martedì 11 marzo 2014

Moreland & Arbuckle @ Raindogs - Savona

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)

“Roots music from the Heartland” recita lapidario il sito di Aaron Moreland e Dustin Arbuckle, rispettivamente chitarrista e armonicista da Wichita, Kansas, in una descrizione certo calzante, ma forse riduttiva, del variegato amalgama sonoro plasmato dai due in quasi dieci anni di vita musicale condivisa. Una multiformità stilistica avente sì le proprie radici ben salde in terreni di tenacia rockista, ma capace al contempo di attingere al sempre fertile humus della musica tradizionale americana, sia essa nera, con il blues, nelle sue più diverse accezioni, avente ruolo preminente, che bianca, in, seppur sparuti, episodi di chiara ispirazione country'n'folk. Freschi della pubblicazione del loro sesto lavoro in studio, ”7 Cities”, registrato in quel di Seattle, presso lo studio di Stone Gossard, i due, o sarebbe meglio dire i tre, vista l'ormai consolidata presenza, al loro fianco, del batterista Kendall Newby, hanno letteralmente caricato “armi e bagagli” sul proprio furgone, abbandonando il natio Sunflower State in favore della loro seconda casa, la strada. Strada che li condotti, in un serrato tour, nuovamente sul suolo italiano, con una tappa, tra le altre, anche in quel di Savona, al Raindogs, in un tiepido venerdì d'inizio marzo. Compito di “scaldare” il palco del locale savonese spetta tuttavia agli italianissimi Sindacato del Mojo, trio guidato dal carismatico Andrea “Harpo” Giannoni, autentico funambolo dell'armonica. Accompagnato dall'eccellente chitarrista Davide Serini e dalla tromba bakeriana di Andrea Paganetto, l'armonicista spezzino ha saputo, grazie al suo blues viscerale intriso di “sudore, lacrime e sangue”, strappare ampi consensi tra i presenti, in particolar modo grazie ad una vissuta riproposizione di Down in Mississippi. Non da meno sono stati i loro “corrispettivi”, numericamente parlando, statunitensi, capaci d'infiammare, con un'ormai collaudata, nonché esplosiva, miscela a base di putrida melma Delta Blues, ipnotici riff di matrice Hill Country, torrido rock settantiano e una più moderna furia garagista, un'audience rimasta, inizialmente, pressochè attonita dalla “potenza di fuoco” manifestata dai tre. Se Aaron Moreland è, senza dubbio, il catalizzatore scenico, nel suo alternarsi tra una classica sei corde elettrica ed una cigar box, collegata contemporaneamente a due amplificatori, uno per chitarra l'altro per basso; Dustin Arbuckle si sobbarca l'arduo ruolo di frontman, destreggiandosi con ben due microfoni, nei quali cantare con caldo trasporto, o soffiare note distorte nel suo piccolo strumento ad ance. Collante ritmico indispensabile è infine Kendall Newby nel suo sostenere metronomicamente gli spunti solistici dei suoi due “principali”, così come nel suo dare ulteriore spinta propulsiva, grazie ad un furioso drumming, fattosi a tratti rutilante. La scaletta odierna, ovviamente, verte per la maggior sul loro ultimo parto discografico, il summenzionato “7 Cities”, a cominciare dall'infuocato Tall Boogie, con il quale il trio si presenta, agli astanti, con gli strumenti già ampiamente arroventati, passando per il rifferama auerbachiano di Quivira, fino alla baldanza rock blues di The Devil And Me. L'affilato shuffle Don't Wake Me, tratto dai solchi limacciosi di Flood, richiama alla mente l'operato tagliente del bottleneck di Elmore James, mentre una muscolare quanto ipnotica rilettura di All Night Long, è un dichiarato quanto sentito omaggio al mai dimenticato Junior Kimbrough e al blues delle colline tutto, frequentato più volte in passato dai nostri. Si tramutano in un roccioso power trio, di stampo hendrixiano, invece, quando Arbuckle abbandona il proprio strumento a fiato per imbracciare un ben più ingombrante basso elettrico, il quale rende certamente più corposo il loro sound, ma al contempo fa decadere una delle sue peculiarità, ovvero l'assenza, in organico, proprio del basso stesso. È tuttavia quando ritornano nel loro “classico” assetto che i nostri ci regalano momenti di maggior ispirazione, come una sferragliante rivisitazione del tradizionale John Henry, dilatatasi presto in un'estenuante jam, con tanto di assolo di batteria, sulle note conclusive della quale i tre salutano e lasciano il palco. Un congedo solo momentaneo, in quanto, c'è ancora tempo, vista anche l'insistenza del pubblico, per essere travolti dalle saettanti scariche elettriche d'una nervosa Road Blind, con Moreland a torturare la propria cigar box, conducendo i propri compagni verso un'ultima, orgiastica, digressione strumentale. Un juke joint tra antico e moderno, quello costruito asse su asse dal trio di Wichita, le cui legnose pareti presentano tanto le tinte scure del blues quanto quelle più elettriche del rock, dove lasciarsi andare a libere, selvagge, danze, o semplicemente bersi un bicchiere di buon whiskey. E se poi, una volta usciti, nella notte savonese, l'udito risulta essere ovattato, in fondo, a chi importa?

Nessun commento:

Posta un commento