappa fondamentale, oltre che un'inesauribile fonte ispiratrice alla quale abbeverarsi, per ogni songwriter che si voglia definire tale. Fin dall'emblematico titolo di questa sua terza fatica discografica, si intuisce infatti come ad essere al centro dell'impianto musico-narrativo sia appunto il viaggiare, e conseguentemente le storie, i luoghi e le persone ad esso legati indissolubilmente. Se le architetture sonore di chiara derivazione folk, attraverso le quali si dipana la proposta musicale cookiana, hanno la loro peculiarità in una tanto disarmante quando suggestiva semplicità melodica, a risaltare sono senza dubbio le liriche, le quali danno vita a piccole istantanee dalle tinte seppiate. Basti prendere l'opener Song for the Slow Dancers, una neanche tanto velata dissertazione sull'autenticità della musica odierna, traente ispirazione dalle parole di colui con il quale prima o poi ogni songwriter "vagabondo" deve confrontarsi, Woody Guthrie. Senza parlare di una Going Up to the Country, che miscela in egual misura country e folk, e dove cominciano a mettersi in luce gli apporti strumentali dei Long Weekends, ormai consolidata backing band del nostro. Let Your Horses Run è una ballata dai toni sommessi, che si regge su di un bel lavoro di fingerpicking, ulteriormente abbellito dall'armonizzazioni vocali di Shawna Donovan e da un banjo suonato in punta di dita. The Lord Given (and the Landlord Taketh Away) sconfina in territori bluegrass e, facendo sua l'affermazione di William K. Black secondo la quale "Il miglior modo di rapinare una banca è fondarne una", può essere ascritta di diritto nel novero delle moderne protest song. Il songwriting cookiano raggiunge poi il proprio apice nel malinconico incedere di High and Lonesome Again, i cui afflati country vengono ulteriormente dilatati dai languidi intarsi melodici della pedal steel. Sembra preferire i tempi rallentati Cook, sia che si tratti dell'introspezione in chiave folk di All My Moonlit Rambles, dell'acquerello acustico per sola voce e chitarra di Time with you o della toccante dedica al nonno di Go on, Ray, nelle quali a risaltare è la sua voce tanto flebile quanto a tratti avvolgente. Una voglia di viaggiare quella insita nel canadese, che pare non essersi sopita, come si intuisce nella conclusiva Song for a Pilgrim,ennesimo esempio di una proposta sonora che trova la propria forza nel sottrarre invece che nell'aggiungere. E se i risultati dei futuri pellegrinaggi sonori si assesteranno sul medesimo livello di queste "passeggiate al chiaro di luna", non possiamo che augurare a Scott Cook un buon viaggio.

sabato 24 novembre 2012

Rossopiceno - Come cambia il vento

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

In un’Italia allo sfascio, guidata da un malnato governo tecnico, strozzata da un’aberrante crisi socio-economica e dove il futuro è ormai solo più un vago tempo verbale, opere musicali del calibro di Come Cambia Il Vento dei Rossopiceno sono quanto mai preziose. Il gruppo marchigiano dopo l’esordio dello scorso anno, con Storie In Un Bicchiere, torna ora con un secondo album intriso di rabbia e speranza, scritto e suonato da ventenni in cerca del proprio posto in un paese che sembra non sapere che farsene dei suoi giovani. Ed è proprio questo il maggior pregio di Come Cambia Il Vento, il riuscire a veicolare un comune malessere giovanile, ma non solo, attraverso una manciata di pregevoli composizioni di matrice (combat) folk, dando così voce a sogni disillusi, problemi e ansie esistenziali, sottovalutati, se non sbeffeggiati, da una società vecchia non solo anagraficamente. Una maturità quella dei Rossopiceno, che non si manifesta solo a livello testuale, ma anche musicalmente, attraverso un impasto sonoro ben calibrato e dalle molteplici sfumature. Molte anche in quest’occasione le collaborazioni eccellenti, a cominciare da Francesco Moneti, qui non solo seduto in cabina di regia, ma impegnato a far correre veloce l’archetto sul suo violino, oltre che a pizzicare vari altri strumenti a corda. Le affinità con i Modena City Ramblers, tra le fila dei quali quest’ultimo milita, sono più che evidenti, ma non di semplice emulazione si tratta quanto della personalizzazione di sonorità che i Rossopiceno sentono quanto mai loro. La precisa e “colorata” sezione ritmica composta dalle percussioni di Massimo Pasqualetti e dalla batteria di Stefano Nespeca, svolge egregiamente il proprio lavoro, creando un tappeto percussivo che ben si adatta sia a battaglieri assalti combat folk che a ballate di più ampio respiro. Minimo comune denominatore di entrambe le tipologie sonore poc’anzi descritte è tuttavia la fisarmonica dell’ottimo Vanni Casagrande che, insieme alla voce di Emidio Rossi, rimane uno degli elementi fondanti del suono dei Rossopiceno. Esempi di cotanta bravura strumentale si possono rintracciare nell’anthemica Fermoimmagine, nella rarefazione di Prima Della Pioggia, così come nel lento dischiudersi di Freddo. Se l’incipit di Come Cambia Il Vento vede Marino Severini prestare la propria voce, nel finale della dura analisi della situazione lavorativa nel nostro paese di Camici e Tute, spazio viene lasciato all’ironico monologo di Ascanio Celestini. Echi dei Ramblers modenesi riaffiorano, nel prosieguo dell’ascolto, sia in Sol, che pare un estratto da Terra e libertà, che in C’era, combat song sulle gesta dei partigiani, già apparsa nella tracklist di Battaglione Alleato, album corale supervisionato proprio da Moneti e soci. Posta in chiusura Soltanto Un Po’, tra sentori irish, barlumi folk e un finale di stampo bandistico, è un’ulteriore esempio della qualità della proposta del combo marchigiano. Come il vino della loro terra, al quale si sono ispirati per la scelta del nome, anche il sapore della musica dei Rossopiceno, con l’andar del tempo sembra essersi fatto più persistente e ricco d’aromi, capace di stuzzicare tanto le papille gustative quanto l’apparato uditivo.

