venerdì 28 marzo 2014

Sixto Rodriguez @ Auditorium - Milano

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


Preannunciato da due, seppur prevedibili, sold out, l'arrivo nel nostro paese di Sixto Rodriguez si prospettava, a detta di molti, come uno dei più importanti appuntamenti live di questo, ancora agli inizi, 2014. Un “tutto esaurito”, quello registrato sia per la data di Bologna che per quella di Milano, figlio senza dubbio dell'hype mediatico addensatosi intorno al songwriter di origini messicane, grazie al pluripremiato documentario Searching for Sugar Man. Cortometraggio, quest'ultimo, capace di gettare nuova luce sulla vicenda umana e artistica di Sixto Dìaz Rodriguez, fautore, tra il 1970 e il 1971, di due album (Cold Fact e Coming From Reality) dove l'epicità narrativa d'ascendenza dylaniana si fondeva con i sentori lisergici dei Love di Arthur Lee. Lavori tuttavia ignorati sia dalla critica che dal pubblico, tanto da convincere un disilluso Rodriguez ad abbandonare, dopo alcuni sparuti concerti e un live album passato anch'esso sotto silenzio, definitivamente le scene. Dato da molti per morto, addirittura assassinato su di un palco, il nostro era invece tornato a vivere nella sua vecchia casa di Detroit, tra la sua gente, la minoranza messicana affollante gli slum cittadini, e qui, una volta appesa definitivamente la chitarra al chiodo e aver conseguito una laurea in filosofia, si era dedicato ad una carriera politica, candidandosi alla carica di sindaco della medesima città, andatasi ad arenare anch'essa sugli scogli dell'insuccesso dove già si erano incagliati i propri sogni musicali. Ha inizio così una giravolta di lavori tra i più umili, pur mantenendo sempre attivo il proprio impegno civile, in un quartiere dove la povertà e il degrado sono le prime, tremende visioni che appaiono davanti agli occhi, la mattina, una volta aperta la finestra. E proprio qui è stato riscoperto dai due fan sudafricani protagonisti dell'estenuante viaggio di ricerca alla base di Searching for Sugar Man, che ne ha fatto conoscere la storia al mondo intero. Un desaparecido del rock'n'roll, Rodriguez, un beautiful loser sottratto ad un oblio artistico durato più di quindici anni, e solo in tempi recenti baciato da quel successo che ai suoi esordi sembrava non volergli arridere. Certo il salto da emerito sconosciuto, dimenticato da tutti, a rockstar famosa a livello planetario potrebbe scombussolare l'ego di chiunque, ma Rodriguez pare essere rimasto la persona schiva e modesta che traspare dalla visione del documentario. Successo la cui entità si può misurare, senza dubbio, dall'autentica standing ovation riservatogli anche dall'Auditorium di Milano, stracolmo in ogni ordine di posto. Aprire la serata spetta tuttavia a Cory Becker, cantautore originario di St. Louis, il quale accompagnandosi con una sei corde acustica e grazie al supporto melodico di un'evanescente lapsteel, ha sciorinato, con perizia e bravura, il proprio personale pastiche sonoro in bilico tra introspezione cantautorale e aeree melodie avant folk. Un nome da segnarsi senza dubbio sul taccuino dei “personaggi da seguire”, anche alla luce del suo, ormai prossimo, debutto discografico. Giusto il tempo di risistemare uno spartano palco ed ecco fare il suo ingresso in scena, sorretto da alcuni membri della sua famiglia, Rodriguez. Evidente, fin da un primo sguardo, è una salute quanto mai cagionevole, flagellata da anni di lavoro usurante ed ulteriormente acuita da una semi cecità, causata da un glaucoma, i cui segni sono più che evidenti su di un uomo ormai giunto alle 72 primavere. Il nostro sembra, inoltre, essere quasi a disagio sul palco, come sbigottito dal fatto che tutte quelle persone sedute in platea siano li per assistere ad un suo concerto, manifestando una timidezza iniziale ben presto stemperatasi in un divertente e divertito scambio di battute con il pubblico. Ad accompagnarlo on stage, un trio cosmopolita, formato da un chitarrista statunitense, da una bassista neozelandese e da un batterista inglese, ennesima incarnazione di una backing band la cui line up varia di tour in tour. Proprio