lunedì 17 dicembre 2012

Dylan LeBlanc - Cast the same old shadow

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Dopo un esordio, Paupers Field, che ne aveva mostrato, il seppur ancor acerbo, talento compositivo, in molti si aspettavano da Dylan LeBlanc un passo falso, o quantomeno una seconda prova incapace di attestarsi sui medesimi livelli qualitativi della precedente. In effetti vuoi, sia per un’inesperienza dettata dall’età che per una possibile ansia da prestazione derivabile dal bailamme mediatico generatosi intorno ad esso, ma per questo “giovincello di belle speranze” del moderno country folk il rischio di un flop era più che mai palpabile. Ed invece, quasi a zittire i maligni, pronti già a danzare sulla sua tomba artistica, il nostro si ripresenta oggi, dopo due anni, con Cast The Same Old Shadow, che non solo equipara la bellezza del suo predecessore ma ci mostra un songwriter maturo, capace di ampliare ulteriormente i confini di una già vincente formula sonora. A dominare l’intero lavoro sono tuttavia i toni chiaroscuri, con una malinconica introspezione a fare da collante tra flebili ballate in bilico tra un Neil Young d’antan e moderne architetture nu-folkie. Tornato a registrare nei leggendari Fame Studios di Muscle Shoals, sotto l’egida dell’ormai fidato Trina Shoemaker, LeBlanc fissa su pentagramma dieci piccole composizioni, la cui sfuggevolezza le rende simili a leggeri soffi di una brezza autunnale. Ad essere in primo piano è ovviamente la voce del nostro in quel suo librarsi verso aerei vocalizzi, ad accentuare ancor più l’aspetto immaginifico della propria musica, figlia legittima di quell’estetica dei “grandi spazi”. Su questa scia si dipanano brani come l’opener Part One: The End, liquida e sognante digressione verso modernismi di stampo folkie, oppure come la title track, che nel suo sognante incedere resta tuttavia ancorata ai classici stilemi del country folk. Quest’ultimo nella sua accezione più “classica” è alla base tanto dell’acustica impalpabilità di Innocent Sinner quanto delle aperture melodiche di Diamonds And Pearls, nelle quali pedal steel e piano contribuiscono, tessendo uno struggente tappeto sonoro, ad accentuare la lievità sonica. Danza invece a tempo di valzer Where Are You Now, i cui toni sommessi ben si sposano con la vocalità sofferente del suo autore, che ritroviamo anche nella scarna ballata Chesapeake Lane. Sintomatica del persistente tentativo del nostro di fondere antico e moderno è invece Brother, nella quale pare di sentire le giovani “volpi di velluto”, con un’ospite speciale alla chitarra elettrica, proprio quel Neil Young per il quale LeBlanc non ha mai nascosto il proprio amore. Lonesome Waltz, come si può facilmente intuire dal titolo, è un nuovo valzer, dalle tinte country, che ci accompagna per mano verso un soave commiato dalle meste arie leblanchiane. Un album, quello approntato dal songwriter della Lousiana, che non fa sicuramente dell’immediatezza la sua arma vincente, riuscendo tuttavia ad incantare, ascolto dopo ascolto, grazie alle sue flessuose melodie. “Getterà la stessa vecchia ombra” il buon LeBlanc, ma quest’ultima ancor una volta è riuscita a mostrarsi in tutta la sua scura avvenenza.

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