lunedì 19 novembre 2012

Calexico @ Alcatraz - MIlano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Novembre porta in quel di Milano il primo grigiore autunnale, rendendo ancor più malinconica la città meneghina. E se fuori il freddo comincia a farsi a tratti pungente, a riscaldare cuori e anime dei propri accoliti, accorsi a stipare l’Alcatraz, ci pensano i Calexico. Il combo di Tucson torna infatti a calcare i palchi italiani per presentare il loro ultimo parto discografico, Algiers. Una data, quella di questa sera, cerchiata da tempo in rosso sul calendario, in quanto le sortite ‘calexichiane’ sono da sempre foriere di grandi emozioni, e anche in quest’occasione i nostri non hanno deluso le aspettative. Un delizioso antipasto è stato senza dubbio quello offerto dai Blind Pilot, indie folk band di Portland, che in un set breve ma emozionante hanno saputo mostrare la bontà della propria musica, strappando larghi consensi ad un pubblico più che partecipe. Guidati dalla lirica voce di Israel Nebeker, il quartetto ha proposto estratti dai loro due album, incantando i presenti con pregevoli armonie vocali, grazie anche all’apporto delle ugole del contrabbassista Luke Ydstie e di Karin Claborn, impegnata, tanto al banjo quanto al dulcimer, ad intessere al contempo eterei arpeggi. I quattro lasciano il palco sulle note di We Are The Tide (title track del loro ultimo disco) sulla quale fa la sua comparsa anche la tromba di Jacob Valenzuela. Giusto il tempo di un veloce cambio palco ed ecco entrare in scena il combo statunitense. Denominazione quest’ultima che appare tuttavia riduttiva nel descrivere l’organico dei Calexico, in quanto ci troviamo di fronte ad un collettivo, avente radici tanto negli Stati Uniti quanto in America Latina ed in Europa, che ha sempre fatto della propria multi etnicità uno dei suoi punti di forza. Sette i musicisti sul palco, e se il fulcro sonoro è come sempre la coppia Joey Burns - John Convertino, i cinque compagni al loro seguito non sono semplici comprimari ma elementi fondamentali nella creazione del “Calexico sound”.
Come era ovvio aspettarsi, quella di stasera sarà una scaletta incentrata prevalentemente su “Algiers”, dal quale Burns e soci andranno ad attingere a piene mani, mostrando come la bellezza delle composizioni in esso contenute, venga ulteriormente amplificata dalla dimensione live. Non mancherà tuttavia qualche ‘gustosa’ sorpresa, in quella che sarà una festa musicale multicolore, tra atmosfere ‘tex mex’, divagazioni desertiche, piccanti ritmi latini ed introspezioni soniche.
Se l’apertura affidata all’oscura Epic, opening track anche dell’ultimo Algiers, mostra il lato più riflessivo dei nostri, con Across The Wire ci ritroviamo in territorio messicano, con i fiati di Jacob Valenzuela e Martin Wenk a soffiare arie mariachi, accompagnati dalle note della steel guitar di Jairo Zavala. La suadente Roka, profuma invece di Sudamerica, impreziosita dall’apporto vocale di Valenzuela, che riesce nel non facile compito di non fa rimpiangere la mancanza della sensuale voce di Amparo Sanchez. Quest’ultimo passa poi dietro al vibrafono e insieme al piano di Sergio Mendoza, che per come è vestito sembra uscito da una festa in quel di Tijuana, colorano di tinte scure la lenta Dead Moon. La prima vera e propria ovazione i nostri la ricevono tuttavia non appena affiorano le note della strumentale Minas De Cobre, dal loro capolavoro The Black Light, capace di racchiudere al suo interno, come pochi altri brani, l’intero universo sonico calexichiano. Joey Burns pare davvero in stato di grazia; sorride, scherza, dialoga con il pubblico, oltre a dirigere i propri compari con rara maestria, confermandosi una volta di più un leader a dir poco carismatico. Leadership che tuttavia divide a pari merito con John Convertino, quasi un serial killer da b-movies nella sua tenuta in camicia a quadri e occhiali da nerd, il cui muoversi dietro ai tamburi è però pura poesia ritmica, sia che si tratti del percuotere con veemenza le pelli, che di lasciar strisciare con delicatezza le proprie spazzole. E il pubblico gli tributa il giusto riconoscimento acclamandolo a più riprese, tanto da istigare Burns alla battuta, che con un “Anche noi lo chiamiamo così per svegliarlo al mattino”, provoca l’ilarità di tutti i presenti. Sunken Waltz è un altro tesoro che riaffiora dal passato e con la recente Fortune Teller è forse il momento emotivamente più alto dell’intero concerto, bissato poco più avanti da una Alone Again Or, a marchio Love, da manuale. Seconda ovazione della serata accoglie una vibrante Crystal Frontier, con la quale i nostri ci salutano. Ovviamente non è finita qui, i sette rientrano in scena ed, accompagnati dai Blind Pilot, ripropongono una divertente For Your Love, dal songbook degli Yardbirds, tutta stacchi e ripartenze. Sinner In The Sea, assorta già a piccolo classico, ci porta invece dalle parti di Cuba, mentre la corale Guero Canelo, con all’interno una citazione della Desaparecido di Manu Chao, conclude la prima tranche di encore.
Si, perché i nostri richiamati a gran voce tornano on stage per regalarci una fluttuante The Vanishing Mind, che ci accompagna, cullandoci, verso la fine di quello che è stato un nuovo, immaginifico ed indimenticabile viaggio lungo le polverose strade del border.

venerdì 9 novembre 2012

Cuori in Barrique - Il gatto vegetariano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Genialità oppure follia?! Questo il dilemma che mi sono trovato ad affrontare una volta inserito nello stereo Il Gatto Vegetariano, terzo album dei Cuori in Barrique. Continuando nell’ascolto si intuisce come il quesito precedente in realtà non si pone, essendo entrambe le affermazioni precedenti veritiere, in quanto ci troviamo di fronte alla più folle genialità. Nati essenzialmente come duo, composto da Rossano Lannutti, al sax, piano e voce, e dal chitarrista Luca Russo, i Cuori in Barrique vedono tuttavia, in quest’occasione, il proprio organico dilatarsi grazie alla presenza di ben 19 tra musicisti e cantanti. Una creatura dalle molte voci e dalle molteplici gambe e braccia quindi, capace di fagocitare al proprio interno le precedenti esperienze sonore dei due titolari; funk, jazz, reggae e musica latina, dando vita a un cantautorato forse atipico ma non per questo privo di fascino. Curioso è anche il concept sul quale si basa, fin dal titolo, l’intera opera, ovvero un gatto che, stufatosi di inseguire inutilmente i topi, diventa vegetariano, ritrovandosi ad essere a sua volta oggetto della caccia, da parte delle sue ex prede. Una sorta di velata metafora dell’amore, con quel “insegui e fuggi” che contraddistingue molto spesso le vicissitudini sentimentali. A predominare, dal punto di vista musicale, è ovviamente la patchanka di suoni poc’anzi menzionata, in un vorticoso alternarsi di voci e strumenti, come nell’opener Per Tornare, che dal saltellante ska iniziale si apre verso escursioni jazzistiche, prima degli interventi finali di una fisarmonica tangheira. Influenze latine che ritroviamo peraltro alla base tanto dell’invasato mambo di Lubimaya quanto della suadente samba di La Cuoca. La title track è l’ennesima sarabanda sonica, con i fiati a soffiare ska a pieni polmoni e nuove screziature swingate, alla Fred Buscaglione, a variegare il tutto. Jazz nascosto tra i solchi quindi, ma sempre tuttavia presente, sia nella sua accezione più pura che nelle sue varie contaminazioni, specie con la musica latina, come in Seta Virile o nel fumoso tango di Nausicaa, dove pare di sentire il Vinicio Capossela di Camera a sud. Santo Bevitore dal canto suo allarga ulteriormente lo spettro sonoro, unendo gli stilemi classici della canzone d’autore con la solarità del reggae, e vede la partecipazione vocale di Bunna, deux ex machina degli Africa Unite ed autentica istituzione della musica “in levare” italica. La conclusiva Cuorinbarrique è l’ennesima testimonianza della bontà della formula sonora dei nostri, nonché della compiutezza di un album che si lascia ascoltare tutto d’un fiato.


martedì 6 novembre 2012

Jon Cleary - Occapella!

(Pubblicato su Rootshighway)

Ah, la "Big Easy"; neppure l'immane forza distruttrice dell'uragano Katrina è riuscita a piegarne l'ammaliante flusso sonoro; uno speziato gumbo di note, suoni e lingue, tra le più disparate, al quale in passato ha attinto una nutrita schiera di musicisti. Molti infatti, il mai troppo compianto Willy DeVille su tutti, hanno trovato in essa una rinascita artistica, mentre altri ne sono rimasti talmente stregati da non riuscire più ad abbandonare quei luoghi. Uno di questi è Jon Cleary, pianista e cantante, inglese d'origine, ma da anni residente proprio a New Orleans. Qui oltre ad assorbire gli umori sonori della città, ha stretto amicizie importanti, come quella con Mac Rebennack aka Dr John, autentica icona vivente dello spirito musicale neworleansiano. Sul medesimo piano del "Dottore" si pone senza dubbio la figura di Allen Toussaint, eccelso pianista, oltre che uno dei più prolifici autori partoriti dal bayou musicale della Louisiana. Ed è alla musica di quest'ultimo che Jon Cleary tributa un sentito omaggio con Occapella!. Se sin dagli esordi il nostro si era cimentato nell'esplorazione dell'universo sonoro neworleansiano, con questa sua nuova fatica la sua attenzione si focalizza infatti sulla sola produzione toussaintiana, andando a riscoprire anche brani meno noti, composti dallo stesso sotto lo pseudonimo di Naomi Neville. Strumento guida dell'intero lavoro, e non poteva essere altrimenti, è il piano dello stesso Jon Cleary, il quale si destreggia magistralmente tra i tasti bianchi e neri, abbinando ad una tecnica strumentale invidiabile, un'autentica devozione nei confronti dell'opera musicale presa in esame. E questo traspare da ogni nota qui contenuta, sin dall'inebriante incedere dell'iniziale Let's Get Low Down, nella quale troviamo proprio l'amico Dr John, in quest'occasione anche alla chitarra, che presta la sua consueta gigionesca voce, dando vita, insieme a quelle del titolare e di Bonnie Raitt, ad un fascinoso intreccio vocale; il tutto in un brano che pare arrivare dalla produzione di un Rebennack d'antan, quello di Gumbo per intenderci. Altro gradito ospite è il trio degli Absolute Monster Gentlemen, le cui ugole impreziosiscono il bel esercizio doo-woop di Wrong Number, la divertente Popcorn Pop Pop, per poi sublimarsi in una splendida rilettura acappella, con tanto di beatbox e handclapping, di quel gioiellino che è la title track. Se la mordace Everything I do Gonh be Funky vede al microfono Walter "Wolfman" Washington, Cleary dimostra tuttavia di cavarsela anche in solitaria, come nella soave ed evocativa Southern Nights, nel funk futurista di Viva la Money o nella scalcinata bellezza di I'm gone. Allo strumentale Fortune Teller, con le dita di Cleary che corrono sicure e veloci sui tasti, spetta il compito di chiudere un album che non è solo un omaggio ad un singolo artista ma al frenetico, e mai domo, spirito musicale di un'intera città.

