domenica 14 dicembre 2014

The Devil Makes Three - I'm a stranger here

(Pubblicato su Extra! Music Magazine)


«C'è sempre una strada che si allontana da ogni città, tutto quello che dovete fare è percorrerla», spiega Pete Bernhard, chitarra, voce nonché mente dietro al progetto The Devil Makes Three. Una di queste strade si trova, certamente, anche alla periferia di Brattleboro, piccola, sperduta cittadina nel Vermont che ha dato i natali al trio, ed è proprio quest'ultima che i nostri hanno deciso di percorrere, imbarcandosi in un personale, itinerante medicine show d'altri tempi, fino a giungere nella "terra promessa" steinbeckiana, l'assolata California. Sembrano proprio tre moderni ‘hobo’, erranti girovaghi nella più profonda America rurale, tra treni merci, dissestate ‘rural route’ e i più disparati, anacronistici personaggi. Un vagabondare musicale dal quale hanno tratto senza dubbio ispirazione, apprendendo fatti, storie e leggende oltre alle arcane sonorità folk ancor bene radicate nelle sterminate campagne statunitensi. Garage-y time, punkfied blues; queste le definizioni date dallo stesso trio per descrivere il loro energico, stringato ed essenziale amalgama elettroacustico, la cui incontenibile vitalità risiede nel rustico vibrare delle corde più varie, siano esse quelle della chitarra del già menzionato Bernhard, del banjo di Cooper McBean, o di quelle ben più corpose del contrabbasso di Lucia Torino, così come in un delirante intrecciarsi di voci, profumante d'antico. Fuoriusciti dal medesimo, fervido "filone revivalistico" di altri sciamannati quali Old Crow Medicine Show, Hackensaw Boys e Pokey LaFarge, i The Devil Makes Three hanno saputo ritagliarsi, nel tempo, un proprio, sicuro pertugio in una, sempre più, brulicante scena Americana, arrivando non solo al ragguardevole traguardo del quarto disco, ma debuttando, con l'odierno I'm A Stranger Here, per la prestigiosa etichetta New West Records. Impresso su nastro in quel di Nashville, presso il celeberrimo Easy Eye Studio di proprietà di Dan Auerbach, questo nuovo lavoro mostra una combo ben conscio delle proprie potenzialità, affinate tra la polvere dei molti chilometri percorsi in quest'ultimi anni, ed oggi capace di dare alle stampe la sua opera più matura e ragionata, priva di cadute di stile o tono, in un febbrile barcamenarsi tra i più diversi dettami della tradizione musicale americana. E se l'intera ossatura strumentale è frutto del lavorio delle dita dei tre titolari, non mancano tuttavia fondamentali contributi esterni, quali la batteria di Marco Giovino e il violino di Casey Dreissen. Proprio l'archetto di quest'ultimo è assoluto protagonista, con guizzanti fraseggi, in una Dead Body Moving d'arrembante irruenza grassy, così come nell'accorata A Moment's Rest, valzer old timey, dove evidenti sono le assonanze con i "colleghi" Old Crow Medicine Show. Marco Giovino, dal canto suo, porta in dote un marcato, sbuffante rollio ritmico ad innervare una, ben più elettrica, Hand Back Down, libera interpretazione del paludoso ‘swampy sound’ marchiato Creedence Clearwater Revival. E' senza dubbio al folk d'ascendenza bianca che il terzetto sembra guardare con maggior attenzione, accostando ad una contagiosa "gioiosità" melodica, liriche d'amaro livore, come nella torbida Stranger, autobiografica narrazione della sradicata vita del musicista, sempre in viaggio di città in città, di concerto in concerto, privo di un luogo da poter chiamare "casa"; o nella rilucente gemma dixieland Forty Days, con tanto di soffiare jazzy dei fiati della Preservation Hall di New Orleans, tristemente ispirata proprio dalla devastazione subita dalla cittadina della Louisiana in seguito al passaggio dell'uragano Katrina, così come dal drammatico straripamento del corso d'acqua attraversante la natia Brattleboro. Si rifà invece alla lezione impartita dal leggendario Hank Williams, Spinning Like A Top, spavaldo honky tonk, venato di swing, con i nostri ad improvvisarsi novelli Drifting Cowboys, per poi provare ad analizzare il traumatico passaggio dall'infanzia all'età adulta in una spigliata Worse Or Better. E se l'indiavolato country gospel di Hallelu, dal sublime, fervente vociare devozionale, guarda da vicino quanto fatto di recente da Pokey LaFarge, Goodbye Old Friend, posta in chiusura, mostra invece il lato più riflessivo del trio, in una, quasi, impalpabile slow country ballad, ‘sporcata’ da elettriche aperture cosmiche. Che altro aggiungere? Ah si, produce, e partecipa attivamente con la propria chitarra, Buddy Miller, come dire: un nome, una garanzia. Un impeccabile compendio, in chiave modernista, di quella ‘vecchia sporca America’ descritta da Greil Marcus, I'm A Stranger Here, da, seguendo le istruzioni stampigliate sulla copertina, «play on all talking machine», meglio ancora se su un vecchio grammofono.



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