l'avvicendarsi continuo di musicisti, perlopiù come in quest'occasione degli onesti mestieranti, rappresenterà uno dei punti deboli dell'intero concerto, nel quale si è avvertita quella mancanza di coesione tipica di un combo rodato. Un sostegno strumentale non privo di lacune, quindi, alle quali si devono aggiungere i già accennati problemi fisici dello stesso Rodriguez, manifestatisi, musicalmente, in un fraseggio chitarristico a tratti incerto e sporco, e in una voce con la quale il tempo è stato a dir poco inclemente, incrinandone in parte la capacità espressiva. A questo si aggiunge come una sorta di “spaesamento”, con il nostro, prima di iniziare un nuovo brano, a dare le spalle agli astanti, abbassando il volume della propria chitarra, strimpellando tra sé gli accordi, quasi come non si ricordasse le sue stesse composizioni. Problemi fisici in grado, paradossalmente, di rendere ancor più livide e dolorose le sue canzoni, enfatizzandone la drammaticità lirica, come nel sofferto talking di una dylaniana Rich Folks Hoax, in una straziante Crucify Your Mind, o nella cruda disamina sociale e politica di The Establishment Blues, estrapolate dal suo esordio, Cold Fact. Di tutt'altro tenore sono l'acidità lisergica permeante le psicosi elettriche di Climb Up On My Music, dal secondo album Coming From Reality e il robusto impianto rock blues di Only Good For Conversation. Si muove invece con un vellutato passo jazz rock Can't Get Away, sorta di disperata dichiarazione di rassegnazione esistenziale. Non particolarmente riuscito è stato invece il ricorso al repertorio altrui, come evidenziato da raffazzonate riletture di Blue Suede Shoes e da un'urlata Lucille, più pedisseque riproposizioni che personali rivisitazioni delle stesse. Un boato accoglie al contrario i due brani con i quali è ormai universalmente conosciuto, ovvero il ciondolare speranzoso di I Wonder, e una visionaria ed elegiaca Sugar Man, che il nostro tiene a precisare si tratti di una canzone contro il consumo di droghe e non un'ode alla droga stessa. Decisamente provato fisicamente Rodriguez, si accomiata sulle note trattenute di una Forget It d'intensa fragilità, lasciando il palco, nuovamente “scortato” dai suoi familiari, per farvi ritorno poco dopo invocato a gran voce. La giacca del completo, indossata poco prima, ha lasciato spazio a una canottiera nera, e il nostro, in solitario, si immerge nelle tetre, notturne strade della sua città natale sulle note di una Inner City Blues di pura lacerazione bluesy. Richiamata sul palco anche il resto della band, vi è ancora tempo per alcuni nuovi, nonché riusciti, “ripescaggi” dai songbook altrui, come una Fever dal seducente flavour jazzato e un'ultima disperata I'm Gonna Live Till I Die, di sinatriana memoria, cantata con tutto il fiato e le forze ancora presenti nel suo corpo martoriato, prima di ringraziare i presenti per l'enorme calore dimostratogli e trascinarsi, letteralmente dietro le quinte. Ben lungi, quello di stasera, dall'essere stato il tanto decantato appuntamento imperdibile, non ci siamo trovati allo stesso modo di fronte alla cocente delusione paventata da alcuni. Come spesso accade in questi casi la verità va a collocarsi giusto nel mezzo, non una perfomance memorabile, certo, ma nemmeno un'esibizione penosa, solo un buon concerto, con alcuni picchi emozionali e qualche svarione strumentale più o meno evidente, ma da un uomo di 72 anni, lontano per anni non solo dai palchi ma dalla stessa musica suonata nonché falcidiato da una salute malferma non si poteva chiedere davvero di più. Quella che permane intatta è invece la bellissima storia, di morte e resurrezione artistica, di un songwriter mai venuto meno alla sua integrità morale, nella speranza che l'abietto mondo discografico non trasformi questa “favola” a lieto fine in un nero incubo, nel nome del dio denaro. Solo il tempo saprà dirci come evolverà la “nuova vita” artistica di Sixto Dìaz Rodriguez, nel frattempo rimangono le parole con le quali ci ha salutato, prima degli encore, questa sera: «Thanks for your time then you can thank me for mine».

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