 


giovedì 1 novembre 2012

Will Kaufman - Woody Guthrie, American Radical

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

"Un intero libro dedicato al Guthrie radicale doveva essere scritto; un libro su di un risveglio politico e sulle sue conseguenze; un libro che svelasse e recuperasse il pensatore ossessivo e lo stratega irregolare praticamente sepolto dalle celebrazioni romantiche del trovatore della Dust Bowl". Quali, se non le parole dello stesso autore, riescono a spiegare l’importanza del saggio in questione? Perché è proprio questo l’obiettivo postosi da Will Kaufman, nella stesura del suo libro Woody Guthrie. American Radical (con traduzione a cura di Seba Pezzani), ed esplicato a chiare lettere fin dal titolo.
Nel folto numero delle pubblicazioni, cartacee ma soprattutto sonore di stampo guthriano, che hanno caratterizzato il 2012, centenario della nascita del folksinger di Okemah, il libro di Kaufman spicca come la classica “mosca bianca”. Professore di letteratura americana all’università inglese del Lancashire, Kaufman si dedica, infatti, ad esplorare un lato di Guthrie sconosciuto ai più, troppo spesso oscurato dall’aura mitologica creata intorno alla sua figura nel corso degli anni. Ad essere al centro di una narrazione fluida ed avvincente, è infatti l’essere umano Woody Guthrie, nelle sue molteplici sfumature, tra pregi e difetti, capace tuttavia al contempo di rileggere con straordinaria lucidità e semplicità, attraverso la propria opera musicale, la società americana a lui contemporanea, nelle sue innumerevoli contraddizioni. E proprio qui risiede il maggior merito di Kaufman, ovvero l’averne raccontato, in modo esauriente, l’attivismo politico, al quale Guthrie dedicò gran parte della sua esistenza, prima di arrendersi ad una tremenda e debilitante malattia. Non ci troviamo quindi di fronte alla romantica figura dell’Hobo d’America, nella sua versione edulcorata presentataci da Hal Ashby nel film Bound For Glory, né tantomeno a quel restyling che la sua opera pare aver ricevuto da parte dell’America conservatrice (basti solamente osservare la banalizzazione, al limite del più becero populismo, alla quale è stata sottoposta a più riprese This Land Is Your Land). Ad essere al centro della narrazione è infatti la presa di coscienza politica di Guthrie, sfociata prima nell’adesione al socialismo e poi al comunismo; una “militanza” che ha in parte inizio con la nascita della rubrica “Woody Sez”, tenuta dal nostro sul “People’s World”, e in seguito rafforzatasi ulteriormente con l’arrivo a New York. Ed è a questo punto che il lavoro di Kaufman si fa prezioso, andando a ripescare, negli stessi archivi della Woody Guthrie Foundation, scritti, poesie, testi e disegni, unendo ad essi le testimonianze di coloro che vissero insieme a Guthrie quel periodo di fervida lotta politica. Assistiamo pertanto all’evoluzione del “pensiero politico guthriano”, tra punti fermi e contraddizioni; dalla partecipazione al progetto governativo per la celebrazione della Grand Coulee Dam, passando per una feroce critica al New Deal rooseveltiano, fino alle aspre lotte sindacali; sia con gli Almanac Singers, in compagnia dell’allievo e amico Pete Seeger, che in solitario. Dal pacifismo tramutatosi in un fervido interventismo all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, fino ad arrivare agli anni della Guerra Fredda, delle nascenti battaglie per i diritti civili e dell’oppressione maccartista, l’attivismo politico e culturale di Woody Guthrie pare essersi sempre più rafforzato.
Ad essere presente, come una sottile “linea rossa”, lungo tutto il dipanarsi della narrazione, è proprio questa sua perenne voglia di lottare per un mondo migliore e più giusto, protrattasi mai doma anche nel periodo in cui la feroce Corea di Huntington ne aveva minato mente e corpo. Ed è questo inedito lato della figura di Woody Guthrie ad emergere una volta conclusa la lettura di questo illuminante saggio; l’inossidabile lottatore, capace come pochi altri di trasporre in musica le ingiustizie e le brutture di una società, quella americana, ancor oggi purtroppo funestata dalle cupe e losche figure che la infestavano allora. Proprio per questo l’irruente radicalismo, tradotto su pentagramma, sembra non essere stato minimamente scalfito dal lento trascorrere del tempo, tutt’altro, tanto che la sua opera appare oggi più viva ed attuale che mai.

 

giovedì 18 ottobre 2012

Wilco live @ Teatro Concordia - Venaria Reale (TO)

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Have a great night with the greatest rock’n’roll band”; ecco, basterebbero le parole di commiato di Andrew Mitchell, chitarrista e cantante degli Hazey Janes, per descrivere al meglio la serata trascorsa in quel di Venaria Reale. D’altronde quale appellativo è più calzante per l’inarrivabile creatura chiamata Wilco se non appunto quello di più grande rock’n’roll band dei giorni nostri? Se la scorsa tranche di concerti in terra italica era stata indicatrice dell’eccelso stato di forma del combo di Chicago, la nuova full immersion nel Belpaese, tre date in tre giorni, ha infatti mostrato ancor di più la perfezione sonora raggiunta dai nostri. Ventotto brani, più di due ore di grande musica senza la benché minima sbavatura né calo di tensione, con sei musicisti, a dir poco eccelsi, ad incantare una platea in estasi; questa la numerologia wilconiana di quella che è stata una delle loro perfomance italiane più belle ed intense. Preludio della serata l’appetitoso antipasto offerto dagli Hazey Janes, interessante combo scozzese, capace di conquistare gli astanti con il loro psych pop venato di alternative country, del quale la lirica voce del già menzionato Andrew Mitchell è sicuramente il tratto distintivo. Tempo di un veloce cambio palco ed alle 21:30 le luci si spengono tra un vero e proprio boato. Neanche il tempo, per Tweedy e soci, di palesarsi sul palco che le note di Misunderstood si spandono nell’aria tra le grida di giubilo del pubblico. D’altronde chi se lo aspettava un inizio così?! Art Of Almost rappresenta invece l’apice sperimentale del combo chicagoano, una fucina di suoni e stridori che nelle sue digressioni strumentali arriva a lambire algidi territori ambient; una sperimentazione che ritroviamo anche in I Am Trying To Break Your Heart, mai forse così perfetta nel suo unire barlumi elettronici con tenui melodie vocali. La struggente leggiadria di Sunken Treasure è, dal canto suo, l’ennesima dimostrazione dell’immenso valore della vena compositiva di Jeff Tweedy, senza ombra di dubbio il miglior songwriter della sua generazione, come peraltro ampiamente testimoniato da un ormai nutrito songbook, saccheggiato in lungo e in largo nel corso della serata. Trovano infatti spazio sia brani tratti dal recente The Whole Love, su tutte Standing O e Born Alone, che le divagazioni verso i territori loosefuriani di Laminated Cat, passando per una sontuosa Impossible Germany, assorta al rango di vero e proprio classico, fino agli spettri alternative country che pervadono Shouldn’t Be Ashamed, tratta dal seminale A.M..I nostri si divertono, e si vede, a cominciare dallo stesso Tweedy, sorridente e partecipe, che scherza e dialoga con il pubblico, incitandolo più volte a urlare a gran voce “Wilco! Wilco! Wilco!”, per poi unirsi anch’egli al coro. Attorno a lui si stringono poi cinque musicisti fuori dell’ordinario, per capacità tecniche e versatilità, che stupiscono ogni volta di più per la compattezza sonora raggiunta. Una corale Jesus Etc, con Tweedy che si allontana dal microfono per fondere la propria voce con quelle di tutti i presenti, è sicuramente il picco emozionale della serata, mentre Handshake Drugs e Heavy Metal Drummer, ormai punti inamovibili delle scalette wilconiane, mantengono alta una tensione emotiva fattasi a dir poco palpabile. Risplende, come sempre, di luce propria Hummingbird, uno di quei brani che risentiresti per ore e ore innamorandotene ogni volta di più, alla quale fa seguito una vibrante Shot In The Arm, che chiude come meglio non si potrebbe la prima parte del concerto. Non abbiamo neanche il tempo di rifiatare che i nostri tornano sul palco per deliziarci con un trittico certamente non per deboli di cuore. Come definire altrimenti la sequenza al cardiopalma di Via Chicago, Passenger Side e California Stars?! La prima è l’ennesimo piccolo grande capolavoro tweediano, per purezza melodica e qualità testuale, le cui divagazioni “rumoriste” ne fanno al contempo ideale manifesto sonoro wilconiano; Passenger Side dal canto suo è uno di quei brani che non dovrebbe mai mancare nelle scalette dei nostri, ma che purtroppo solo ogni tanto fa la sua comparsa dalle polveri del passato, mentre California Stars rende omaggio al mai dimenticato Woody Guthrie, del quale quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Walken e Hate It Here sono due gustosi estratti dai solchi di Sky Blue Sky, prima dell’energica I’m The Man Who Loves You, con Glenn Kotche in piedi sul proprio sgabello a prendersi la doverosa ovazione, che riporta i nostri dietro le quinte. Il pubblico non ci sta e richiama a gran voce i propri beniamini che rientrano in scena per la doppietta beingtheriana di Monday e Outtasite (Outta Mind), concludendo con una debordante Hoodoo Voodoo, dove agli incroci chitarristici di Nels Cline e Pat Sansone, si aggiungono il campanaccio e gli esilaranti balletti del tecnico delle chitarre, tra l’ilarità generale. Ora è davvero finita, i sei salutano il proprio pubblico tra le urla e gli applausi scroscianti. E non possono che tornare in mente le profetiche parole di Andrew Mitchell, poiché abbiamo davvero trascorso una grande nottata con la più grande rock’n’roll band attualmente in circolazione.


SETLIST:

Misunderstood
Art of Almost
Standing O
I Am Trying To Break Your Heart
I Might
Sunken Treasure
Born Alone
Laminated Cat (aka Not For The Season)
Impossible Germany
Shouldn’t Be Ashamed
Jesus, Etc.
Whole Love
Handshake Drugs
War On War
Always In Love
Heavy Metal Drummer
Dawned On Me
Hummingbird
Shot In The Arm

Encore:

Via Chicago
Passenger Side
California Stars
Hate It Here
Walken
I'm the Man Who Loves You

Encore 2:

Monday
Outtasite (Outta Mind)
Hoodoo Voodoo

mercoledì 17 ottobre 2012

Pokey LaFarge and the South City Three - Live in Holland

(Pubblicato su Rootshighway)


Paiono personaggi del Furore steinbeckiano, Pokey LaFarge e i suoi South City Three, quattro hobo in viaggio su di un treno merci verso l'assolata California, in una nuova, neanche poi tanto, immaginaria Grande Depressione. E dal passato i nostri attingono sonorità e tematiche, rileggendole attraverso un ruspante impasto acustico a base di jazz primigenio, western swing, ragtime e country blues. Se i precedenti lavori in studio, avevano mostrato la freschezza della loro proposta musicale, è dal vivo che il quartetto riesce ad esprimere al meglio le proprie potenzialità, come ben immortalato in questo Live in Holland. Una venue sountuosa, il Paradiso di Amsterdam, quattro musicisti in grande spolvero, una manciata di trascinanti canzoni, ed un pubblico in delirio; questi gli ingredienti di quella che è una perfetta fotografia del loro odierno live show. Se figura centrale intorno alla quale ruota l'intera esibizione è il sempre più istrionico Pokey LaFarge, i South City Three non si limitano tuttavia al mero accompagnamento, ritagliandosi in più d'un occasione il proprio spazio. Adam Hoskins può così dare sfoggio della propria tecnica chitarristica, mentre il pulsare insistente del contrabbasso di Joey Glynn crea il tappeto ritmico perfetto per le evoluzioni all'armonica di Ryan Koening che, destreggiandosi anche alla washboard e al rullante, è l'autentico jolly del trio. L'inizio del concerto è a dir poco scoppiettante, con l'energica ripresa di Devil ain't lazy, vecchio brano marchiato Bob Wills, alla quale fa seguito una vibrante Can't be satisfied, con Koening a soffiare con forza dentro il suo piccolo strumento. Se Fan it è un tuffo nella tradizione western swing, stemperando in parte gli accesi toni della serata, già con l'esuberante Pack it up e il boom chicka boom di Walk your way out of town si ritorna su di ritmi sostenuti, prima di una Two-faced Tom, al cui "call and response" partecipa tutto il pubblico. Il fantasma di Jimmie Rodgers fa invece la sua comparsa, insieme a quelli della Memphis Jug Band, in una splendida In the graveyard, con un'intensa interpretazione vocale, al limite del recitato, del buon Pokey, che si ripete nell'alcoolica Drinkin whiskey tonight. Cairo, Illinois è una superba ballata dal retrogusto country folk, mentre si rifà all'old time music Claude Jones, tra il metallico picchiettare della washboard di Koening ed un kazoo affidato alle labbra di Pokey. Kazoo che ritroviamo anche nell'apocalittica coralità di Hard times come and go, prima di giungere al tripudio finale di una La la blues, diventata ormai un piccolo classico. Una musica, quella del quartetto del Missouri, senza tempo, che pare trovare sulle assi del palcoscenico la sua vera ragion d'essere. D'altronde la loro, citando lo stesso Pokey LaFarge, "it's not retro music, it's American music that never died". Anzi, è più viva e arzilla che mai.

venerdì 12 ottobre 2012

Bosio - L'abbrivio

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Un progetto, quello a nome Bosio, a conduzione pressoché familiare, con le proprie radici ben affondate nel fertile underground musicale ligure. Proprio da quest’ultimo arrivano infatti i due fratelli Bosio, Pietro ed Enrico, entrambi facenti già parte di alcuni interessanti combo indie quali Numero6 e En Roco. Esperienze sicuramente importanti quest’ultime, che hanno aiutato la maturazione, soprattutto in Pietro, di una necessità di mettersi in proprio, per dare libero sfogo ad una fervida vena creativa. Senza abbandonare il proprio strumento “naturale”, il basso, Pietro imbraccia la chitarra acustica e si posiziona per la prima volta davanti al microfono, imprimendo su nastro le proprie idee musicali, lasciate per troppo tempo a riposare. A dar man forte al fratello troviamo la sei corde di Enrico, anche al banjo, il quale arruola per questa nuova avventura il batterista “greco” Giorgios Avgerinos, già suo compagno nelle fila degli En Roco. Il progetto si assesta pertanto in un’ideale dimensione a tre, allargandosi tuttavia fino ad inglobare i contributi strumentali di una nutrita schiera di amici. Da un lungo lavoro di scrittura ed arrangiamento vede la luce L’Abbrivio, opera prima del trio, dalla quale tuttavia traspaiono già nitidamente tutte le peculiarità sonore del progetto. Fondamenta su cui si basa quest’ultimo è senza dubbio un’assoluta spontaneità sia a livello musicale che testuale, nel tentativo di abbattere i rigidi paletti estetici fissati dall’odierna discografia, tesi ad ingabbiare un’artista entro questo o quell’altro genere musicale. Una musica quella dei nostri lasciata pertanto libera di sgorgare, senza vincoli di sorta, tra improvvisazione ed “errori voluti”, senza tuttavia trascurare una maniacale attenzione per la melodia. Materia musicale di difficile catalogazione quindi, capace di passare, nel solo arco dei tre pezzi iniziali, dall’uptempo di Non So Più Bene Da Quando, dove una voce che ricorda tanto il Rino Gaetano giovanile che “l’allegro ragazzo morto” Davide Toffolo canta della dolorosa fine di un amore; all’indie folk sporcato di Lontano, per giungere alla feroce critica al mondo ecclesiastico di No Vatican, No Taliban, i cui sprazzi melodici vengono soffocati da una cupezza sonica di matrice post rock. Se il lento svolgersi di Che Fare? sembra frutto delle passate esperienze musicali del trio, Polvere 6 fa invece proprio il jangle sound dei primi REM. Lo sghembo country folk di Modo e Modo pare, dal canto suo, evocare fantasmi oldmaniani, mentre le variopinte stratificazioni di Casa piccola (a F.B.), mostrano una volta di più quanto sia già maturo il songwriting dei fratelli Bosio. Figlia dell’alternative folk “principesco” è anche la conclusiva Verrà La Pioggia, la cui iniziale introspezione sonora è squarciata a più riprese da saette elettrificate. Speriamo solo che l’ottimo slancio, frutto di questo “abbrivio”, non si esaurisca in poche falcate, ma che sia solo la scattante partenza di una lunga e sfrenata corsa sonora.

lunedì 1 ottobre 2012

Grimoon - Le Déserteur

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Un progetto transnazionale quello marchiato Grimoon, nato e cresciuto tra l’italica Venezia e la francese Rennes, il quale arriva oggi, con Le Déserteur, al suo quarto album in poco meno di nove anni d’attività. Una prolificità, quella del collettivo italo-francese, attestatasi sin dagli esordi su di standard qualitativi piuttosto elevati, e capace al contempo di allargare il proprio campo d’azione verso altre discipline artistiche. L’aspetto visivo è infatti uno degli elementi fondanti dell’estetica grimooniana, come peraltro dimostrato dai loro live act, nei quali l’armonizzazione tra immagini e suoni dà vita a quello che lo stesso gruppo definisce concerto-cinema. Dal punto di vista strettamente sonoro invece, ci troviamo di fronte a una sempre maggior apertura musicale che, dal primigenio folk psichedelico è arrivata ad esplorare le tetre foreste soniche odierne, addentrandosi in ambienti vicini allo slowcore dei Black Heart Procession. Proprio con quest’ultimi i Grimoon paiono aver stretto un fruttuoso sodalizio, affidando in quest’occasione la produzione dell’album a Pall Jenkins, che della band americana è una delle menti, che va così a sostituire il collega Scott Mercado, dietro al banco di regia per il precedente Super 8. Ritroviamo comunque entrambi anche tra i solchi di Le Déserteur, impegnati a rafforzare con il proprio contributo ritmico lo spettro sonoro del gruppo. Tratto distintivo della proposta grimooniana rimane tuttavia l’adozione, a livello testuale, dell’idioma francese, la cui elegante musicalità acuisce ulteriormente l’immaginifico svolgersi delle composizioni. Merito senza dubbio anche dell’evocativa voce di Solenn Le Marchand, a metà strada tra la chanson francaise e una vocalità campbelliana dalle tinte dark, alla quale si alterna l’altrettanto espressivo canto del chitarrista Alberto Stevanato. Echi dei primi lavori si possono ancora udire nell’opener Les Couleurs De La Vie, folk pastorale intriso di oscurità noir, o nel lento slowcore psichedelico di Draw On My Eyes, unica concessione testuale alla lingua inglese. Le Montagne Noire è invece una funerea danza condotta da uno stridente violino, intorno al quale si ergono algide mura elettroniche, così come nella fluttuante Les Demons Du Passè, onirico viaggio per chitarra acustica, synth e accordion. Paiono invece rifarsi alla lezione impartita dagli Arcade Fire la serrata Souvenirs o il lirismo di Monument Aux Deserteurs, il cui conclusivo crescendo sinfonico pare provenire proprio da una delle ultime composizioni di Win Butler e soci. E’ però nelle alchimie sonore della conclusiva Tango De Guerre, seducente intreccio tra apocalittici bagliori elettrici e tortuose melodie latine, che i Grimoon mettono in luce tutta la propria voglia di sperimentazione, alla continua ricerca di nuove idee e soluzioni soniche. Una sperimentazione quella del combo italo-francese in evoluzione costante quindi, che in futuro non mancherà di riservare nuove gradite sorprese, ma che nell’immediato si concretizza nella solida certezza di Le Déserteur.

martedì 25 settembre 2012

Sacri Cuori - Rosario

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Il cuore è da sempre considerato una macchina pressoché perfetta, e pertanto se, come in questo caso, i cuori in questione sono più d’uno e posseggono caratteristiche “sacre”, non possiamo che trovarci di fronte alla più pura perfezione. Rosario, secondo album a nome Sacri Cuori, è proprio questo, un piccolo capolavoro in musica, partorito da un gruppo che, partendo dalla natia Romagna, ha saputo con sudore, bravura e professionalità, ritagliarsi il proprio spazio nel panorama musicale internazionale. Basta solamente dare un’occhiata al loro ricco curriculum sonoro, che vanta presenze come backing band al fianco, solo per citarne alcuni, di artisti del calibro di Dan Stuart, Hugo Race e Robyn Hitchcock, senza poi dimenticare la fitta schiera di prestigiosi ospiti presenti tra i solchi dello splendido esordio Douglas and Dawn. Ospiti che fanno bella mostra di sè anche in Rosario, tra i quali non si possono non citare autentici giganti della batteria come Jim Keltner e John Convertino, o la sempre magnifica Isobel Campbell. Il merito dell’ottima fattura dell’opera spetta tuttavia in primis agli stessi Sacri Cuori, capaci in soli due album di forgiare una formula sonora in grado di fondere arcaici ricordi della propria terra d’origine, atmosfere care al mai troppo compianto Nino Rota, e rimandi al desert rock marchiato Calexico. Proprio quest’ultimo impregnava le atmosfere del precedente Douglas and Dawn e anche in quest’occasione il combo romagnolo pare guardare proprio all’opera del combo di Tucson, come ben si evince in brani quali Sundown e Sei dove, vuoi per la presenza dietro ai tamburi proprio di Convertino, si fanno più forti i richiami al sabbioso deserto dell’Arizona. Una proposta quella dei Sacri Cuori che, per la sua natura immaginifica e prevalentemente strumentale, sarebbe ideale colonna sonora di un ipotetico lungometraggio girato tra un set felliniano e la frontiera americana. Un suono che trae la propria linfa vitale dalla chitarra, in bilico tra psichedelia e blues, di Antonio Gramentieri, vero e proprio fulcro sonoro intorno al quale ruota l’intero universo Sacri Cuori. Un microcosmo nel quale sono confluiti alcuni tra i più valenti musicisti nostrani, come l’eccellente sezione ritmica formata dagli incastri percussivi di Diego Sapignoli, al quale si alterna in più d’un occasione Enrico Mao Bocchini, e dal pulsante basso di Francesco Giampaoli, senza dimenticare l’apporto fondamentale del polistrumentista Christian Ravaglioli. Se nel movimentato roots rock di Teresita, la propulsione ritmica è affidata tuttavia alla perizia percussiva di Jim Keltner, i Sacri Cuori dimostrano tutte le proprie qualità in brani come Fortuna, dove evocative arie ninorotiane paiono fondersi con i caldi effluvi del border. Nei sussurri country folk di Silver Dollar e Garrett, East, ad incantare è invece la tanto fragile quanto, come al solito, meravigliosa voce di Isobel Campbell, autrice tra l’altro delle stesse liriche. Un album, Rosario, colmo di magia sonora, ad opera di una delle più belle e solide realtà del panorama musicale nostrano e non.

sabato 22 settembre 2012

Calexico - Algiers

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


martedì 11 settembre 2012

Med in Itali - Coltivare piante grasse

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo un lungo apprendistato come busker nelle strade della verde Irlanda, i Med In Itali avevano legittimato la propria, seppur distorta, ragione sociale tornando a calcare l’italico suolo. Un ritorno a casa culminato con la pubblicazione di due EP, pregni di una già spiccata personalità e capaci al contempo di attirare i favori di larga parte della critica musicale. Una personalità che con il tempo non è scemata, facendosi anzi più marcata come messo in luce da Coltivare Piante Grasse, loro debutto discografico sulla lunga distanza. Un tourbillon sonoro, quello alla base della proposta sonora del combo torinese, che poggia su salde basi rock, venate di funk, senza tuttavia rinnegare il recente passato acustico. Proprio la chitarra acustica di Niccolò Maffei, al quale sono affidati anche il microfono e il banjo, è il filo conduttore nelle scorribande sonore dei nostri, trovando nelle geometrie ritmiche della batteria e delle percussioni di Matteo Bessone così come del basso di Nello Zappalà due più che validi alleati. Ad essi si aggiungono le calde melodie opera dei fiati, sax tenore e soprano, flauto e clarinetto basso, nei quali soffia con gusto Amedeo Spagnolo. Una versatilità sonora che va a braccetto con una penna tanto arguta quanto ironica, nel suo imprimere su carta momenti di vita vissuta, alternando ad essi una feroce critica sul contemporaneo sistema sociale e culturale italiano. Appartengono alla prima categoria brani come l’opener Perle Umide che, con i suoi repentini cambi di tempo in chiave jazz-funk, pare uscita da una session della Dave Matthews Band; o una 7 fiori, dove prosegue l’ondeggiamento ritmico, con il banjo a tinteggiare il tutto di visionarie tonalità country folk. Lo sguardo critico dei torinesi emerge invece in Musicista Precario, amara riflessione, in bilico tra ritmi sincopati e pura improvvisazione, sulle difficoltà dell’essere un musicista nell’Italietta di oggi, o in Piante Grasse che abbraccia la causa ambientalista. Il gruppo vira poi deciso verso liberi territori jazz nella notturna Schiava di Un’Idea, impreziosita dalla tromba dell’ospite Luca Begonia. Altro ospite di rilievo è sicuramente Matteo Negrin, vero e proprio maestro della sei corde acustica, autore in Rabbia di splendidi ricami melodici. In Cambiato Sono troviamo invece Josh Sanfelici, impegnato anche dietro al banco di regia, i cui precisi interventi alla chitarra elettrica non snaturano l’originaria formula sonora acustica del quartetto. Con Non Mi Stanco i nostri si avventurano in prima inesplorati territori avant folk, dimostrando di sapersi muovere con disinvoltura anche in questo frangente.
La musica dei Med in Itali pare proprio ricordare le piante grasse menzionate nel titolo; caratterizzata da una robusta scorza esterna, al suo interno cela una dissetante e fresca miscela sonora, tutta da scoprire.

sabato 8 settembre 2012

Kelly Joe Phelps - Brother sinner and the whale

(Pubblicato su Rootshighway)

Ritorno alle origini per Kelly Joe Phelps che, per questa sua decima fatica discografica, decide di dedicarsi nuovamente alla sola chitarra, esplorando con essa quei territori acustici che ne hanno contraddistinto la carriera fin dagli esordi. Sulle doti chitarristiche e sulla bontà del songwriting del musicista americano credo che nessuno abbia alcunché da obiettare, ma anche gli eventuali scettici sono sicuro che verranno convertiti, è proprio il caso di dirlo, dalla bontà di Brother Sinner & the Whale. Phelps ha infatti plasmato dodici splendidi brani, tra autografi e traditional, di chiara derivazione gospel ma intrisi di folk e blues, nei quali, a livello testuale, a spiccare è una profonda vena religiosa, come si può facilmente intuire dai chiari rimandi biblici presenti. Lo stesso Phelps descrive l'album come un libro, del quale Goodbye to sorrow può essere considerata la prefazione, mentre gli altri brani hanno funzione di ipotetici capitoli letterari, piccole ma fondamentali parti di una più ampia opera narrativo-musicale.Un lavoro pregno di significati quindi, pur nel suo scarno impianto acustico; un vero e proprio viaggio alla riscoperta della propria spiritualità e fede in Dio, che Phelps affronta a cuore aperto, con l'unico supporto della propria fida sei corde. Quest'ultima, sia che si tratti di una resofonica o di un acustica, è infatti l'indiscussa protagonista dell'intero lavoro, come ben si può evincere fin dall'incalzante Talking to Jehova, posta in apertura, con bottleneck d'ordinanza, o nelle tinte gospel di Hope in the Lord to provide. Se il traditional I've been converted è un ritorno verso un arcaico e primordiale blues (era già presente, seppur in una versione più estesa, sul suo debutto Lead Me On), lo strumentale Spit me outta the whale è territorio ideale per le digressioni chitarristiche del nostro. Nella sofferta Hard time they never go away, così come in Pilgrim's reach, la resofonica cede invece la scena alla chitarra acustica e ad un fingerpicking del quale Phelps è indiscusso maestro. Tecnica quest'ultima che ritroviamo nella bellezza adamantina di Goodbye to sorrow, punto focale della raccolta, dove, ad una prestazione maiuscola sulla sei corde, si aggiunge una perfomance vocale calda e avvolgente, e dalla quale traspaiono echi del leggendario bluesman Mississippi John Hurt. Le tematiche religiose hanno, come accennato in precedenza, ruolo preponderante nell'economia dell'album, come ribadito dai sentori folk di Sometimes a drifter, o nel delicato scorrere del bottleneck di Down on the praying ground. Phelps pare proprio un novello Mississippi John Hurt, in grado con la musica di riscattare la propria anima dalle brutture a cui la vita terrena la sottopone quotidianamente, estendo al contempo questa salvifica redenzione musicale anche a coloro che fruiranno della sua opera. Che siate ferventi credenti o meno, quello che è fuori discussione è la caratura artistica di Brother Sinner & the Whale; un vero e proprio toccasana per le orecchie e per l'anima.

giovedì 6 settembre 2012

Ry Cooder - Election special

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Povero Mitt Romney, neanche il tempo di essere incoronato sfidante repubblicano di Obama nella prossima corsa alla Casa Bianca, che si trova ad essere indagato, per elusione fiscale, dalla procura di NYC. Un bel grattacapo per il mormone del Massachusetts che, all’alba della convention del partito dell’Elefantino, aveva dovuto anche fronteggiare l’attacco musicale di un rabbioso Ry Cooder. Election Special, il nuovo duro e politicizzato album del chitarrista americano pare infatti scagliarsi con particolare veemenza, in vista della futura tornata elettorale, proprio contro il candidato repubblicano, acuendo la profonda critica socio-politica già alla base di Pull Up Some Dust And Sit Down dello scorso anno. Esplicativo in tal senso è un brano come Mutt Romney Blues, un tagliente e percussivo blues acustico, narrante la triste vicenda di Seamus, il setter dello stesso politico, lasciato dal suo padrone sul tettuccio della propria macchina, durante un viaggio di centinaia di chilometri. Prendendo spunto dalla lapidaria frase del reverendo Al Sharpton secondo la quale “Capisci molte cose da come una persona tratta il suo cane”, Cooder insinua così più di un dubbio sulle qualità morali del candidato presidenziale. La Destra americana è tuttavia solo uno dei bersagli contro i quali si scaglia l’invettiva cooderiana. Ad essere analizzata in tutte le sue contraddizioni è la società statunitense nella sua interezza, minata nel profondo dal nero cancro della speculazione economica, in cui il divario tra i pochi ricchi e i tanti poveri cresce ogni giorno di più, e dove lo stesso presidente Obama pare il più delle volte essere soggiogato, suo malgrado, al volere delle fameliche lobby economiche. La finanza torna oggetto di feroce critica in The Wall Street Part Of Town, in cui affiorano tematiche care al movimento Occupy, o in una Brother Is Gone dove protagonisti sono, su di un’ossatura folkie sferzata da arie irish, i fratelli miliardari David e Charles Koch e il loro patto con il Diavolo. Un album, musicalmente forse meno vario rispetto al suo predecessore, sicuramente più scarno e diretto, dove la musica è ideale veicolo di importanti messaggi socio-politici. Cooder vuole parlare direttamente al ventre molle dell’elettorato americano e lo fa andando a riappropriarsi degli stilemi della tradizione musicale del suo paese. Folk e blues la fanno infatti da padrone, con il nostro che opta per una dimensione “solitaria”, alternandosi ai vari strumenti a corda, principalmente chitarra e mandolino, coadiuvato dal solo supporto ritmico del figlio Joachim. Nasce così lo sbuffare country’n’grass di Going To Tampa, satirica presa per i fondelli dell’evento politico clou del Grand Old Party, la sua annuale convention, tenutasi appunto in Florida, mentre il muscolare roots rock di Guantanamo pone in primo piano il sempre più preoccupante fenomeno della proliferazione delle carceri private. Nel lento incedere blues di Cold Cold Feeling Cooder si immagina invece nei panni del presidente Obama, solo nella Casa Bianca con all’esterno la minaccia dei mastini dell’alta finanza e dell’ostracismo repubblicano, invitando ogni singolo americano a fare altrettanto per constatare di persona come in queste condizioni il più delle volte risulti impossibile governare. L’oscura Kool-aid pare invece arrivare dai solchi di We’ll Never Turn Back, splendido disco intestato a Mavis Staples, dove il chitarrista era impegnato in prima persona, e dal quale pare mutuarne l’impasto sonoro. The 90 And The 9, dal canto suo, è forse quanto di più bello scritto ultimamente dal nostro, una lenta e sofferta ballata che profuma di radici dove, grazie ad un ipotetico dialogo tra padre e figlio, viene analizzata l’assurda pratica di reclutamento militare effettuata direttamente nelle scuole. Un American Dream che si è fatto negli anni sempre più opaco, minato nelle sue stesse centenarie radici, quelle costituite dalla Costituzione, che nella conclusiva ed urlata Take Your Hands Off It, Cooder intima di non profanare. Musica viva e pulsante quindi quella alla base di Election Special, ennesimo grande album a nome Ry Cooder.

giovedì 30 agosto 2012

El Matador Alegre - S/T

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Un progetto, El Matador Alegre, fondato sulla più pura e libera ricerca sonora, all’interno della quale far confluire in egual misura lievità alternative folk e sperimentazione ritmica scalfita da un’indietronica composita e minimale, alle quali si aggiungono barlumi grunge che paiono provenire dalla Seattle dei primi anni ’90, riveduti e corretti grazie ad un trattamento a base di loop e campionamenti. Dodici gli episodi sonori che compongono l’omonimo debutto del compositore e produttore, attraverso i quali, partendo da un substrato ritmico votato al minimalismo, si dipana un songwriting in bilico tra eteree melodie e complicate trame effettistiche, in quest’occasione non semplice corollario armonico ma bensì elemento essenziale nella creazione del mood sonoro dell’intero album. A questo va ad aggiungersi un profondo lavoro svolto sulla voce, o sarebbe meglio dire sulle parti vocali, vista la numerosa presenza di quest’ultime, tutte ad opera dello stesso autore, trattate con i più disparati filtri ed effetti, ma capaci di mantenere al contempo intatto il proprio lirismo. L’anima alternative folk del progetto emerge in brani come l’introspettiva Same Day Last Year, che si sviluppa grazie ad un riff chitarristico perpetuato costantemente per quasi sei minuti, con la voce che pare quasi un sussurro sullo sfondo; o nell’incedere di una Moths nella quale ad essere padrona della scena è la chitarra acustica, attorniata da ottimi intrecci vocali. Chitarra acustica che torna a fare bella mostra di sé anche in New Year, su di un impianto ritmico-melodico rallentato ed ipnotico, che deve molto a certo slowcore d’oltreoceano. Se Sunny Attic è un esercizio sonico in puro stile synth pop, in Back a colpire è una riuscita commistione tra noise ed beat hip hop. Ultima menzione per la divertente e sbilenca marcetta di Peanut Butter, vero e proprio divertissment, nonché piccola digressione verso nuovi ed affascinanti territori sonori. Un debutto forse strano, sicuramente non immediato, che necessita senza ombra di dubbio di un ascolto attento, in modo da poter gustare appieno le sue variegate sfumature melodiche e ritmiche.

giovedì 16 agosto 2012

Bruce Gerrish and the Shinolas - Quirkophony

(Pubblicato su Rootshighway)

"Meglio tardi che mai", è più che lecito pensare durante l'ascolto di Quirkophony, debutto discografico a nome Bruce Gerrish. Il canadese d'adozione, ma americano di nascita, non è infatti un novellino, avendo sulle spalle una carriera più che trentennale, ma arriva solamente ora al tanto ambito traguardo dell'opera prima. Musicista eclettico, il nostro, alterna alla propria attività di songwriter e perfomer, quella di testimonial per l'azienda di prodotti musicali Mackie and Digitech, per conto della quale ha tenuto svariate clinic anche qui nel vecchio Continente. Quello che ci interessa maggiormente della sua personalità musicale è ovviamente il primo aspetto, quel songwriting sbocciato in tenera età e affinato con il trascorrere del tempo, complice anche una vita passata in larga parte sulla strada. Anni intensi, con la fedele chitarra come unica compagna di viaggio, nel corso dei quali tante facce e tante storie sono sfilate di fronte al cantautore, originario del Minnesota. Storie che Gerrish ha interiorizzato per poi trasporle su pentagramma, dando vita a una manciata di composizioni andate infine a comporre l'ossatura di Quirkophony. Il risultato di questo lungo lavoro di scrittura sono tredici brani che attingono in egual misura al country, al roots rock e al Texas Swing, a testimoniare come le radici musicali del nostro siano ben salde nella tradizione del proprio paese d'origine. Già nell'opener I wanna new life, con lap steel e mandolino subito in bella mostra e dal più che contagioso refrain, o nella galoppante ed elettrica Man down, emerge la sua predilezione per sonorità country roots, ricordando in più di un frangente quel Robert Earl Keen, con il quale Gerrish sembra avere ben più di un'affinità. Definite maybe e You don't know shit from Shinola, virano invece verso il Texas Swing: nella prima sono il piano e la lap steel a dettare il tempo, mentre nella seconda ampio spazio viene lasciato a una sezione fiati in grande spolvero. Fiati che ritroviamo, questa volta tuttavia d'impronta mariachi, anche in I said I do but che, con tanto di fisarmonica, pare scritta per essere suonata in qualche dimenticato bar di Tjiuana. Il lato cantautorale di Gerrish emerge invece quando i tempi si rallentano, come nella buffettiana e solare, fin dal titolo, A sunny place for shady people, o nella ballata notturna, per sola chitarra acustica e piano, Tonight, che rimanda al Lyle Lovett più intimista. Le influenze musicali di un lungo soggiorno in quel di New Orleans si avvertono nel folle esperimento sonoro di Jumbo shrimp, nella quale le gioiose atmosfere della "Big Easy" si fondono con stilemi country, un po' come se Willie Nelson e la sua Family Band si unissero, durante i festeggiamenti del Mardi Grass, in una scatenata jam ai fiati della Dirty Dozen Brass Band. Al termine di quest'ultima, quasi in sordina, compare un'inaspettata ghost track, un piccolo reprise acustico di A sunny place for shady people, capace di superare di gran lunga in bellezza ed intensità quella presente nella tracklist "ufficiale" dell'album. Un disco onesto e sincero Quirkophony, che si avvale del contributo di un nugolo di validi strumentisti, riuniti sotto il nome di The Shinolas, sapientemente diretti dall'esperto produttore Bill Buckingham. Un nome da appuntarsi per il futuro, quello di Bruce Gerrish, nella speranza di non dover aspettare altri trent'anni prima di poter ascoltare una sua nuova produzione.

martedì 7 agosto 2012

Giant Giant Sand - Tucson

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


L’afa insopportabile che attanaglia da giorni anche il solitamente ventilato paesino collinare dal quale il sottoscritto scrive, pare porre le giuste condizioni ambientali per immergersi nell’ascolto di Tucson, ultima opera discografica a nome Giant Sand, o per meglio dire Giant Giant Sand. Il desertico combo capitanato dall’eclettico Howe Gelb infatti non solo torna sulle scene raddoppiando la propria ragione sociale, ma al contempo da alle stampe quella che, dalle stesse note di copertina, viene definita come una “country rock opera”. Un progetto in cantiere da parecchio tempo ma che per essere portato a compimento necessitava dell’apporto di una nutrita schiera di ospiti, andati ad affiancare per l’occasione l’originario nucleo giantsandiano. Accanto al manipolo di musicisti danesi, che da qualche tempo accompagnano Gelb, troviamo infatti Lonna Kelley (in passato comunque già collaboratrice della band), la pedal steel di Maggie Bjorklund, i mariachi Brian Lopez, Gabriel Sullivan e Jon Villa, e ultimo ma non meno importante un nuovo innesto danese, una sezione d’archi proveniente da Aarhus. Innesti quest’ultimi quanto mai azzeccati, visto che quest’ancor più gigante “Gigante di sabbia”, è riuscito nel non facile intento di trasporre su pentagramma la storia sulla quale poggia l’intero lavoro. Tucson narra infatti le vicende di un uomo che, stanco di una vita senza prospettive, decide di lasciare i propri affetti e i propri beni terreni per intraprendere un viaggio alla ricerca di sé stesso tra Arizona e Messico, tra saloon, bordelli e prigioni. Una storia avvincente, che Gelb musica al meglio mettendo sul piatto quelle sonorità per le quali è universalmente riconosciuto. Proprio per questo “Tucson” può essere considerato una sorta di summa del suono giantsandiano, esplorato in questo frangente fin nei suoi più oscuri e nascosti meandri. Un lavoro che incanta fin dalla traccia d’apertura, Wind Blow Waltz, un sabbioso ed avvolgente valzer suonato in punta di dita. Se Forever And A Day, con il grido liberatorio “Good luck suckers, I’m on my way”, rappresenta per il protagonista della storia un taglio netto con il proprio passato, con la successiva Detained ci si addentra sempre più in sonorità di stampo mariachi, permeanti la quasi totalità dell’opera. Il country desertico di Lost Love è invece un acquerello elettroacustico di stupefacente bellezza, mentre in Plane Of Existence ad emergere è l’espressività dell’ugola gelbiana, ben contrappuntata da pedal steel, fiati e sezione d’archi. Undiscovered Country, così come Slag Heap, paiono strizzare l’occhio all’opera dei due ex pards Joey Burns e John Convertino, anche se in questo frangente a far nuovamente la differenza è la verve interpretativa di Gelb. Se invece vi siete mai chiesti cosa avrebbe suonato Johnny Cash dopo un soggiorno in territorio messicano, la risposta è Thing Like That, sentire per credere. Il contributo degli ospiti si fa poi ancor più tangibile prima in Love Comes Over You e poi in The Sun Belongs To You. La prima è un’onirica ballata, parto della mente di Brian Lopez impegnato anche al canto, mentre la seconda, tra reminescenze tex mex e sentori irish, è opera di Gilbert Sullivan. Si ritorna in terra messicana con la ritmata Carinito, prima di passare a quella che può essere considerata una piccola, quanto inattesa, gemma. Out Of The Blue faceva infatti parte della suite composta da Robbie Robertson per il seminale The Last Waltz. Forse è un brano poco conosciuto tra i tanti capolavori sfornati dalla leggendaria The Band, ma conserva tuttora la sua purezza sonora, qui ulteriormente accentuata dalla strepitosa rilettura a più voci fatta da Gelb e soci. Diciannove sono gli episodi sonori che compongono l’opera, ed ognuno di essi meriterebbe di essere menzionato, anche solo per il ruolo svolto nel creare un continuum narrativo sonoro, solido e al contempo intrigante. Un album praticamente perfetto Tucson, del quale si potrebbe dissertare per ore senza riuscire comunque a descriverne appieno la magnificenza. Se tuttavia fossi costretto a riassumere il tutto in poche e semplici parole, ne basterebbero solamente tre; Disco dell’anno!

mercoledì 25 luglio 2012

Bonnie "Prince" Billy @ Mojotic Festival

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

Se una volta, come recitava un vetusto spot pubblicitario,contro il logorio della vita moderna era consigliata l’assimilazione di un ben noto liquore, oggi l’unica nostra ancora di salvezza, in un mondo che pare andare sempre più a rotoli, rimane la musica. Una tesi quest’ultima che ha avuto ulteriore conferma, giovedì scorso in quel di Sestri Levante, terza tappa del tour italiano di Bonnie “Prince” Billy. La splendida cittadina ligure ospita da qualche anno il Mojotic Festival, rassegna organizzata dall’omonima associazione culturale, capace di riscuotere un sempre maggior successo, ben testimoniato dal folto pubblico presente. Un plauso va quindi ai ragazzi dell’associazione per aver, in questo caso, non solo portato il buon Will Oldham in quel di Sestri Levante, ma di aver scelto come location dell’esibizione il Teatro Arena Conchiglia. Quest’ultimo è stata infatti cornice ideale per il concerto, creando un’atmosfera intima e raccolta, quasi magica in determinati frangenti, complice anche un’acustica pressochè perfetta. La vera sorpresa della serata è stata tuttavia l’aggiunta di un ulteriore opening act, a quello già previsto, a dir poco d’eccezione. A salire sul palco è stato infatti lo stesso Oldham che insieme ai Chivalrous Amoekons, praticamente la stessa band con la quale si sarebbe esibito poco dopo ma abbigliata in puro Nashville Style, ha allietato i presenti con una mezz’ora in bilico tra country e folk di stampo tradizionale. Un gustoso antipasto in attesa del piatto “principe”, inframmezzato dalla performance sanguigna di Michele “Mezzala” Bitossi, già nei Numero6, che accompagnato da una solida sezione ritmica ha proposto sia brani del suo gruppo principale alternati a composizioni del suo recente repertorio solista. Tempo di un veloce cambio palco ed ecco entrare, anzi sarebbe il caso di dire rientrare, in scena il “Principe”, attorniato dalla sua folle corte musicale. Durante il proprio set d’apertura, il nostro aveva promesso che questa sera ci sarebbe stato tempo per tanta buona musica, e da quanto abbiamo potuto sentire non sono state certamente promesse da marinaio. La scaletta approntata per l’occasione è andata infatti a ripescare in lungo e in largo nella sua ormai lunga carriera discografica, tanto che le diverse ragioni sociali oldhamiane, con le quali il nostro si è divertito negli anni a giocare, parevano essere confluite, fondendosi tra loro, sul palco del teatro. L’inizio poi è stato a dir poco da brividi con una I See A Darkness, capace da sola di valere un intero concerto, qui riproposta in un nuovo sfavillante arrangiamento, con il quale è stata nuovamente messa su nastro e inserita nell’EP Now Here’s My Plan, in uscita proprio in questi giorni. Lavoro, nell’impostazione simile a Sings Greatest Palace Music, dal quale il nostro si divertirà, nel corso della serata, ad estrapolare alcuni brani, come nuove e lucenti versioni di After I Made Love To You e No Gold Digger, segnali di come i suoi trascorsi musicali siano ancora materia malleabile e facilmente plasmabile in nuove ed affascinati figure sonore. Echi folkie e barlumi alternative country affiorano dal recente passato, ben condensanti in una Ohio Rriver Boat Song da applausi, nell’oscurità di Strange Form Of Life e in una irresistibile Wolf Among The Wolves, con il piano di Ben Boyle a condurre le danze. Un combo dalle indubbie qualità tecniche quello attorniante il cantautore del Kentucky, sapientemente capitanato dalla chitarra di Emmett Kelly, il quale può contare sia sull’apporto melodico dello stesso Ben Boyle, che su la versatilità ritmica del basso di Danny Kiely e della batteria di Van Campbell. Ad essi si aggiunge l’avvenente Angel Olsen, tanto eccelsa con le proprie corde vocali, ed ideale partner canora del “Principe”, quanto statica sul palco. Lo stesso Oldham è poi uno spettacolo nello spettacolo, nelle sue bizzarre mosse da improbabile quanto improvvisato frontman, nel suo attorcigliarsi e contorcersi intorno alla propria chitarra così come nei suoi ilari balletti, anche se la sua vera peculiarità risiede tuttavia nella voce. Una voce che pare sempre sul punto di frantumarsi, di cadere in pezzi dopo un vocalizzo troppo ardito o un acuto indirizzato troppo in alto, in una sorta di viaggio senza ritorno verso il cielo stellato sovrastante. Una voce che canta appunto delle cadute e delle risalite, di amori, tradimenti e rimpianti e lo fa con una naturalezza tale che sembra estraniarsi dal corpo dello stesso Oldham, per diventare ideale voce di tutti noi, uniti da quel comune denominatore che è il difficile vivere quotidiano. Una musica quella di Bonnie “Prince” Billy quasi salvifica, capace di infondere nuova linfa vitale in corpi prosciugati, facendoci ritrovare la pace con noi stessi. Richiamati a gran voce sul palco il “Principe” e i suoi giullari sonici, fanno ancora in tempo ad incantarci con il valzerone country di New Partner e con una tenue Horses, prima di calare gli assi finali con una Another Day Full Of Dread non per deboli di cuore e con You Want That Picture, capace da sola di riassumere tutta l’estetica oldhamiana. Applausi scroscianti ed urla sommergono i nostri al loro rientro dietro le quinte e alla fine, di fronte a cotanta grazia musicale, non rimane altro da fare che inchinarsi in un doveroso atto di adorazione ed urlare “Lunga vita al re!!”.... ehm no scusate, al “Principe”.